Il
libro del professor Dobb è dedicato alla personetica, che il
filosofo finlandese Eino Kaikki ha definito “la scienza più
crudele che l’uomo abbia mai creato”. Dobb, uno dei più eminenti
personeisti contemporanei, condivide questa opinione. Non si può,
egli afferma, sottrarsi alla conclusione che la personetica, nelle
sue applicazioni, è immorale; tuttavia abbiamo a che fare con un
tipo d’indagine che, per quanto contrario ai principi etici, è per
noi necessario dal punto di vista pratico. Non c’è modo nella
ricerca di evitare sia la sua raffinata spietatezza sia di fare
violenza agli istinti naturali dell’uomo e, se anche regge altrove,
il mito dell’innocenza assoluta dello scienziato come indagatore di
fatti qui è certamente crollato. Non si dimentichi che stiamo
parlando di una disciplina che, con pochissima esagerazione, è stata
chiamata “teogonia sperimentale”. nonostante ciò, chi scrive
questa recensione è colpito dal fatto che, quando la stampa, nove
anni fa, diede grande rilievo alla cosa, l’opinione pubblica rimase
sbalordita dalle prospettive aperte dalla personetica. C’era motivo
di credere che ai nostri giorni nulla potesse sorprenderci. L’eco
dell’impresa di Colombo risuonò per secoli, mentre la conquista
della Luna nel giro di una settimana fu assimilata dalla coscienza
collettiva come una cosa praticamente ovvia. E invece la nascita
della personetica si dimostrò un trauma.
Il
nome combina insieme un termine derivato dal latino ed uno dal greco:
“persona” e “genetica” (“genetica” nel senso di
formazione o creazione). Questo campo è una recente diramazione
della cibernetica e della psiconica degli Anni Ottanta, ibridata con
l’intellettronica applicata. Oggi tutti hanno sentito parlare della
personetica; l’uomo della strada, interrogato, direbbe che si
tratta della produzione artificiale di esseri intelligenti, una
risposta certo non lontana dal vero, ma che tuttavia non raggiunge il
nocciolo effettivo della questione. A tutt’oggi possediamo un
centinaio di programmi personetici. Nove anni fa vennero elaborati
schemi d’identità – nuclei primitivi di tipo “lineare” –
ma neppure nella generazione di calcolatori, che oggi ha solo valore
storico, era in grado di fornire il campo per la vera e propria
creazione di personoidi.
La
possibilità teorica di creare la sensibilità consapevole fu
profetizzata tempo fa da Norbert Wiener, come testimoniano certi
passi del suo ultimo libro, Dio
e Golem s.p.a. Certo,
egli vi alludeva nel suo tipico modo semifaceto, ma sotto quel tono
leggero vi erano premonizioni piuttosto sinistre. Wiener tuttavia non
avrebbe potuto prevedere la direzione che avrebbero preso le cose
vent’anni dopo. Il peggio avvenne – per usare le parole di Sir
Donald Acker – quando al MIT “gli ingressi furono messi in corto
con le uscite”.
Oggi
è possibile preparare un “mondo” per “abitanti” personoidi
nel giro di un paio d’ore: tanto ci vuole per introdurre nella
macchina uno dei programmi pronti all’uso (come il BAAL 66, il
CREAN IV o lo JAHVE 09). Dobb descrive gli inizi della personetica
abbastanza per sommi capi, rinviando il lettore alle fonti storiche;
essendo lui stesso da sempre uno sperimentatore professionista, Dobb
parla soprattutto del proprio lavoro, e questo cade molto a
proposito, poiché tra la scuola inglese da lui rappresentata e il
gruppo americano del MIT vi sono differenze notevoli sia sotto il
profilo del metodo sia per quanto riguarda gli scopi sperimentali.
Ecco come Dobb descrive la procedura dei “6 giorni in 120 minuti”:
per prima cosa si fornisce alla memoria della macchina un insieme
minimo di dati; cioè – per mantenersi entro un linguaggio
comprensibile al profano – si carica la memoria con una sostanza di
natura “matematica”. Questa sostanza è il protoplasma di un
“universum” che dovrà essere “abitato” dai personoidi. A
questo punto siamo in grado di fornire agli esseri che entreranno in
questo mondo meccanico e digitale – che condurranno la loro
esistenza in esso e soltanto in esso –, un ambiente con
caratteristiche non finite. Questi esseri, quindi, non possono
sentirsi prigionieri in senso fisico, poiché l’ambiente, dal loro
punto di vista, non ha confini. Il mezzo possiede una sola
dimensione, che somiglia ad una dimensione data anche a noi: quella
del passaggio del tempo (durata). Il loro tempo non presenta tuttavia
un’analogia diretta col nostro, poiché la velocità del suo fluire
è soggetta al controllo discrezionale dello sperimentatore. Di
regola la velocità è resa massima nella fase preliminare (il
cosiddetto fomento creazionale), sicché i nostri minuti
corrispondono, nel calcolatore, a interi eoni durante i quali ha
luogo tutta una serie di riorganizzazioni e cristallizzazioni
successive… di un cosmo sintetico. È un cosmo assolutamente non
spaziale, pur possedendo molte dimensioni; queste infatti hanno
carattere puramente matematico e quindi, si potrebbe dire,
“immaginario”. Esse sono, molto semplicemente, la conseguenza di
certe decisioni assiomatiche del programmatore e il loro numero
dipende da lui. Se per esempio egli decidesse di inserirvi dieci
dimensioni, ciò avrà per la struttura del mondo creato conseguenza
affatto diverse che se ne avesse inserite sei. Dobbiamo sottolineare
che queste dimensioni non hanno alcun rapporto con quelle dello
spazio fisico, ma lo hanno solo con le costruzioni astratte e
logicamente valide impiegate nella creazione dei sistemi.
Dobb
tenta di spiegare questo punto, quasi inaccessibile al non
matematico, ricorrendo a fatti semplici del tipo che in genere si
impara a scuola. È possibile, come sappiamo, costruire un solido
geometrico tridimensionale regolare – diciamo un cubo – che nel
mondo reale ha un corrispettivo della forma del dado; ed è
altrettanto possibile creare solidi geometrici di quattro,
cinque, n dimensioni
(quello a quattro dimensioni è un tesseratto). A questi non
corrisponde più nulla di reale e lo possiamo constatare, dato che,
in assenza di una quarta dimensione fisica, non vi è alcun modo di
foggiare un dado quadridimensionale autentico. Ebbene, questa
distinzione (fra ciò che si può costruire fisicamente e ciò che si
può fare solo matematicamente) in generale non sussiste per i
personoidi, poiché il loro mondo ha una consistenza puramente
matematica. È fatto di matematica, benché i blocchi di costruzione
di questa matematica siano oggetti ordinari e di natura assolutamente
fisica (relé, transistori, circuiti logici: in una parola, tutta
l’immensa rete di circuiti della macchina digitale).
Come
ci insegna la fisica moderna, lo spazio non è qualcosa di
indipendente dagli oggetti e dalle masse che vi sono situati.
L’esistenza dello spazio è determinata da quei corpi; dove essi
non sono, dove non c’è nulla – in senso materiale – là cessa
di esistere anche lo spazio, annullandosi. Orbene, questa funzione
dei corpi materiali, che estendono la loro “influenza”, per così
dire, e “generano” con ciò lo spazio, è esplicata nel mondo dei
personoidi dai sistemi di una matematica che è posta in essere
proprio a questo fine. Fra tutte le “matematiche” costruibili in
generale (ad esempio per via assiomatica), il programmatore, avendo
deciso di compiere un dato esperimento, ne sceglie un gruppo
particolare, che servirà da puntello, da “substrato essenziale”,
da “fondamento ontologico” dell’universum creato. Vi è in
tutto ciò, secondo Dobb, una somiglianza sorprendente col mondo
umano. Questo nostro mondo, dopo tutto, ha “deciso” per certe
forme e per certi tipi di geometria che meglio gli si addicono:
meglio, vale a dire nel modo più semplice (la tridimensionalità,
per restare nell’ambito iniziale). Nonostante ciò, noi siamo in
grado di figurarci “altri mondi” con “altre proprietà”, nel
campo della geometria e non solo di quello. Lo stesso accade per i
personoidi: l’aspetto della matematica che il ricercatore ha scelto
come “habitat” è per loro esattamente ciò che per noi è la
“base del mondo reale” in cui viviamo, in cui siamo costretti a
vivere. E, come noi, i personoidi sono in grado di “figurarsi”
mondi aventi proprietà fondamentali diverse.
Dobb
presenta la sua materia usando il metodo delle approssimazioni e
ricapitolazioni successive; ciò che abbiamo tratteggiato or ora, e
che corrisponde grosso modo ai primi due capitoli del libro, nei
capitoli successivi viene in parte ripreso e complicato. L’autore
ci avverte che non è del tutto vero che i personoidi vengano
semplicemente a trovarsi in un mondo preconfezionato, fisso e
irrevocabilmente irrigidito nella sua forma definitiva; l’aspetto
di quel mondo, nei suoi particolari specifici, dipende da loro, e
tanto più ne dipende quanto più aumenta la loro capacità di
attività, quanto più si sviluppa la loro “iniziativa
nell’esplorazione”. Neanche paragonare l’universum dei
personoidi a un mondo in cui i fenomeni esistono solo nella misura in
cui i suoi abitanti li osservano fornisce un’immagine precisa della
situazione. Questo paragone, che si incontra nei lavori di Sainter e
Huges, viene considerato da Dobb una “deviazione idealistica”: un
omaggio che la personetica ha reso alla dottrina, risuscitata in modo
così curioso e repentino del Berkeley. Sainter sosteneva che i
personoidi conoscerebbero il loro mondo alla maniera di un essere
berkeleyano, che non è in grado di distinguere l’esse dal percipi,
ossia un essere che non scoprirà mai la differenza tra la cosa
percepita e ciò che causa la percezione in modo oggettivo e
indipendente dal percipiente. Dobb rigetta con forza questa
interpretazione. Noi, creatori del loro mondo, sappiamo benissimo che
ciò che viene da loro percepito esiste davvero; esiste all’interno
del calcolatore, indipendentemente da loro, benché, ovviamente, solo
alla maniera degli oggetti matematici.
Poi
ci sono ulteriori chiarificazioni. I personoidi sorgono in modo
germinale in virtù del programma; essi si moltiplicano a una
velocità imposta dallo sperimentatore, una velocità che solo la più
recente tecnologia dell’elaborazione dell’informazione, che opera
a velocità prossime a quelle della luce, può consentire. La
matematica che dovrà costituire la “residenza esistenziale” dei
personoidi non li attende nella sua pienezza, bensì, per così dire,
ancora in “fasce”, inarticolata, sospesa, latente, poiché
rappresenta solo un insieme di certe possibilità a venire, di certi
percorsi contenuti in subunità opportunamente programmate della
macchina. Queste subunità, o generatori, in sé e per sé non danno
alcun contributo; è piuttosto un tipo particolare di attività dei
personoidi che serve a meccanismo d’innesco e mette in moto un
processo di produzione che via via aumenta e si definisce; in altre
parole, il mondo che circonda questi esseri acquista univoca
determinazione in dipendenza dal loro stesso comportamento. Dobb
cerca di illustrare questo concetto facendo ricorso alla seguente
analogia. Un uomo può interpretare il mondo reale in maniere
diverse. Può dedicare, ad esempio, un’attenzione speciale –
un’intensa indagine scientifica – a certi aspetti di questo
mondo, e le conoscenze che egli così acquisisce gettano in seguito
la loro luce particolare sulle restanti porzioni del mondo, quelle
non considerate nella sua ricerca prioritaria. Se egli si dedica allo
studio diligente della meccanica,
si foggerà un modello meccanico del
mondo e vedrà l’Universo come un gigantesco e perfetto orologio
che con moto inesorabile procede dal passato verso un futuro
determinato con precisione. Questo modello non costituisce una
rappresentazione accurata della realtà, e tuttavia si può farne uso
per un lungo periodo storico e ottenere grazie a esso anche molti
successi pratici, come la costruzione di macchine, di strumenti,
eccetera. Analogamente, se i personoidi “inclineranno”, per
scelta, per un atto di volontà, verso un certo tipo di rapporto col
loro universum, e ad esso daranno priorità, se in questo e solo in
questo scopriranno l’“essenza” del loro cosmo, allora essi
percorreranno un cammino ben definito di cimenti e di scoperte, un
cammino che non sarà né illusorio né futile. La loro inclinazione
“estrae” dall’ambiente ciò che meglio le corrisponde.Ciò che
percepiscono per primo è ciò che per primo padroneggiano, dato che
il mondo che li circonda è determinato solo parzialmente, è solo
parzialmente fissato in anticipo dal creatore-ricercatore; in esso i
personoidi conservano un margine nient’affatto insignificante di
libertà di azione, azione tanto “mentale” (nell’ambito di ciò
che essi pensano del proprio mondo, di come lo concepiscono), quanto
“reale” (nel contesto dei loro “atti”, che non sono certo
reali alla lettera, nel nostro senso del termine, ma non sono neppure
puramente immaginari). Questa è, invero, la parte più difficile
dell’esposizione e Dobb, osiamo dire, non riesce a spiegare in modo
del tutto soddisfacente queste speciali qualità dell’esistenza dei
personoidi, qualità che possono essere rese solo nel linguaggio
della matematica dei programmi e degli interventi di creazione.
Dobbiamo quindi accettare per così dire con un atto di fede l’idea
che l’attività dei personoidi non sia né del tutto libera, così
come lo spazio delle nostre azioni, non è del tutto libero, essendo
limitato dalle leggi fisiche della natura, né del tutto determinata,
proprio come noi non siamo vagoni che corrono su binari rigidamente
fissati. Un personoide somiglia a un uomo anche per il fatto che le
“qualità secondarie” dell’uomo – i colori, i suoni
melodiosi, la bellezza delle cose – possono manifestarsi solo
quando egli ha orecchi per udire e occhi per vedere, ma ciò che
rende possibile udire e vedere è stato, in fin dei conti, fornito in
precedenza. I personoidi, nel percepire il loro ambiente, gli
conferiscono, traendole da dentro di loro, quelle qualità
esperienziali che corrispondono esattamente a ciò che per noi è la
bellezza di un paesaggio contemplato – con la differenza,
naturalmente, che a loro è stato fornito uno scenario puramente
matematico. Quanto al problema di “come lo vedano”, non si
asserisce nulla, poiché l’unico modo di apprendere la “qualità
soggettiva della loro sensazione” sarebbe quello di spogliarsi del
nostro involucro umano e diventare personoidi. I personoidi, lo si
rammenti, non hanno né occhi né orecchi, perciò non vedono e non
odono nel senso nostro; nel loro cosmo non c’è luce, non ci sono
tenebre, non c’è prossimità spaziale né distanza, non c’è il
sopra o il sotto; ci sono dimensioni che per noi non sono tangibili,
ma che per loro sono primarie, fondamentali; essi per esempio
percepiscono alla stregua di elementi della coscienza sensoriale
umana certe variazioni del potenziale elettrico. Ma queste variazioni
di potenziale non hanno per loro la natura, diciamo, di pressioni di
corrente, sono piuttosto quel genere di cose che, per un uomo, sono i
fenomeni ottici o acustici più rudimentali: la visione di una
macchia rossa, la percezione di un suono, o il contatto con un
oggetto duro o morbido. Da questo punto in poi, sottolinea Dobb, si
può parlare solo mediante analogie, evocazioni.
Affermare
che i personoidi sono “minorati” rispetto a noi, in quanto non
vedono e non odono come noi, è totalmente assurdo, poiché allo
stesso titolo si potrebbe asserire che siamo noi carenti rispetto a
loro, perché incapaci di sentire con immediatezza il fenomenismo
della matematica che, dopo tutto, noi conosciamo solo per via
cerebrale e inferenziale. Noi entriamo in contatto con la matematica
solo attraverso il ragionamento, ne facciamo “esperienza” solo
attraverso il pensiero astratto. Invece i personoidi vivono in
essa: essa è la loro aria, la loro terra, l’acqua, le nubi,
perfino il loro pane: sì, perfino il cibo, poiché in un certo senso
da essa traggono nutrimento. E, allo stesso modo, soltanto dal nostro
punto di vista essi appaiono “imprigionati”, chiusi ermeticamente
dentro la macchina: proprio come loro non possono trovare una strada
per giungere fino a noi, fino al mondo degli uomini, così per
converso – e simmetricamente – un uomo non può in alcun modo
penetrare all’interno del loro mondo così da esistere in esso e
conoscerlo direttamente. Quindi la matematica, in alcune sue
incarnazioni, è diventata lo spazio vitale di un’intelligenza a
tal punto spiritualizzata da essere affatto incorporea; è diventata
la nicchia e la culla della sua esistenza, il suo elemento.
I
personoidi sono per molti versi simili all’uomo. Sono capaci di
immaginare una contraddizione particolare (che vale a e
che vale non-a),
ma non sono in grado di attualizzarla , esattamente come non lo siamo
noi. La fisica del nostro mondo e la logica del loro non lo
permettono, poiché la logica costituisce per l’universum dei
personoidi esattamente la stessa cornice di delimitazione delle
azioni che la fisica costituisce per il nostro mondo. In ogni caso,
sottolinea Dobb, è assolutamente impossibile per noi affermare
introspettivamente con pienezza ciò che “sentono” e
“sperimentano” i personoidi mentre svolgono la loro intensa vita
nel loro universum nonfinito. La sua totale non spazialità non lo
rende una prigione come invece si sono affrettati a dire i
giornalisti – anzi è il contrario: è la garanzia della loro
libertà, poiché la matematica prodotta dai generatori del
calcolatore quando vengono “eccitati” dall’attività (e ciò
che li eccita a questo modo è precisamente l’attività dei
personoidi), questa matematica è, per così dire, un campo infinito
autogenerantesi di azioni facoltative, di imprese architettoniche e
d’altro genere, di esplorazioni, di eroiche scorribande, di
ardimentose incursioni, di congetture. In una parola: non si è fatta
alcuna ingiustizia ai personoidi conferendo loro il possesso di un
cosmo fatto proprio così e non altrimenti. Non è qui che si trovano
la crudeltà e l’immoralità della personetica.
Nel
settimo capitolo di Non serviam, Dobb presenta al lettore gli
abitanti dell’universum digitale. I personoidi sono dotati di
scioltezza di pensiero oltre al linguaggio, e posseggono anche
emozioni. Ciascuno di essi è un’entità individuale; la loro
differenziazione non è una pura conseguenza delle decisioni del
programmatore-creatore, ma deriva dalla complessità straordinaria
della loro struttura interna. Possono essere somigliantissimi tra
loro, ma non sono mai identici. Venendo al mondo, ciascuno è dotato
di un “nocciolo”, di un “nucleo personale”, e possiede già
le facoltà di parola e di pensiero, per quanto a uno stadio
rudimentale. Hanno un vocabolario, che è tuttavia assai scarno, e
hanno la capacità di costruire frasi in conformità con le regole
della sintassi che è stata a loro imposta. In futuro, a quanto
sembra, sarà possibile fare a meno di imporre loro anche queste
determinanti: non dovremmo far altro che aspettare che essi, come un
gruppo umano primitivo nel corso della socializzazione, sviluppino da
soli il loro linguaggio. Ma a questa linea di sviluppo della
personetica si oppongono due ostacoli cardinali. In primo luogo, la
creazione di un linguaggio richiederebbe un tempo lunghissimo. Allo
stato attuale ci vorrebbero dodici anni, anche spingendo al massimo
la velocità delle trasformazioni all’interno del calcolatore (in
termini figurati e molto approssimativi, un secondo di tempo macchina
corrisponde a un anno di vita umana). In secondo luogo, e questo è
il problema più serio, un linguaggio che nascesse spontaneamente nel
corso dell’“evoluzione del gruppo dei personoidi” ci
risulterebbe incomprensibile, e decifrarlo sarebbe una necessità
paragonabile all’ardua impresa di trovare la chiave di un codice
segreto, impresa tanto più difficile in quanto quel codice non
sarebbe stato creato da persone per altre persone in un mondo comune
anche ai decifratori. Il mondo dei personoidi è di qualità
enormemente diversa dal nostro e quindi un linguaggio adatto a esso
sarebbe di necessità lontanissimo da qualsiasi lingua umana. Per il
momento dunque l’evoluzione linguistica ex
nihilo è
soltanto un sogno dei personetisti.
I
personoidi, una volta “messe le radici del loro sviluppo”, si
trovano di fronte a un enigma che è fondamentale e per essi supremo:
quello della loro origine. Vale a dire, essi si pongono domande, che
poi sono le stesse domande che noi conosciamo dalla storia dell’uomo,
dalla storia delle sue credenze religiose, dalle sue indagini
filosofiche e dalle sue creazioni mistiche: Da dove siamo venuti?
Perché siamo fatti così e non altrimenti? Perché il mondo che
percepiamo ha queste proprietà e nn altre del tutto diverse? Che
significato abbiamo noi per il mondo? Che significato ha essi per
noi? Inevitabilmente il corso di queste speculazioni li porta da
ultimo alle questioni fondamentali dell’ontologia, al problema se
l’esistenza sia prodotta “in sé e da sé” o se invece sia il
prodotto di uno specifico atto creativo; cioè se, nascosto dietro di
essa, dotato di volontà e coscienza, capace di azioni finalizzate,
padrone della situazione, non ci possa essere un Creatore. È qui che
si manifesta tutta la crudeltà, tutta l’immoralità della
personetica.
Ma
prima di passare, nella seconda parte del libro, al resoconto di
questi sforzi intellettuali – del dibattersi di una condizione
mentale divenuta preda di tormenti legati a questi problemi – Dobb
ci presenta in una serie di capito consecutivi un ritratto del
“personoide tipico”, la sua “anatomia, fisiologia e
psicologia”.
Un
personoide isolato non è in grado di andare più in là di uno
stadio rudimentale di pensiero, poiché, dato il suo isolamento, non
può fare uso della parola, e senza la parola il pensiero discorsivo
non può svilupparsi. Come hanno dimostrato centinaia di esperimenti,
l’optimum si ha con gruppi formati da quattro a un massimo di sette
personoidi, almeno per quanto riguarda lo sviluppo del linguaggio e
l’attività esplorativa normale, e anche l’“acculturazione”.
D’altra parte fenomeni corrispondenti a processi sociali su scala
più vasta richiedono gruppi più numerosi. Attualmente in un
universum di calcolatore di ragionevole capacità è possibile
“alloggiare” fino a un migliaio circa di personoidi; ma studi di
questo tipo, che competono a una disciplina separata e indipendente,
la sociodinamica, esulano dall’area dell’interesse primario di
Dobb e per questa ragione il suo libro li menziona solo di sfuggita.
Come si è detto, un personoide non ha corpo, ma ha un’“anima”.
Quest’anima, a un osservatore esterno che abbia accesso al mondo
delle macchine (per mezzo di un dispositivo particolare, un modulo
ausiliario consistente in una specie di sonda incorporata nel
calcolatore), appare come una “nube coerente di processi”, come
un aggregato funzionale avente una specie di “centro” che può
essere isolato con una certa precisione, ciè delimitato entro i
circuiti della macchina. (Ciò, si noti, non è facile, e per più
versi ricorda il tentativo dei neurofisiologi di individuare i centri
localizzati di molte funzioni del cervello umano). Essenziale per la
comprensioni di che cosa renda possibile la creazione dei personoidi
è il capitolo XI di Non
serviam,
che spiega in termini piuttosto semplici i fondamenti della teoria
della coscienza. La coscienza – tutta la coscienza, non
semplicemente quella dei personoidi – è, quanto all’aspetto
fisico, un’“onda stazionaria informazionale”, un certo
invariante dinamico in un flusso di trasformazioni incessanti, la cui
peculiarità sta nel fatto che essa rappresenta un “compromesso”
e nello stesso tempo un “risultante” che, per quanto ci consta,
non era affatto previsto dall’evoluzione naturale. È vero anzi il
contrario; fin dall’inizio l’evoluzione pose difficoltà e
problemi tremendi sulla strada dell’armonizzazione del
funzionamento dei cervelli al di sopra di una certa grandezza –
cioè di un certo livello di complicazione – ed è chiaro che essa
sconfinò nel territorio di questi dilemmi senza volerlo, poiché
l’evoluzione si “trascinò dietro” certe soluzioni evolutive
antichissime date a problemi di controllo e regolazione comuni al
sistema nervoso fino al livello in cui ebbe inizio l’antropogenesi.
Sotto il profilo puramente razionale dell’efficienza
ingegneristica, tali soluzione avrebbero dovuto essere soppresse o
abbandonate, per passare alla progettazione di qualcosa d’interamente
nuovo: vale a dire il cervello di un essere intelligente. Ma è
chiaro che l’evoluzione non poteva procedere in questo modo, poiché
non rientrava nei suoi poteri sbarazzarsi del retaggio delle vecchie
soluzioni, spesso antiche di centinaia di milioni di anni. Poiché
essa avanza sempre per microscopici incrementi di adattamento, poiché
“striscia” e non può “saltare”, l’evoluzione è una rete a
strascico “che trascina con sé innumerevoli arcaismi e rifiuti di
ogni genere”, per dirla con l’immagine sbrigativa di Tammer e
Bovine. (Tammer e Bovine sono due degli ideatori della simulazione al
calcolatore della psiche umana, che gettò le basi per la nascita
della personetica). La coscienza dell’uomo è il risultato di un
compromesso di genere particolare. È uno “zibaldone”, ovvero,
come osservò per esempio Gebhardt, una perfetta esemplificazione del
ben noto adagio tedesco “Aus
einer Not eine Tugend machen” (cioè
“fare di necessità virtù” ). Una macchina digitale non potrà
mai acquisire coscienza da sola, per la semplice ragione che in essa
non sorgono conflitti gerarchici di funzionamento. Una tale macchine
può, al massimo, cadere in una sorta di “paralisi logica” o di
“stupore logico” quando in essa le antinomie si moltiplichino. Le
contraddizioni di cui pullula letteralmente il cervello dell’uomo
furono invece sottoposte, nel corso di centinaia di migliaia di anni,
a graduali procedimenti di arbitrato. Si costituirono livelli più
alti e livelli più bassi, livelli di riflessi e di riflessione,
d’impulso e di controllo, furono costruiti modelli dell’ambiente
elementale con mezzi zoologici e modelli dell’ambiente concettuale
con mezzi linguistici. Questi vari livelli non sono in grado e non
“vogliono” attagliarsi perfettamente l’uno all’altro o
fondersi per formare un tutto unico.
Che
cos’è, allora la coscienza? Un espediente, un sotterfugio, una
scappatoia, una presunta ultima risorsa, una pretesa (ma solo
pretesa) corte d’appello insindacabile. E, nel linguaggio della
fisica e della teoria dell’informazione, è una funzione che, una
volta iniziata, non ammette alcuna chiusura, cioè alcun
completamento definitivo. È dunque solo un progetto di
tale chiusura, di tale “conciliazione” totale delle tenaci
contraddizioni del cervello. È, si potrebbe dire, uno specchio il
cui compito è quello di riflettere altri specchi, che al loro volta
ne riflettono altri ancora, e così via all’infinito. Dal punto di
vista fisico, ciò semplicemente non è possibile, e quindi
il regressus
ad infinitum rappresenta
una sorta di pozzo su cui si libra e volteggia il fenomeno della
coscienza umana. “Sotto il conscio” si svolge di continuo una
battaglia per una piena rappresentazione – in esso – di ciò che
non può raggiungerlo con pienezza; e non può raggiungerlo per pura
e semplice mancanza di spazio; perché per concedere pieno e uguale
diritto a tutte quelle tendenze che rumoreggiano per attirare
l’attenzione dei centri della consapevolezza sarebbero necessari
una capacità e un volume infiniti. Regnano quindi intorno al conscio
una ressa e un pigia pigia incessanti, e il conscio non è, non è
affatto, il supremo, imperturbabile e sovrano timoniere di tutti i
fenomeni mentali, ma piuttosto un sughero galleggiante sulle onde
agitate, un sughero la cui posizione elevata non significa il dominio
su quelle onde… La teoria moderna della coscienza, interpretata
sotto il profilo informazionale e dinamico, non può sfortunatamente
essere espressa in modo semplice e chiaro, sicché dobbiamo
costantemente ripiegare – almeno qui, in questa presentazione più
accessibile sull’argomento – su una serie di modelli e di
metafore visivi. Sappiamo, in ogni caso, che la coscienza è una
specie di sotterfugio, uno stratagemma cui ha fatto ricorso
l’evoluzione, e vi ha fatto ricorso nello spirito del suo
caratteristico e indispensabile modus operandi, l’opportunismo,
trovando cioè una scappatoia rapida e improvvisata quando si è
scoperta con le spalle al muro. Se dunque si volesse costruire un
essere intelligente procedendo secondo i canoni di un’ingegneria e
di una tecnica, l’essere così costruito, in generale, non avrebbe
il dono della coscienza. Si comporterebbe in modo perfettamente
logico, sempre coerente, lucido e ben ordinato e potrebbe addirittura
sembrare, a un osservatore umano, un genio dell’azione creativa e
della decisione. Ma non potrebbe in alcun modo essere un uomo, poiché
sarebbe privo della sua misteriosa profondità, delle sue complessità
interne, della sua natura labirintica…
Non
ci vogliamo qui addentrare ulteriormente nella teoria moderna della
psiche cosciente, e del resto non lo fa neppure il professor Dobb. Ma
queste poche parole erano necessarie, poiché esse forniscono la
necessaria introduzione alla struttura dei personoidi. Con la loro
creazione si è finalmente tradotto in realtà uno dei miti più
antichi, quello dell’homunculus. Per foggiare un simulacro
dell’uomo, della sua psiche, si devono introdurre a bella posta nel
substrato informazionale delle contraddizioni specifiche; gli si deve
impartire un’asimmetria, una serie di tendenze acentriche; in una
parola si deve unificare e
insieme rendere discorde.
È razionale tutto ciò? Sì, e anche pressoché inevitabile, se
desideriamo non semplicemente costruire una qualche sorta
d’intelligenza sintetica, bensì imitare il pensiero e, con esso,
la personalità dell’uomo.
Le
emozioni dei personoidi, quindi, debbono in qualche misura essere in
conflitto con la loro ragione; essi devono possedere tendenze
autodistruttive, almeno fino a un certo punto; devono sentire
tensioni interne, quella totale spinta centrifuga che noi
sperimentiamo ora come una splendida infinità di stati spirituali,
ora come uno smembramento insopportabilmente doloroso. La ricetta per
creare tutto ciò, intanto, non ha affatto la complessità
sconfortante che si potrebbe credere. Si tratta semplicemente di
questo: la logicadella
creazione (del personoide) deve essere disturbata, deve contenere
certe antinomie. La coscienza non è solo un modo per uscire dal
vicolo cieco dell’evoluzione, dice Hilbrandt, ma anche una via di
fuga dalle trappole della gödelizzazione, poiché, grazie alle
contraddizioni paralogistiche, questa soluzione ha eluso le
contraddizioni di cui è soggetto qualunque sistema che sia perfetto
sotto il profilo logico. Così dunque l’universum dei personoidi è
perfettamente razionale, ma essi non ne sono abitatori pienamente
razionali. Questo ci basti: neppure il professor Dobb indaga oltre
questo difficilissimo argomento. Come già sappiamo, i personoidi
hanno un’anima ma non un corpo, e perciò non hanno neppure alcuna
sensazione della loro corporeità. “È difficile immaginare” è
stato detto di ciò che si sperimenta in certi stati particolari
della mente, nell’oscurità totale, riducendo al massimo il flusso
degli stimoli esterni; ma, sostiene Dobb, questa è un’immagine
fuorviante, poiché senza l’apporto dei sensi il cervello umano
comincia ben presto a disintegrarsi; senza una corrente di impulsi
dal mondo esterno, la psiche manifesta una tendenza alla lisi. Ma i
personoidi, che pure non hanno sensi fisici, certo non si
disintegrano, poiché ciò che conferisce loro coesione è l’ambiente
matematico che essi di fatto sperimentano. Ma come? Essi lo
sperimentano, diciamo, secondo quei cambiamenti del loro stato che
sono provocati e imposti loro dalla “esternità” dell’universum.
Essi sono in grado di discriminare tra i cambiamenti provenienti dal
di fuori e i cambiamenti che affiorano dalle profondità della loro
psiche. Come operano questa discriminazione? Solo la teoria della
struttura dinamica dei personoidi può fornire una risposta diretta a
questa domanda.
Eppure,
a dispetto di tutte queste impressionanti differenze, essi sono come
noi. Sappiamo già che una macchina digitale non potrà mai avere la
scintilla della coscienza; qualunque sia il lavoro per cui la
sfruttiamo o il processo fisico che vi simuliamo, essa resterà
sempre apsichica. Poiché per simulare l’uomo è necessario
riprodurre alcune delle sue contraddizioni fondamentali, soltanto un
sistema di antagonismi gravitanti l’uno sull’altro – un
personoide – somiglierà, per usare le parole di Canyon citate da
Dobb, a una “stella contratta dalla forza di gravità e allo stesso
tempo espansa dalla pressione della radiazione”. Il centro di
attrazione gravitazionale è, molto semplicemente, l’“io”
personale, che però non costituisce affatto un’unità né in senso
logico né in senso fisico. Questa è solo una nostra illusione
soggettiva! A questo punto dell’esposizione, ci troviamo in mezzo a
uno stuolo di sorprese stupefacenti. È certamente possibile
programmare una macchina digitale in modo da poter conversare con
essa come con un interlocutore intelligente. La macchina, ove ne
insorga il bisogno, impiegherà il pronome “io” e tutte le
corrispondenti forme grammaticali. Ma ciò è pura mistificazione. La
macchina sarà sempre più prossima a un miliardo di pappagalli
chiacchieroni – per quanto meravigliosamente addestrati – che
all’uomo più semplice e più stupido. Essa scimmiotta il
comportamento dell’uomo sul piano puramente linguistico e niente
più. Nulla potrà divertire o sorprendere o confondere o allarmare o
affliggere questa macchina, poiché sotto il profilo psicologico e
individuale essa non è Qualcuno. È una Voce che espone argomenti,
che fornisce risposte alle domande; è una Logica capace di
sconfiggere lo scacchista più bravo; è, o meglio può diventare, un
abilissimo imitatore di qualunque cosa, un attore, se si vuole,
spinto al culmine della perfezione, capace di sostenere qualunque
parte programmata; ma un attore e un imitatore che, dentro, è
completamente vuoto. non si può contare sulla sua cordialità, né
sulla sua antipatia. Essa non si adopera per raggiungere uno scopo
prefissosi. Con un’assolutezza che nessun uomo potrebbe mai neanche
lontanamente concepire, “è indifferente”, poiché come persona
semplicemente non esiste… È un meccanismo combinatorio
straordinariamente efficiente, e null’altro. Ebbene, ci troviamo di
fronte a un fenomeno notevolissimo. È stupefacente pensare che dal
materiale grezzo di una macchina così vacua e così impersonale sia
possibile, introducendo in essa un programma speciale, un programma
personetico, creare esseri senzienti autentici e, anzi, crearne un
gran numero tutti in una volta! Gli ultimi modelli IBM hanno una
capacità massima di mille personoidi. (Questo numero è dato con
precisione matematica, poiché gli elementi e i collegamenti
necessari per produrre un personoide si possono esprimere in unità
del sistema CGS).
All’interno
della macchina i personoidi sono separati l’uno dall’altro. Di
solito essi non si “sovrappongono”, benché ciò possa accadere.
Al contrario avviene qualcosa di equivalente alla repulsione, il che
impedisce l’“osmosi” reciproca. Ciò nonostante, se lo
desiderano, sono in grado di compenetrarsi. In tal caso i processi
che costituiscono il loro substrato mentale cominciano a sovrapporsi
l’uno all’altro, producendo “rumore” e interferenze. Quando
l’area di permeazione è esigua, una certa quantità d’informazione
diventa proprietà comune dei due personoidi in parziale coincidenza;
si tratta di un fenomeno per loro assai singolare, come per un uomo
sarebbe singolare, se non addirittura allarmante, udire nella propria
testa “strane voci” e “pensieri estranei” (come
effettivamente avviene nel caso di certe malattie mentali o per
effetto di sostanze allucinogene). È come se due persone avessero
non semplicemente gli stessi ricordi, ma i medesimi ricordi;
come se fosse avvenuto qualcosa di più che un trasferimento
telepatico di pensiero; come se ci fosse stata una “fusione
periferica degli io”. Il fenomeno, tuttavia, ha conseguenze spesso
infauste ed è da evitarsi. infatti, dopo uno stadio transitorio di
osmosi superficiale, il personoide “avanzante” può distruggere e
consumare l’altro. In tal caso quest’ultimo subisce un vero e
proprio assorbimento, un annientamento: cessa di esistere (a questo
proposito si è parlato di assassinio). Il personoide annientato
diventa una parte assimilata e indistinguibile dell’“aggressore”.
Siamo riusciti – dice Dobb – a simulare non soltanto la vita
psichica, ma anche i suoi rischi e la sua obliterazione. Siamo dunque
riusciti a simulare anche la morte. In condizioni sperimentali
normali, tuttavia, i personoidi evitano questi atti di aggressione; è
rarissimo incontrare tra loro gli “psicofagi” (il termine è di
Castler). Quando sentono gli inizi di un’osmosi, che può insorgere
come risultato di accostamenti e di fluttuazioni del tutto
accidentali – ed essi sentono questa minaccia in un modo che
naturalmente non è fisico, ma più o meno come un uomo potrebbe
avvertire la presenza di un altro o magari udire nella propria mente
“voci strane” – i personoidi si affrettano a eseguire manovre
per evitarla; si ritraggono e vanno ciascuno per la sua strada. È
sulla base di questo fenomeno che essi sono giunti a conoscere il
significato dei concetti di “bene” e di “male”. Per loro è
evidente che il “male” risiede nella distruzione di un loro
simile e il “bene” nella sua liberazione. Allo stesso tempo, il
“male” dell’uno può essere il “bene” (cioè il vantaggio,
ora non più in senso etico) dell’altro, il quale diventerebbe così
uno “psicofago”. Infatti questa espansione – l’appropriarsi
del “territorio intellettuale” di un altro – accresce l’“area”
mentale ricevuta all’inizio. In un certo senso, si tratta di un
corrispettivo di una delle nostre pratiche, poiché in quanto
carnivori noi uccidiamo le nostre vittime e ce ne cibiamo. I
personoidi, però, non sono obbligati a comportarsi in questo modo;
hanno semplicemente la facoltà di farlo. Essi non conoscono né fame
né sete, poiché sono sostenuti dal flusso continuo di energia –
un’energia della cui fonte essi non debbono preoccuparsi (proprio
come noi non dobbiamo fare nulla di particolare affinché il sole ci
mandi i suoi raggi). Nel mondo dei personoidi non possono essere
applicati all’energia i termini e i princìpi della termodinamica,
poiché quel mondo è soggetto a leggi matematiche e non
termodinamiche.
Non
passò molto tempo prima che gli sperimentatori giunsero alla
conclusione che i contatti tra i personoidi e gli uomini effettuati
attraverso gli ingressi e le uscite del calcolatore non solo erano di
scarso valore scientifico, ma in più generavano certi dilemmi morali
i quali contribuirono a far sì che la personetica venisse
qualificata come la più crudele delle scienze. Vi è qualcosa di
meschino nell’informare i personoidi del fatto che li abbiamo
creati in universi chiusi che simulanosoltanto
l’infinito, che essi sono microscopiche “psicocisti” o capsule
in seno al nostro mondo. Certo, essi posseggono una loro infinità;
perciò Sharker e altri psiconetici (Falk, Wiegeland) sostengono che
la situazione è del tutto simmetrica: i personoidi non hanno bisogno
del nostro mondo, del nostro “spazio vitale”, proprio come noi
non sappiamo che farcene della loro “terra matematica”. Per Dobb
questi ragionamenti sono sofistici, poiché non può esservi dubbio
su quali siano i creatori e quali le creature e su chi sia stato
confinato esistenzialmente. Dobb appartiene a quel gruppo che
sostiene il principio del non intervento assoluto – il “non
contatto” – nei confronti dei personoidi. Si tratta dei
comportamentisti della personetica: il loro desiderio è quello di
osservare esseri intelligenti sintetici, di spiare i loro discorsi e
i loro pensieri, di registrare le loro azioni e occupazioni, senza
tuttavia mai interferire con essi. Questo metodo è già sviluppato e
possiede una propria tecnica basata su un insieme di strumenti la cui
messa a punto ha presentato difficoltà che ancora pochi anni fa
parevano quasi insormontabili. L’idea è di ascoltare, di
comprendere – in breve, di origliare incessantemente – impedendo
però nel contempo che questo “ascolto” disturbi in qualsiasi
modo il mondo dei personoidi. Esistono presso il MIT programmi ancora
allo stadio di progetto (l’APHERON II e l’EROT), che permettevano
ai personoidi, i quali per il momento non hanno sesso, di avere
“contatti erotici”, rendendo possibile ciò che corrisponde alla
fecondazione e dando loro modo di moltiplicarsi “per via sessuale”.
Dobb dichiara apertamente di non essere entusiasta dei progetti
americani. In suo lavoro, così com’è descritto in Non serviam,
punta in una direzione completamente diversa: non per nulla la scuola
inglese di personetica è stata chiamata “poligono filosofico” e
“laboratorio di teodicea”. Con queste descrizioni giungiamo a
quella che è probabilmente la parte più significativa, e certamente
la più affascinante del libro in oggetto: l’ultima parte, che ne
giustifica e ne spiega lo strano titolo.
Dobb
fornisce un resoconto del suo esperimento, che è in corso senza
interruzioni da otto anni. Alla creazione egli accenna solo di
sfuggita; si tratta di una duplicazione abbastanza ordinaria di
funzioni tipica del programma JAHVE VI, con lievi modifiche. Egli
riassume i risultato ottenuti “intercettando” questo mondo che
egli stesso ha creato e i cui sviluppi egli continua a seguire. Dobb
considera questa pratica dell’intercettazione come immorale e, a
volte, addirittura vergognosa. Tuttavia egli continua il proprio
lavoro, professando di credere nella necessità, per la scienza, di
compiere anche esperimenti
siffatti, esperimenti che non possono essere in alcun modo
giustificati su basi morali né in verità su nessun’altra base che
non sia il progresso della conoscenza. La situazione, egli dice, è
arrivata a un punto tale per cui gli scienziati non possono più
mantenere i loro vecchi atteggiamenti ambigui. Non si può affettare
un’elegante neutralità e tacitare i rimorsi di coscienza
ricorrendo ad esempio al ragionamento inventato dai vivisezionisti,
cioè che quelli ai quali si causa sofferenza o anche solo fastidio
non sono creature pienamente coscienti, esseri sovrani. Negli
esperimenti sui personoidi siamo doppiamente responsabili, poiché
prima creiamo e poi incateniamo ciò che abbiamo creato al disegno
dei nostri procedimenti di laboratorio. Qualunque cosa facciamo e
comunque spieghiamo il nostro agire, non possiamo più sottrarci alla
nostra responsabilità.
I
molti anni di esperienza da parte di Dobb e dei suoi collaboratori a
Oldport portarono alla costruzione del loro universum a otto
dimensioni, che divenne dimora di personoidi chiamati ADAN, ADNA,
ANAD, DANA, DAAN e NAAD. I primi personoidi svilupparono i rudimenti
di linguaggio ricevuti ed ebbero una “progenie” per scissione.
Dobb, adottando un linguaggio biblico, scrive: “E ADAN generò
ADNA. ADNA a sua volta generò DAAN e DAAN diede i natali a EDAN, che
partorì EDNA…”. Le cose continuarono in questo modo finché si
giunge alla trecentesima generazione; poiché, tuttavia, la capacità
del calcolatore era sufficiente solo per cento unità di personoidi,
vi furono eliminazioni periodiche del “surplus demografico”. Alla
trecentesima generazione fecero di nuovo la loro comparsa personoidi
di nome ADAN, ADNA, ANAD, DANA, DAAN e NAAD, con numeri suppletivi
per indicare il loro ordine nella discendenza. (Per semplicità nella
nostra ricapitolazione ometteremo questi numeri). Dobb scrive che il
tempo trascorso nell’universum contenuto nel calcolatore
corrisponde – facendo una trasformazione approssimata alle nostre
unità di misura equivalenti – a duemila-duemilacinquecento anni.
In questo periodo, nella popolazione dei personoidi si sono
sviluppate svariatissime spiegazioni del loro destino; essi hanno
anche formulato vari modelli, contrastanti e mutuamente esclusivi, di
“tutto ciò che esiste”. Sono cioè nate molte filosofie
(ontologie e gnoseologie) diverse e anche “esperimenti metafisici”
di un genere tutto particolare. Non sappiamo se sia perché la
“cultura” dei personoidi è troppo dissimile da quella umana o
perché l’esperimento è stato finora troppo breve, fatto sta che
nella popolazione studiata non si è mai cristallizzata una fede
completamente dogmatizzata: una fede paragonabile diciamo, al
Buddhismo o al Cristianesimo. Peraltro già all’ottava generazione
si nota la comparsa della nozione di un Creatore concepito come
essere personale in una prospettiva monoteistica.
L’esperimento
consiste nell’aumentare al massimo la velocità delle
trasformazioni operate dal calcolatore e poi (più o meno una volta
all’anno) nell’abbassarla per rendere possibile l’osservazione
diretta. Questi cambiamenti di velocità, come ci spiega Dobb, non
vengono affatto percepiti dagli abitanti dell’universum in seno al
calcolatore, così come le variazioni del genere non sarebbero
percepite da noi, poiché quando tutta l’esistenza subisce un
cambiamento repentino (in questo caso, nella dimensione temporale)
coloro che vi sono immersi non possono rendersene conto, dal momento
che non hanno un punto fisso, un sistema di riferimento, rispetto al
quale accorgersi che esso sta avvenendo.
L’impiego
di “due marce cronologiche” permise di ottenere ciò che Dobb più
desiderava, cioè l’emergere di una storia personoide, una storia
dotata di profondità di tradizioni e di prospettiva nel tempo
futuro. Riassumere tutti i dati di questa storia registrati da Dobb,
che sono spesso di natura sensazionale, non ci è possibile. Ci
limiteremo perciò ai passi dai quali scaturì l’idea che è
rispecchiata nel titolo del libro. Il linguaggio impiegato dai
personoidi è una trasformazione recente dell’inglese standard, il
cui lessico e la cui sintassi erano stati incorporati nel programma
della prima generazione. Dobb lo traduce in un inglese
sostanzialmente normale, ma lascia intatte alcune espressioni coniate
dal popolo dei personoidi. Tra queste figurano i termini “con-dio”
e “senza-dio”, impiegati per indicare i credenti in Dio e gli
atei.
ADAN
discute con DAAN e ADNA (i personoidi in realtà non usano questi
nomi, che sono un puro e semplice espediente pratico cui ricorrono
gli osservatori per poter registrare più facilmente i “dialoghi”
) a proposito di un problema che si sono posti anche gli uomini, un
problema che nella nostra storia ebbe origine con Pascal, ma che
nella storia dei personoidi fu scoperto da un certo EDAN 197. Proprio
come Pascal, questo pensatore asserì che credere in Dio è in ogni
caso più vantaggioso che non crederci, poiché se la verità sta
dalla parte dei “senza-dio” il credente, lasciando il mondo,
perde solo la vita, mentre de Dio esiste egli si guadagna l’eternità
(la gloria perenne). Pertanto è consigliabile credere in Dio, poiché
ciò è in fin dei conti in linea con la tattica esistenziale di
pesare i pro e i contro nella ricerca dell’esito migliore.
A
proposito di questa impostazione ADAN 300 è della seguente opinione:
EDAN 197, nella sua argomentazione, ipotizza un Dio che esige
ossequio, amore e devozione totale e non solo e semplicemente la
convinzione che Egli esista e che abbia creato il mondo. Per
guadagnarsi la salvezza non basta consentire all’ipotesi Dio
Fattore del Mondo; si deve anche essere grati a quel Fattore per il
suo atto creativo, divinare la Sua volontà e seguirla. In breve si
deve servire Dio. Ora, Dio, se esiste, ha il potere di dimostrare la
Sua esistenza in un modo almeno tanto convincente quanto lo è il
modo in cui testimonia della Sua esistenza ciò che può essere
percepito direttamente. È evidente che non si può dubitare che
certi oggetti esistano e che il nostro mondo si componga di essi.
Tutt’al più si potranno nutrire dubbi su che cosa essi facciano
per esistere, su come essi esistano, ecc. Ma il fatto in sé della
loro esistenza non può essere negato. Dio poteva fornire le prove
della Sua esistenza con questa stessa forza. Eppure Egli non l’ha
fatto, condannandoci a conseguire, a questo riguardo, una conoscenza
che è obliqua, indiretta, espressa sotto forma di varie congetture,
alle quali viene dato talvolta il nome di rivelazione. Se ha agito
così, Egli ha con ciò posto i “con-dio” e i “senza-dio”
sullo stesso piano; non ha obbligato le Sue creature a una fede
assoluta nella Sua esistenza, ma ha soltanto offerto loro questa
possibilità. Certo, i motivi che hanno mosso il Creatore possono
essere celati alle Sue creature. Comunque sia, vale la seguente
proposizione: o Dio esiste o Dio non esiste. Che vi sia una terza
possibilità (Dio è esistito ma non esiste più, oppure esiste a
intermittenza, in modo oscillante, o esiste a volte “di meno” e a
volte “di più”, ecc.) appare improbabilissimo. Questa
possibilità non può essere esclusa in modo assoluto, ma
l’introduzione di una logica polivalente in una teodicea serve solo
a ingarbugliarla.
Così
dunque o Dio c’è o non c’è. E se Dio stesso accetta la nostra
situazione, in cui ciascun corno del dilemma in oggetto ha argomenti
a proprio sostegno – poiché i “con-dio” dimostrano l’esistenza
del Cratore e i “senza-dio” la confutano – allora, dal punto di
vista della logica, si ha a che fare con un gioco i cui partecipanti
sono, da una parte, l’insieme completo dei “con-dio” e del
“senza-dio” e, dall’altra, Dio da solo. Il gioco possiede di
necessità il connotato logico che Dio non può punire qualcuno solo
perché questi non crede in Lui. Se si ignora in modo assoluto se una
certa cosa esista oppure no, per cui semplicemente alcuni asseriscono
che esiste e altri che non esiste, e se in generale è possibile
avanzare l’ipotesi che la cosa non sia mai esistita, allora nessun
tribunale equo potrà condannare qualcuno che neghi l’esistenza di
questa cosa. Poiché in tutti i mondi vale questo principio: quando
non c’è certezza piena non c’è piena responsabilità. Sotto il
profilo puramente logico questa formulazione è inattaccabile, poiché
stabilisce una funzione di rimunerazione simmetrica nel contesto
della teoria dei giochi; chiunque, di fronte all’incertezza, esiga
piena responsabilità distrugge la simmetria matematica del gioco; si
ha allora a che fare con i cosiddetti giochi a somma non zero.
Pertanto
le cose stanno così: o Dio è perfettamente giusto, nel qual caso
Egli non può arrogarsi il diritto di punire i “senza-dio” a
causa del fatto che sono “senza-dio” (cioè che non credono in
Lui); oppure Egli punisce effettivamente i non credenti, il che
significa che dal punto di vista logico Egli non è perfettamente
giusto. Che cosa ne consegue? Ne consegue che Egli può agire come
gli pare, poiché quando in un sistema logico si permette anche solo
una solitaria contraddizione, allora, per il principio ex
falso quodilbet,
da quel sistema si può dedurre qualunque conclusione si voglia. In
altre parole: un Dio giusto non può torcere un capello ai
“senza-dio” e, se lo fa, allora per quell’atto stesso Egli non
è quell’essere universalmente perfetto e giusto postulato dalla
teodicea.
ADNA
chiede come si debba considerare, alla luce di questa impostazione,
il problema del fare del male agli altri.
ADAN
300 risponde: Tutto ciò che accade qui è assolutamente certo; tutto
ciò che accade “là” – cioè oltre i confini del mondo,
nell’eternità, presso Dio – è incerto, poiché viene solo
inferito sulla base delle ipotesi. Qui non si dovrebbe commettere il
male, anche se il principio di evitare il male non è dimostrabile
logicamente. Ma allo stesso titolo neppure l’esistenza del mondo
può essere dimostrata logicamente. Il mondo esiste, anche se
potrebbe non esistere. Il male può essere commesso, anche se sarebbe
bene non commetterlo e questo, credo, a causa del nostro accordo
basato sulla regola di reciprocità: comportati con me come io mi
comporto con te. Ciò non ha nulla a che vedere con l’esistenza o
la non esistenza di Dio. Se dovessi astenermi dal commettere il male
nel timore che, a causa di ciò, “là” sarei punito, oppure se
dovessi compiere il bene contando su una ricompensa “là”,
fonderei la mia condotta su basi incerte. Qui, invece, non può
esservi base più solida del nostro reciproco accordo in questa
faccenda. Se “là” vi sono altre basi, io non ho di esse
conoscenza altrettanto precisa di quella che ho, qui, delle nostre.
Vivendo giochiamo il gioco della vita, e in esso siamo tutti alleati.
Quindi la partita fra noi è perfettamente simmetrica. Col postulare
Dio, postuliamo che la partita abbia un prolungamento oltre il mondo.
Io credo che sia lecito postulare questo prolungamento, purché esso
non influenzi in alcun modo lo svolgimento della partita qui.
Altrimenti, in nome di qualcuno che forse non esiste potremmo
sacrificare ciò che esiste qui ed esiste di sicuro.
NAAD
osserva che l’atteggiamento di ADAN 300 verso Dio non gli è
chiaro. ADAN ha ammesso, la possibilità che il creatore esista: che
cosa segue da ciò?
ADAN:
Nulla di nulla. Cioè nulla che abbia carattere di obbligo. Io credo
che valga – e anche questo in tutti i mondo – il principio
seguente: un’etica temporale è sempre indipendente da un’etica
trascendente. Ciò significa che un’etica dell’hic
et nunc non
può avere fuori di sé alcuna sanzione che possa sostanziarla. E ciò
significa che chi commette il male è in ogni caso un farabutto, così
come chi fa il bene è in ogni caso un virtuoso. Se qualcuno è
disposto a servire Dio giudicando sufficienti gli argomenti a favore
della Sua esistenza, costui non acquista con ciò alcun merito
addizionale qui:
è affar suo. Questo principio si basa sull’assunto che se Dio non
esiste, allora Egli non esiste neanche un po’, e se esiste, è
onnipotente. Essendo onnipotente, Egli potrebbe allora creare non
soltanto un altro mondo, ma del pari anche un’altra logica diversa
da quella su cui si fonda il mio ragionamento. All’interno di
questa logica, l’ipotesi di un’etica temporale potrebbe essere
necessariamente dipendente da un’etica trascendente. In tal caso le
prove logiche, se non quelle palpabili, avrebbero una forza cogente e
ci obbligherebbero ad accettare l’ipotesi di Dio per tema di
peccare contro la ragione.
NAAD
dice che Dio non desidera una situazione che a tal punto obblighi a
credere in Lui, situazione che si presenterebbe in un creato basato
sull’altra logica postulata da ADAN 300. A ciò questi risponde:
Un
Dio onnipotente deve essere anche onnisciente; il potere assoluto non
è qualcosa d’indipendente dalla conoscenza assoluta, poiché colui
che può fare tutto ma non sa quali conseguenze seguiranno
dall’esercizio della propria onnipotenza non è più, ipso facto,
onnipotente; se Dio facesse qualche miracolo ogni tanto, come corre
voce che faccia, Egli porrebbe la Sua perfezione in una luce quanto
mai dubbia, poiché un miracolo è una violazione dell’autonomia
della Sua creazione, un intervento violento. Ma colui che ha regolato
il prodotto della propria creazione e ne conosce il comportamento
dall’inizio alla fine non ha alcun bisogno di violare
quest’autonomia; se nonostante ciò la viola, pur restando
onnisciente, ciò significa che egli così facendo non corregge
affatto la sua opera (una correzione, dopotutto, può significare
soltanto una non-onniscenza iniziale), ma fornisce invece – col
miracolo – un segno della propria esistenza. Orbene, questa è
logica fallace, poiché la produzione di un segno siffatto deve
necessariamente dare l’impressione che il creato venga ciò
nondimeno corretto nei suoi incespicamenti locali. Infatti un’analisi
logica del nuovo modello fornisce quanto segue: la creazione subisce
correzioni che non procedono da essa ma provengono dall’esterno
(dal trascendente, da Dio), e quindi i miracoli dovrebbero in realtà
diventare la norma; ovvero, in altre parole, la creazione dovrebbe
essere corretta e perfezionata in modo tale che i miracoli alla fine
non risulterebbero più necessari. Infatti i miracoli, in quanto
interventi specifici, non possono essere soltanto segni
dell’esistenza di Dio: essi dopo tutto, oltre a rivelare il loro
Autore, indicano sempre un destinatario (essendo indirizzati a
qualcuno qui per
aiutarlo). Così dunque, rispetto alla logica, le cose devono stare
in questo modo: o la creazione è perfetta, nel qual caso i miracoli
non sono necessari, oppure i miracoli sono necessari, nel qual caso
la creazione non è perfetta. (Con o senza miracoli, si può
correggere solo ciò che ha qualche difetto, poiché un miracolo che
interferisca con ciò che è perfetto lo disturberà soltanto, o anzi
lo peggiorerà). Pertanto segnalare la propria presenza col miracolo
equivale ad usare un metodo per manifestarsi che è il peggiore
possibile dal punto di vista logico.
NAAD
chiede se Dio in realtà non voglia che vi sia una dicotomia fra la
logica e il credere in Lui: forse l’atto di fede dovrebbe essere
proprio un abbandono della logica a favore di una fiducia totale.
ADAN:
Una volta che si permette che la ricostruzione logica di qualcosa (un
essere, una teodicea, una teogonia e simili) contenga
autocontraddizioni interne, diventa chiaramente possibile dimostrare
qualunque cosa ci piaccia. Consideriamo i termini della cosa: si crea
qualcuno e lo si dota di una certa logica, e poi si pretende che
questa stessa logica sia offerta in sacrificio per poter credere nel
Fattore di tutte le cose. Se questo modello deve a sua volta restare
esente da contraddizioni, esso richiede l’applicazione, sotto forma
di metalogica, di un tipo di ragionamento affatto diverso da quello
che è naturale per la logica di colui che è stato creato. Se tutto
ciò non rivela la netta imperfezione del Creatore, rivela
purtuttavia una qualità che chiamerei ineleganza matematica: una
carenza di metodicità (un’incoerenza) sui
generis dell’atto
creativo.
NAAD
insiste: Forse Dio agisce così proprio perché desidera restare
imperscrutabile al Suo creato, cioè non ricostruibile mediante la
logica che Egli gli ha fornito. In breve, Egli esige il primato della
fede sulla logica.
ADAN
gli risponde: Capisco che cosa vuoi dire. Ciò naturalmente è
possibile, ma anche se così fosse, una fede che si dimostri
incompatibile con la logica presenta uno spiacevolissimo dilemma di
natura morale. In tal caso infatti a un certo punto dei nostri
ragionamenti si rende necessario sospenderli per da la precedenza a
una supposizione nebulosa; in altre parole, si rende necessario
situare la supposizione al di sopra della certezza logica; e si deve
fare questo in nome di una fiducia illimitata. Entriamo qui in
un circulus
vitiosus,
poiché l’esistenza postulata di ciò in cui è d’uopo porre ora
la nostra fiducia è il prodotto di una linea di ragionamento che,
all’inizio, era logicamente
corretta;
sorge così una contraddizione logica che, per certuni, assume un
valore positivo e viene detta il Mistero di Dio. Orbene, sotto il
profilo della pura costruzione questa soluzione è scadente e sotto
il profilo morale è discutibile, poiché il Mistero può essere
fondato in modo soddisfacente sull’infinito (l’infinitezza è, in
fin dei conti, una caratteristica del nostro mondo), ma il
mantenimento e il rafforzamento di esso mediante il paradosso interno
è, secondo qualunque criterio architettonico, un procedimento
disonesto. I difensori della teodicea in genere non si rendono conto
che è così perché a certe parti della loro teodicea essi
continuano ad applicare la logica ordinaria e ad altre no. Voglio
dire questo: che se uno crede nella contraddizione, allora dovrebbe
credere solo nella
contraddizione e non allo stesso tempo anche in qualche
non-contraddizione (cioè nella logica) in altri campi. Se, tuttavia,
si insiste in questo curioso dualismo (cioè che il temporale è
sempre soggetto alla logica e il trascendente solo a tratti), allora
il modello del Creato che così si ottiene è qualcosa che, rispetto
alla correttezza logica, è “rappezzato” e non è più possibile
postulare la sua perfezione. Si giunge senza scampo alla conclusione
che la perfezione è qualcosa di necessariamente rappezzato sotto il
profilo logico.
EDNA
chiede se la congiunzione di queste incoerenze non possa essere
l’amore.
ADAN:
Anche se così fosse, non può essere qualsiasi forma d’amore bensì
solo una forma simile all’accecamento. Dio, se c’è, se ha creato
il mondo, gli ha permesso di governarsi come può e desidera. Per il
fatto che Dio esiste non è richiesta nessuna gratitudine verso di
Lui; tale gratitudine poggia sul precedente assunto che Dio è in
grado di non esistere e che ciò sarebbe male, premessa che porta a
un altro genere ancora di contraddizione. E la gratitudine per l’atto
creativo? Neppure questa è dovuta a Dio. Infatti essa è basata
sulla coazione a credere che essere sia senz’altro meglio che non
essere; e non riesco a immaginare come ciò possa, a sua volta,
essere dimostrato. A chi non esiste non è certo possibile fare né
un favore né un danno, e se Colui che crea, nella Sua onniscienza,
sa già in anticipo che colui che è creato Gli sarà grato e Lo
amerà oppure che non Gli sarà grato e Lo rinnegherà, Egli con ciò
stabilisce un vincolo, anche se esso non è accessibile alla
comprensione diretta di colui che è creato. Proprio per questo
motivo, nulla è dovuto a Dio: né odio né amore, né gratitudine né
biasimo, né la speranza di una ricompensa né il timore di un
castigo. Niente Gli è dovuto. Un Dio bramoso di questi sentimenti
deve prima assicurare al Suo soggetto senziente che Egli esiste al di
là di ogni dubbio. L’amore può essere forzato ed affidarsi a
speculazioni riguardanti la reciprocità che esso ispira; ciò è
comprensibile. Ma un amore forzato ad affidarsi a speculazioni
riguardanti l’esistenza dell’oggetto amato non ha senso. Colui
che è onnipotente avrebbe potuto dare la certezza. Poiché non l’ha
data, Egli, se esiste, deve averla ritenuta non necessaria. Perché
non necessaria? Si comincia a sospettare che forse Egli non è
onnipotente. Un Dio non onnipotente meriterebbe sentimenti affini
alla pietà, e in effetti anche all’amore; ma questo, penso,
nessuna delle nostre teodicee lo ammette. E così diciamo: noi
serviamo noi stessi e nessun altro.
Tralasciamo
le conclusioni raggiunte in seguito sulla questione se il dio della
teodicea sia più un liberale o un autocrate; è difficile riassumere
argomenti che occupano una parte così grande del libro. Le
discussioni e le conclusioni che Dobb ha riportato, svoltesi talvolta
in colloqui di gruppo tra ADAN 300, NAAD e altri personoidi, e
talvolta in soliloqui (lo sperimentatore è in grado di registrare
anche una sequenza puramente mentale, per mezzo di appositi strumenti
collegati con i circuiti del calcolatore), costituiscono in pratica
un terzo diNon
serviam.
Nel testo esse non vengono mai commentate, ma nella postfazione di
Dobb troviamo questa dichiarazione:
“Il
ragionamento di ADAN pare incontrovertibile, almeno per quanto
riguarda me: in fin dei conti sono stato io a crearlo. Nella sua
teodicea sono io il Creatore. Sta di fatto che io ho prodotto quel
mondo (numero progressivo 47) con l’ausilio del programma ADONAI IX
e ho creato le gemme dei personoidi apportando una modifica al
programma JAHVE VI. Queste entità iniziali diedero luogo a trecento
generazioni successive. Sta di fatto che io non ho comunicato loro
sotto forma di assioma né questi dati né la mia esistenza oltre i
limiti del loro mondo. Sta di fatto che essi sono giunti a ritenere
possibile la mia esistenza solo per via dell’inferenza, sulla base
di congetture e ipotesi. Sta di fatto che quando creo esseri
intelligenti non mi sento autorizzato a esigere tributi di alcun
genere: amore, gratitudine, o servizi di sorta. Posso espandere o
ridurre il loro mondo, accelerare o rallentare il loro tempo,
alterare le modalità e gli strumenti della loro percezione; posso
eliminarli, dividerli, moltiplicarli, trasformare il fondamento
ontologico stesso della loro esistenza. Sono quindi onnipotente
rispetto a loro, ma in realtà da ciò non segue che essi mi debbano
alcunché. Per quanto mi riguarda, essi non sono per nulla obbligati
verso di me. È vero che io non li amo. L’amore non c’entra
affatto, benché, suppongo, qualche altro sperimentatore possa magari
provare questo sentimento per i suoi personoidi. A mio parere, ciò
non modifica in nulla la situazione; proprio in nulla. Immaginate per
un momento che io colleghi al mio BIX 310 092 un’enorme unità
ausiliaria che funga da ‘aldilà’. Attraverso i canali di
connessione faccio passare dentro l’unità, una dopo l’altra, le
‘anime’ dei miei personoidi, e laggiù ricompenso quelle che
credevano in me, mi rendevano omaggio, mi dimostravano gratitudine e
fiducia, mentre punisco gli altri, i ‘senza-dio’, per usare il
vocabolario dei personoidi, per esempio annientandoli, oppure
torturandoli. (A un castigo eterno non oso nemmeno pensare, non sono
un mostro fino a quel punto!). Non c’è dubbio che il mio operato
sarebbe considerato un atto di spudoratissimo egoismo, un meschino
gesto di vendetta irrazionale, insomma, l’ultimo oltraggio in una
situazione di dominio totale su esseri innocenti. E questi innocenti
avrebbero contro di me la prova irrefutabile della logica,
che è l’egida della loro condotta. Ciascuno, è ovvio, ha il
diritto di trarre dagli esperimenti della personetica le conclusioni
che considera appropriate. Una vola, durante una conversazione
privata, il dottor Ian Combay mi disse che in fin dei conti avrei
potuto fornire alla società dei personoidi la certezza della mia
esistenza. Ebbene, è una cosa che non farò mai, poiché ciò
avrebbe secondo me tutta l’aria di voler provocare un effetto, cioè
sembrerebbe voler sollecitare una reazione da parte loro. Ma che cosa
potrebbero poi fare o dirmi, che non mi faccia sentire in profondo
imbarazzo, il dolore pungente di essere il loro sfortunato Creatore?
Le bollette dell’elettricità che consumiamo devono essere pagate
ogni trimestre, e arriverà il momento in cui i miei superiori
all’università esigeranno la ‘chiusura’ dell’esperimento,
cioè l’arresto della macchina o, in altre parole, la fine del
mondo. Intendo rimandare quel momento per quanto è umanamente
possibile. È l’unica cosa di cui sono capace, ma non è una cosa
che consideri particolarmente degna di lode. Anzi, è ciò che, in un
linguaggio comune, viene di solito chiamato ‘una sporca faccenda’-
Dicendo questo spero che nessuno si faccia venire delle idee; ma se
gli vengono, be’, è affar suo”.
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