lunedì 7 dicembre 2015

NON SERVAM (Racconto di Stanislaw Lem)

Il libro del professor Dobb è dedicato alla personetica, che il filosofo finlandese Eino Kaikki ha definito “la scienza più crudele che l’uomo abbia mai creato”. Dobb, uno dei più eminenti personeisti contemporanei, condivide questa opinione. Non si può, egli afferma, sottrarsi alla conclusione che la personetica, nelle sue applicazioni, è immorale; tuttavia abbiamo a che fare con un tipo d’indagine che, per quanto contrario ai principi etici, è per noi necessario dal punto di vista pratico. Non c’è modo nella ricerca di evitare sia la sua raffinata spietatezza sia di fare violenza agli istinti naturali dell’uomo e, se anche regge altrove, il mito dell’innocenza assoluta dello scienziato come indagatore di fatti qui è certamente crollato. Non si dimentichi che stiamo parlando di una disciplina che, con pochissima esagerazione, è stata chiamata “teogonia sperimentale”. nonostante ciò, chi scrive questa recensione è colpito dal fatto che, quando la stampa, nove anni fa, diede grande rilievo alla cosa, l’opinione pubblica rimase sbalordita dalle prospettive aperte dalla personetica. C’era motivo di credere che ai nostri giorni nulla potesse sorprenderci. L’eco dell’impresa di Colombo risuonò per secoli, mentre la conquista della Luna nel giro di una settimana fu assimilata dalla coscienza collettiva come una cosa praticamente ovvia. E invece la nascita della personetica si dimostrò un trauma.
Il nome combina insieme un termine derivato dal latino ed uno dal greco: “persona” e “genetica” (“genetica” nel senso di formazione o creazione). Questo campo è una recente diramazione della cibernetica e della psiconica degli Anni Ottanta, ibridata con l’intellettronica applicata. Oggi tutti hanno sentito parlare della personetica; l’uomo della strada, interrogato, direbbe che si tratta della produzione artificiale di esseri intelligenti, una risposta certo non lontana dal vero, ma che tuttavia non raggiunge il nocciolo effettivo della questione. A tutt’oggi possediamo un centinaio di programmi personetici. Nove anni fa vennero elaborati schemi d’identità – nuclei primitivi di tipo “lineare” – ma neppure nella generazione di calcolatori, che oggi ha solo valore storico, era in grado di fornire il campo per la vera e propria creazione di personoidi.
La possibilità teorica di creare la sensibilità consapevole fu profetizzata tempo fa da Norbert Wiener, come testimoniano certi passi del suo ultimo libro, Dio e Golem s.p.a. Certo, egli vi alludeva nel suo tipico modo semifaceto, ma sotto quel tono leggero vi erano premonizioni piuttosto sinistre. Wiener tuttavia non avrebbe potuto prevedere la direzione che avrebbero preso le cose vent’anni dopo. Il peggio avvenne – per usare le parole di Sir Donald Acker – quando al MIT “gli ingressi furono messi in corto con le uscite”.
Oggi è possibile preparare un “mondo” per “abitanti” personoidi nel giro di un paio d’ore: tanto ci vuole per introdurre nella macchina uno dei programmi pronti all’uso (come il BAAL 66, il CREAN IV o lo JAHVE 09). Dobb descrive gli inizi della personetica abbastanza per sommi capi, rinviando il lettore alle fonti storiche; essendo lui stesso da sempre uno sperimentatore professionista, Dobb parla soprattutto del proprio lavoro, e questo cade molto a proposito, poiché tra la scuola inglese da lui rappresentata e il gruppo americano del MIT vi sono differenze notevoli sia sotto il profilo del metodo sia per quanto riguarda gli scopi sperimentali. Ecco come Dobb descrive la procedura dei “6 giorni in 120 minuti”: per prima cosa si fornisce alla memoria della macchina un insieme minimo di dati; cioè – per mantenersi entro un linguaggio comprensibile al profano – si carica la memoria con una sostanza di natura “matematica”. Questa sostanza è il protoplasma di un “universum” che dovrà essere “abitato” dai personoidi. A questo punto siamo in grado di fornire agli esseri che entreranno in questo mondo meccanico e digitale – che condurranno la loro esistenza in esso e soltanto in esso –, un ambiente con caratteristiche non finite. Questi esseri, quindi, non possono sentirsi prigionieri in senso fisico, poiché l’ambiente, dal loro punto di vista, non ha confini. Il mezzo possiede una sola dimensione, che somiglia ad una dimensione data anche a noi: quella del passaggio del tempo (durata). Il loro tempo non presenta tuttavia un’analogia diretta col nostro, poiché la velocità del suo fluire è soggetta al controllo discrezionale dello sperimentatore. Di regola la velocità è resa massima nella fase preliminare (il cosiddetto fomento creazionale), sicché i nostri minuti corrispondono, nel calcolatore, a interi eoni durante i quali ha luogo tutta una serie di riorganizzazioni e cristallizzazioni successive… di un cosmo sintetico. È un cosmo assolutamente non spaziale, pur possedendo molte dimensioni; queste infatti hanno carattere puramente matematico e quindi, si potrebbe dire, “immaginario”. Esse sono, molto semplicemente, la conseguenza di certe decisioni assiomatiche del programmatore e il loro numero dipende da lui. Se per esempio egli decidesse di inserirvi dieci dimensioni, ciò avrà per la struttura del mondo creato conseguenza affatto diverse che se ne avesse inserite sei. Dobbiamo sottolineare che queste dimensioni non hanno alcun rapporto con quelle dello spazio fisico, ma lo hanno solo con le costruzioni astratte e logicamente valide impiegate nella creazione dei sistemi.
Dobb tenta di spiegare questo punto, quasi inaccessibile al non matematico, ricorrendo a fatti semplici del tipo che in genere si impara a scuola. È possibile, come sappiamo, costruire un solido geometrico tridimensionale regolare – diciamo un cubo – che nel mondo reale ha un corrispettivo della forma del dado; ed è altrettanto possibile creare solidi geometrici di quattro, cinque, n dimensioni (quello a quattro dimensioni è un tesseratto). A questi non corrisponde più nulla di reale e lo possiamo constatare, dato che, in assenza di una quarta dimensione fisica, non vi è alcun modo di foggiare un dado quadridimensionale autentico. Ebbene, questa distinzione (fra ciò che si può costruire fisicamente e ciò che si può fare solo matematicamente) in generale non sussiste per i personoidi, poiché il loro mondo ha una consistenza puramente matematica. È fatto di matematica, benché i blocchi di costruzione di questa matematica siano oggetti ordinari e di natura assolutamente fisica (relé, transistori, circuiti logici: in una parola, tutta l’immensa rete di circuiti della macchina digitale).
Come ci insegna la fisica moderna, lo spazio non è qualcosa di indipendente dagli oggetti e dalle masse che vi sono situati. L’esistenza dello spazio è determinata da quei corpi; dove essi non sono, dove non c’è nulla – in senso materiale – là cessa di esistere anche lo spazio, annullandosi. Orbene, questa funzione dei corpi materiali, che estendono la loro “influenza”, per così dire, e “generano” con ciò lo spazio, è esplicata nel mondo dei personoidi dai sistemi di una matematica che è posta in essere proprio a questo fine. Fra tutte le “matematiche” costruibili in generale (ad esempio per via assiomatica), il programmatore, avendo deciso di compiere un dato esperimento, ne sceglie un gruppo particolare, che servirà da puntello, da “substrato essenziale”, da “fondamento ontologico” dell’universum creato. Vi è in tutto ciò, secondo Dobb, una somiglianza sorprendente col mondo umano. Questo nostro mondo, dopo tutto, ha “deciso” per certe forme e per certi tipi di geometria che meglio gli si addicono: meglio, vale a dire nel modo più semplice (la tridimensionalità, per restare nell’ambito iniziale). Nonostante ciò, noi siamo in grado di figurarci “altri mondi” con “altre proprietà”, nel campo della geometria e non solo di quello. Lo stesso accade per i personoidi: l’aspetto della matematica che il ricercatore ha scelto come “habitat” è per loro esattamente ciò che per noi è la “base del mondo reale” in cui viviamo, in cui siamo costretti a vivere. E, come noi, i personoidi sono in grado di “figurarsi” mondi aventi proprietà fondamentali diverse.
Dobb presenta la sua materia usando il metodo delle approssimazioni e ricapitolazioni successive; ciò che abbiamo tratteggiato or ora, e che corrisponde grosso modo ai primi due capitoli del libro, nei capitoli successivi viene in parte ripreso e complicato. L’autore ci avverte che non è del tutto vero che i personoidi vengano semplicemente a trovarsi in un mondo preconfezionato, fisso e irrevocabilmente irrigidito nella sua forma definitiva; l’aspetto di quel mondo, nei suoi particolari specifici, dipende da loro, e tanto più ne dipende quanto più aumenta la loro capacità di attività, quanto più si sviluppa la loro “iniziativa nell’esplorazione”. Neanche paragonare l’universum dei personoidi a un mondo in cui i fenomeni esistono solo nella misura in cui i suoi abitanti li osservano fornisce un’immagine precisa della situazione. Questo paragone, che si incontra nei lavori di Sainter e Huges, viene considerato da Dobb una “deviazione idealistica”: un omaggio che la personetica ha reso alla dottrina, risuscitata in modo così curioso e repentino del Berkeley. Sainter sosteneva che i personoidi conoscerebbero il loro mondo alla maniera di un essere berkeleyano, che non è in grado di distinguere l’esse dal percipi, ossia un essere che non scoprirà mai la differenza tra la cosa percepita e ciò che causa la percezione in modo oggettivo e indipendente dal percipiente. Dobb rigetta con forza questa interpretazione. Noi, creatori del loro mondo, sappiamo benissimo che ciò che viene da loro percepito esiste davvero; esiste all’interno del calcolatore, indipendentemente da loro, benché, ovviamente, solo alla maniera degli oggetti matematici.


Poi ci sono ulteriori chiarificazioni. I personoidi sorgono in modo germinale in virtù del programma; essi si moltiplicano a una velocità imposta dallo sperimentatore, una velocità che solo la più recente tecnologia dell’elaborazione dell’informazione, che opera a velocità prossime a quelle della luce, può consentire. La matematica che dovrà costituire la “residenza esistenziale” dei personoidi non li attende nella sua pienezza, bensì, per così dire, ancora in “fasce”, inarticolata, sospesa, latente, poiché rappresenta solo un insieme di certe possibilità a venire, di certi percorsi contenuti in subunità opportunamente programmate della macchina. Queste subunità, o generatori, in sé e per sé non danno alcun contributo; è piuttosto un tipo particolare di attività dei personoidi che serve a meccanismo d’innesco e mette in moto un processo di produzione che via via aumenta e si definisce; in altre parole, il mondo che circonda questi esseri acquista univoca determinazione in dipendenza dal loro stesso comportamento. Dobb cerca di illustrare questo concetto facendo ricorso alla seguente analogia. Un uomo può interpretare il mondo reale in maniere diverse. Può dedicare, ad esempio, un’attenzione speciale – un’intensa indagine scientifica – a certi aspetti di questo mondo, e le conoscenze che egli così acquisisce gettano in seguito la loro luce particolare sulle restanti porzioni del mondo, quelle non considerate nella sua ricerca prioritaria. Se egli si dedica allo studio diligente della meccanica, si foggerà un modello meccanico del mondo e vedrà l’Universo come un gigantesco e perfetto orologio che con moto inesorabile procede dal passato verso un futuro determinato con precisione. Questo modello non costituisce una rappresentazione accurata della realtà, e tuttavia si può farne uso per un lungo periodo storico e ottenere grazie a esso anche molti successi pratici, come la costruzione di macchine, di strumenti, eccetera. Analogamente, se i personoidi “inclineranno”, per scelta, per un atto di volontà, verso un certo tipo di rapporto col loro universum, e ad esso daranno priorità, se in questo e solo in questo scopriranno l’“essenza” del loro cosmo, allora essi percorreranno un cammino ben definito di cimenti e di scoperte, un cammino che non sarà né illusorio né futile. La loro inclinazione “estrae” dall’ambiente ciò che meglio le corrisponde.Ciò che percepiscono per primo è ciò che per primo padroneggiano, dato che il mondo che li circonda è determinato solo parzialmente, è solo parzialmente fissato in anticipo dal creatore-ricercatore; in esso i personoidi conservano un margine nient’affatto insignificante di libertà di azione, azione tanto “mentale” (nell’ambito di ciò che essi pensano del proprio mondo, di come lo concepiscono), quanto “reale” (nel contesto dei loro “atti”, che non sono certo reali alla lettera, nel nostro senso del termine, ma non sono neppure puramente immaginari). Questa è, invero, la parte più difficile dell’esposizione e Dobb, osiamo dire, non riesce a spiegare in modo del tutto soddisfacente queste speciali qualità dell’esistenza dei personoidi, qualità che possono essere rese solo nel linguaggio della matematica dei programmi e degli interventi di creazione. Dobbiamo quindi accettare per così dire con un atto di fede l’idea che l’attività dei personoidi non sia né del tutto libera, così come lo spazio delle nostre azioni, non è del tutto libero, essendo limitato dalle leggi fisiche della natura, né del tutto determinata, proprio come noi non siamo vagoni che corrono su binari rigidamente fissati. Un personoide somiglia a un uomo anche per il fatto che le “qualità secondarie” dell’uomo – i colori, i suoni melodiosi, la bellezza delle cose – possono manifestarsi solo quando egli ha orecchi per udire e occhi per vedere, ma ciò che rende possibile udire e vedere è stato, in fin dei conti, fornito in precedenza. I personoidi, nel percepire il loro ambiente, gli conferiscono, traendole da dentro di loro, quelle qualità esperienziali che corrispondono esattamente a ciò che per noi è la bellezza di un paesaggio contemplato – con la differenza, naturalmente, che a loro è stato fornito uno scenario puramente matematico. Quanto al problema di “come lo vedano”, non si asserisce nulla, poiché l’unico modo di apprendere la “qualità soggettiva della loro sensazione” sarebbe quello di spogliarsi del nostro involucro umano e diventare personoidi. I personoidi, lo si rammenti, non hanno né occhi né orecchi, perciò non vedono e non odono nel senso nostro; nel loro cosmo non c’è luce, non ci sono tenebre, non c’è prossimità spaziale né distanza, non c’è il sopra o il sotto; ci sono dimensioni che per noi non sono tangibili, ma che per loro sono primarie, fondamentali; essi per esempio percepiscono alla stregua di elementi della coscienza sensoriale umana certe variazioni del potenziale elettrico. Ma queste variazioni di potenziale non hanno per loro la natura, diciamo, di pressioni di corrente, sono piuttosto quel genere di cose che, per un uomo, sono i fenomeni ottici o acustici più rudimentali: la visione di una macchia rossa, la percezione di un suono, o il contatto con un oggetto duro o morbido. Da questo punto in poi, sottolinea Dobb, si può parlare solo mediante analogie, evocazioni.
Affermare che i personoidi sono “minorati” rispetto a noi, in quanto non vedono e non odono come noi, è totalmente assurdo, poiché allo stesso titolo si potrebbe asserire che siamo noi carenti rispetto a loro, perché incapaci di sentire con immediatezza il fenomenismo della matematica che, dopo tutto, noi conosciamo solo per via cerebrale e inferenziale. Noi entriamo in contatto con la matematica solo attraverso il ragionamento, ne facciamo “esperienza” solo attraverso il pensiero astratto. Invece i personoidi vivono in essa: essa è la loro aria, la loro terra, l’acqua, le nubi, perfino il loro pane: sì, perfino il cibo, poiché in un certo senso da essa traggono nutrimento. E, allo stesso modo, soltanto dal nostro punto di vista essi appaiono “imprigionati”, chiusi ermeticamente dentro la macchina: proprio come loro non possono trovare una strada per giungere fino a noi, fino al mondo degli uomini, così per converso – e simmetricamente – un uomo non può in alcun modo penetrare all’interno del loro mondo così da esistere in esso e conoscerlo direttamente. Quindi la matematica, in alcune sue incarnazioni, è diventata lo spazio vitale di un’intelligenza a tal punto spiritualizzata da essere affatto incorporea; è diventata la nicchia e la culla della sua esistenza, il suo elemento.
I personoidi sono per molti versi simili all’uomo. Sono capaci di immaginare una contraddizione particolare (che vale a e che vale non-a), ma non sono in grado di attualizzarla , esattamente come non lo siamo noi. La fisica del nostro mondo e la logica del loro non lo permettono, poiché la logica costituisce per l’universum dei personoidi esattamente la stessa cornice di delimitazione delle azioni che la fisica costituisce per il nostro mondo. In ogni caso, sottolinea Dobb, è assolutamente impossibile per noi affermare introspettivamente con pienezza ciò che “sentono” e “sperimentano” i personoidi mentre svolgono la loro intensa vita nel loro universum nonfinito. La sua totale non spazialità non lo rende una prigione come invece si sono affrettati a dire i giornalisti – anzi è il contrario: è la garanzia della loro libertà, poiché la matematica prodotta dai generatori del calcolatore quando vengono “eccitati” dall’attività (e ciò che li eccita a questo modo è precisamente l’attività dei personoidi), questa matematica è, per così dire, un campo infinito autogenerantesi di azioni facoltative, di imprese architettoniche e d’altro genere, di esplorazioni, di eroiche scorribande, di ardimentose incursioni, di congetture. In una parola: non si è fatta alcuna ingiustizia ai personoidi conferendo loro il possesso di un cosmo fatto proprio così e non altrimenti. Non è qui che si trovano la crudeltà e l’immoralità della personetica.
Nel settimo capitolo di Non serviam, Dobb presenta al lettore gli abitanti dell’universum digitale. I personoidi sono dotati di scioltezza di pensiero oltre al linguaggio, e posseggono anche emozioni. Ciascuno di essi è un’entità individuale; la loro differenziazione non è una pura conseguenza delle decisioni del programmatore-creatore, ma deriva dalla complessità straordinaria della loro struttura interna. Possono essere somigliantissimi tra loro, ma non sono mai identici. Venendo al mondo, ciascuno è dotato di un “nocciolo”, di un “nucleo personale”, e possiede già le facoltà di parola e di pensiero, per quanto a uno stadio rudimentale. Hanno un vocabolario, che è tuttavia assai scarno, e hanno la capacità di costruire frasi in conformità con le regole della sintassi che è stata a loro imposta. In futuro, a quanto sembra, sarà possibile fare a meno di imporre loro anche queste determinanti: non dovremmo far altro che aspettare che essi, come un gruppo umano primitivo nel corso della socializzazione, sviluppino da soli il loro linguaggio. Ma a questa linea di sviluppo della personetica si oppongono due ostacoli cardinali. In primo luogo, la creazione di un linguaggio richiederebbe un tempo lunghissimo. Allo stato attuale ci vorrebbero dodici anni, anche spingendo al massimo la velocità delle trasformazioni all’interno del calcolatore (in termini figurati e molto approssimativi, un secondo di tempo macchina corrisponde a un anno di vita umana). In secondo luogo, e questo è il problema più serio, un linguaggio che nascesse spontaneamente nel corso dell’“evoluzione del gruppo dei personoidi” ci risulterebbe incomprensibile, e decifrarlo sarebbe una necessità paragonabile all’ardua impresa di trovare la chiave di un codice segreto, impresa tanto più difficile in quanto quel codice non sarebbe stato creato da persone per altre persone in un mondo comune anche ai decifratori. Il mondo dei personoidi è di qualità enormemente diversa dal nostro e quindi un linguaggio adatto a esso sarebbe di necessità lontanissimo da qualsiasi lingua umana. Per il momento dunque l’evoluzione linguistica ex nihilo è soltanto un sogno dei personetisti.
I personoidi, una volta “messe le radici del loro sviluppo”, si trovano di fronte a un enigma che è fondamentale e per essi supremo: quello della loro origine. Vale a dire, essi si pongono domande, che poi sono le stesse domande che noi conosciamo dalla storia dell’uomo, dalla storia delle sue credenze religiose, dalle sue indagini filosofiche e dalle sue creazioni mistiche: Da dove siamo venuti? Perché siamo fatti così e non altrimenti? Perché il mondo che percepiamo ha queste proprietà e nn altre del tutto diverse? Che significato abbiamo noi per il mondo? Che significato ha essi per noi? Inevitabilmente il corso di queste speculazioni li porta da ultimo alle questioni fondamentali dell’ontologia, al problema se l’esistenza sia prodotta “in sé e da sé” o se invece sia il prodotto di uno specifico atto creativo; cioè se, nascosto dietro di essa, dotato di volontà e coscienza, capace di azioni finalizzate, padrone della situazione, non ci possa essere un Creatore. È qui che si manifesta tutta la crudeltà, tutta l’immoralità della personetica.
Ma prima di passare, nella seconda parte del libro, al resoconto di questi sforzi intellettuali – del dibattersi di una condizione mentale divenuta preda di tormenti legati a questi problemi – Dobb ci presenta in una serie di capito consecutivi un ritratto del “personoide tipico”, la sua “anatomia, fisiologia e psicologia”.
Un personoide isolato non è in grado di andare più in là di uno stadio rudimentale di pensiero, poiché, dato il suo isolamento, non può fare uso della parola, e senza la parola il pensiero discorsivo non può svilupparsi. Come hanno dimostrato centinaia di esperimenti, l’optimum si ha con gruppi formati da quattro a un massimo di sette personoidi, almeno per quanto riguarda lo sviluppo del linguaggio e l’attività esplorativa normale, e anche l’“acculturazione”. D’altra parte fenomeni corrispondenti a processi sociali su scala più vasta richiedono gruppi più numerosi. Attualmente in un universum di calcolatore di ragionevole capacità è possibile “alloggiare” fino a un migliaio circa di personoidi; ma studi di questo tipo, che competono a una disciplina separata e indipendente, la sociodinamica, esulano dall’area dell’interesse primario di Dobb e per questa ragione il suo libro li menziona solo di sfuggita. Come si è detto, un personoide non ha corpo, ma ha un’“anima”. Quest’anima, a un osservatore esterno che abbia accesso al mondo delle macchine (per mezzo di un dispositivo particolare, un modulo ausiliario consistente in una specie di sonda incorporata nel calcolatore), appare come una “nube coerente di processi”, come un aggregato funzionale avente una specie di “centro” che può essere isolato con una certa precisione, ciè delimitato entro i circuiti della macchina. (Ciò, si noti, non è facile, e per più versi ricorda il tentativo dei neurofisiologi di individuare i centri localizzati di molte funzioni del cervello umano). Essenziale per la comprensioni di che cosa renda possibile la creazione dei personoidi è il capitolo XI di Non serviam, che spiega in termini piuttosto semplici i fondamenti della teoria della coscienza. La coscienza – tutta la coscienza, non semplicemente quella dei personoidi – è, quanto all’aspetto fisico, un’“onda stazionaria informazionale”, un certo invariante dinamico in un flusso di trasformazioni incessanti, la cui peculiarità sta nel fatto che essa rappresenta un “compromesso” e nello stesso tempo un “risultante” che, per quanto ci consta, non era affatto previsto dall’evoluzione naturale. È vero anzi il contrario; fin dall’inizio l’evoluzione pose difficoltà e problemi tremendi sulla strada dell’armonizzazione del funzionamento dei cervelli al di sopra di una certa grandezza – cioè di un certo livello di complicazione – ed è chiaro che essa sconfinò nel territorio di questi dilemmi senza volerlo, poiché l’evoluzione si “trascinò dietro” certe soluzioni evolutive antichissime date a problemi di controllo e regolazione comuni al sistema nervoso fino al livello in cui ebbe inizio l’antropogenesi. Sotto il profilo puramente razionale dell’efficienza ingegneristica, tali soluzione avrebbero dovuto essere soppresse o abbandonate, per passare alla progettazione di qualcosa d’interamente nuovo: vale a dire il cervello di un essere intelligente. Ma è chiaro che l’evoluzione non poteva procedere in questo modo, poiché non rientrava nei suoi poteri sbarazzarsi del retaggio delle vecchie soluzioni, spesso antiche di centinaia di milioni di anni. Poiché essa avanza sempre per microscopici incrementi di adattamento, poiché “striscia” e non può “saltare”, l’evoluzione è una rete a strascico “che trascina con sé innumerevoli arcaismi e rifiuti di ogni genere”, per dirla con l’immagine sbrigativa di Tammer e Bovine. (Tammer e Bovine sono due degli ideatori della simulazione al calcolatore della psiche umana, che gettò le basi per la nascita della personetica). La coscienza dell’uomo è il risultato di un compromesso di genere particolare. È uno “zibaldone”, ovvero, come osservò per esempio Gebhardt, una perfetta esemplificazione del ben noto adagio tedesco Aus einer Not eine Tugend machen” (cioè “fare di necessità virtù” ). Una macchina digitale non potrà mai acquisire coscienza da sola, per la semplice ragione che in essa non sorgono conflitti gerarchici di funzionamento. Una tale macchine può, al massimo, cadere in una sorta di “paralisi logica” o di “stupore logico” quando in essa le antinomie si moltiplichino. Le contraddizioni di cui pullula letteralmente il cervello dell’uomo furono invece sottoposte, nel corso di centinaia di migliaia di anni, a graduali procedimenti di arbitrato. Si costituirono livelli più alti e livelli più bassi, livelli di riflessi e di riflessione, d’impulso e di controllo, furono costruiti modelli dell’ambiente elementale con mezzi zoologici e modelli dell’ambiente concettuale con mezzi linguistici. Questi vari livelli non sono in grado e non “vogliono” attagliarsi perfettamente l’uno all’altro o fondersi per formare un tutto unico.


Che cos’è, allora la coscienza? Un espediente, un sotterfugio, una scappatoia, una presunta ultima risorsa, una pretesa (ma solo pretesa) corte d’appello insindacabile. E, nel linguaggio della fisica e della teoria dell’informazione, è una funzione che, una volta iniziata, non ammette alcuna chiusura, cioè alcun completamento definitivo. È dunque solo un progetto di tale chiusura, di tale “conciliazione” totale delle tenaci contraddizioni del cervello. È, si potrebbe dire, uno specchio il cui compito è quello di riflettere altri specchi, che al loro volta ne riflettono altri ancora, e così via all’infinito. Dal punto di vista fisico, ciò semplicemente non è possibile, e quindi il regressus ad infinitum rappresenta una sorta di pozzo su cui si libra e volteggia il fenomeno della coscienza umana. “Sotto il conscio” si svolge di continuo una battaglia per una piena rappresentazione – in esso – di ciò che non può raggiungerlo con pienezza; e non può raggiungerlo per pura e semplice mancanza di spazio; perché per concedere pieno e uguale diritto a tutte quelle tendenze che rumoreggiano per attirare l’attenzione dei centri della consapevolezza sarebbero necessari una capacità e un volume infiniti. Regnano quindi intorno al conscio una ressa e un pigia pigia incessanti, e il conscio non è, non è affatto, il supremo, imperturbabile e sovrano timoniere di tutti i fenomeni mentali, ma piuttosto un sughero galleggiante sulle onde agitate, un sughero la cui posizione elevata non significa il dominio su quelle onde… La teoria moderna della coscienza, interpretata sotto il profilo informazionale e dinamico, non può sfortunatamente essere espressa in modo semplice e chiaro, sicché dobbiamo costantemente ripiegare – almeno qui, in questa presentazione più accessibile sull’argomento – su una serie di modelli e di metafore visivi. Sappiamo, in ogni caso, che la coscienza è una specie di sotterfugio, uno stratagemma cui ha fatto ricorso l’evoluzione, e vi ha fatto ricorso nello spirito del suo caratteristico e indispensabile modus operandi, l’opportunismo, trovando cioè una scappatoia rapida e improvvisata quando si è scoperta con le spalle al muro. Se dunque si volesse costruire un essere intelligente procedendo secondo i canoni di un’ingegneria e di una tecnica, l’essere così costruito, in generale, non avrebbe il dono della coscienza. Si comporterebbe in modo perfettamente logico, sempre coerente, lucido e ben ordinato e potrebbe addirittura sembrare, a un osservatore umano, un genio dell’azione creativa e della decisione. Ma non potrebbe in alcun modo essere un uomo, poiché sarebbe privo della sua misteriosa profondità, delle sue complessità interne, della sua natura labirintica…
Non ci vogliamo qui addentrare ulteriormente nella teoria moderna della psiche cosciente, e del resto non lo fa neppure il professor Dobb. Ma queste poche parole erano necessarie, poiché esse forniscono la necessaria introduzione alla struttura dei personoidi. Con la loro creazione si è finalmente tradotto in realtà uno dei miti più antichi, quello dell’homunculus. Per foggiare un simulacro dell’uomo, della sua psiche, si devono introdurre a bella posta nel substrato informazionale delle contraddizioni specifiche; gli si deve impartire un’asimmetria, una serie di tendenze acentriche; in una parola si deve unificare e insieme rendere discorde. È razionale tutto ciò? Sì, e anche pressoché inevitabile, se desideriamo non semplicemente costruire una qualche sorta d’intelligenza sintetica, bensì imitare il pensiero e, con esso, la personalità dell’uomo.
Le emozioni dei personoidi, quindi, debbono in qualche misura essere in conflitto con la loro ragione; essi devono possedere tendenze autodistruttive, almeno fino a un certo punto; devono sentire tensioni interne, quella totale spinta centrifuga che noi sperimentiamo ora come una splendida infinità di stati spirituali, ora come uno smembramento insopportabilmente doloroso. La ricetta per creare tutto ciò, intanto, non ha affatto la complessità sconfortante che si potrebbe credere. Si tratta semplicemente di questo: la logicadella creazione (del personoide) deve essere disturbata, deve contenere certe antinomie. La coscienza non è solo un modo per uscire dal vicolo cieco dell’evoluzione, dice Hilbrandt, ma anche una via di fuga dalle trappole della gödelizzazione, poiché, grazie alle contraddizioni paralogistiche, questa soluzione ha eluso le contraddizioni di cui è soggetto qualunque sistema che sia perfetto sotto il profilo logico. Così dunque l’universum dei personoidi è perfettamente razionale, ma essi non ne sono abitatori pienamente razionali. Questo ci basti: neppure il professor Dobb indaga oltre questo difficilissimo argomento. Come già sappiamo, i personoidi hanno un’anima ma non un corpo, e perciò non hanno neppure alcuna sensazione della loro corporeità. “È difficile immaginare” è stato detto di ciò che si sperimenta in certi stati particolari della mente, nell’oscurità totale, riducendo al massimo il flusso degli stimoli esterni; ma, sostiene Dobb, questa è un’immagine fuorviante, poiché senza l’apporto dei sensi il cervello umano comincia ben presto a disintegrarsi; senza una corrente di impulsi dal mondo esterno, la psiche manifesta una tendenza alla lisi. Ma i personoidi, che pure non hanno sensi fisici, certo non si disintegrano, poiché ciò che conferisce loro coesione è l’ambiente matematico che essi di fatto sperimentano. Ma come? Essi lo sperimentano, diciamo, secondo quei cambiamenti del loro stato che sono provocati e imposti loro dalla “esternità” dell’universum. Essi sono in grado di discriminare tra i cambiamenti provenienti dal di fuori e i cambiamenti che affiorano dalle profondità della loro psiche. Come operano questa discriminazione? Solo la teoria della struttura dinamica dei personoidi può fornire una risposta diretta a questa domanda.
Eppure, a dispetto di tutte queste impressionanti differenze, essi sono come noi. Sappiamo già che una macchina digitale non potrà mai avere la scintilla della coscienza; qualunque sia il lavoro per cui la sfruttiamo o il processo fisico che vi simuliamo, essa resterà sempre apsichica. Poiché per simulare l’uomo è necessario riprodurre alcune delle sue contraddizioni fondamentali, soltanto un sistema di antagonismi gravitanti l’uno sull’altro – un personoide – somiglierà, per usare le parole di Canyon citate da Dobb, a una “stella contratta dalla forza di gravità e allo stesso tempo espansa dalla pressione della radiazione”. Il centro di attrazione gravitazionale è, molto semplicemente, l’“io” personale, che però non costituisce affatto un’unità né in senso logico né in senso fisico. Questa è solo una nostra illusione soggettiva! A questo punto dell’esposizione, ci troviamo in mezzo a uno stuolo di sorprese stupefacenti. È certamente possibile programmare una macchina digitale in modo da poter conversare con essa come con un interlocutore intelligente. La macchina, ove ne insorga il bisogno, impiegherà il pronome “io” e tutte le corrispondenti forme grammaticali. Ma ciò è pura mistificazione. La macchina sarà sempre più prossima a un miliardo di pappagalli chiacchieroni – per quanto meravigliosamente addestrati – che all’uomo più semplice e più stupido. Essa scimmiotta il comportamento dell’uomo sul piano puramente linguistico e niente più. Nulla potrà divertire o sorprendere o confondere o allarmare o affliggere questa macchina, poiché sotto il profilo psicologico e individuale essa non è Qualcuno. È una Voce che espone argomenti, che fornisce risposte alle domande; è una Logica capace di sconfiggere lo scacchista più bravo; è, o meglio può diventare, un abilissimo imitatore di qualunque cosa, un attore, se si vuole, spinto al culmine della perfezione, capace di sostenere qualunque parte programmata; ma un attore e un imitatore che, dentro, è completamente vuoto. non si può contare sulla sua cordialità, né sulla sua antipatia. Essa non si adopera per raggiungere uno scopo prefissosi. Con un’assolutezza che nessun uomo potrebbe mai neanche lontanamente concepire, “è indifferente”, poiché come persona semplicemente non esiste… È un meccanismo combinatorio straordinariamente efficiente, e null’altro. Ebbene, ci troviamo di fronte a un fenomeno notevolissimo. È stupefacente pensare che dal materiale grezzo di una macchina così vacua e così impersonale sia possibile, introducendo in essa un programma speciale, un programma personetico, creare esseri senzienti autentici e, anzi, crearne un gran numero tutti in una volta! Gli ultimi modelli IBM hanno una capacità massima di mille personoidi. (Questo numero è dato con precisione matematica, poiché gli elementi e i collegamenti necessari per produrre un personoide si possono esprimere in unità del sistema CGS).
All’interno della macchina i personoidi sono separati l’uno dall’altro. Di solito essi non si “sovrappongono”, benché ciò possa accadere. Al contrario avviene qualcosa di equivalente alla repulsione, il che impedisce l’“osmosi” reciproca. Ciò nonostante, se lo desiderano, sono in grado di compenetrarsi. In tal caso i processi che costituiscono il loro substrato mentale cominciano a sovrapporsi l’uno all’altro, producendo “rumore” e interferenze. Quando l’area di permeazione è esigua, una certa quantità d’informazione diventa proprietà comune dei due personoidi in parziale coincidenza; si tratta di un fenomeno per loro assai singolare, come per un uomo sarebbe singolare, se non addirittura allarmante, udire nella propria testa “strane voci” e “pensieri estranei” (come effettivamente avviene nel caso di certe malattie mentali o per effetto di sostanze allucinogene). È come se due persone avessero non semplicemente gli stessi ricordi, ma i medesimi ricordi; come se fosse avvenuto qualcosa di più che un trasferimento telepatico di pensiero; come se ci fosse stata una “fusione periferica degli io”. Il fenomeno, tuttavia, ha conseguenze spesso infauste ed è da evitarsi. infatti, dopo uno stadio transitorio di osmosi superficiale, il personoide “avanzante” può distruggere e consumare l’altro. In tal caso quest’ultimo subisce un vero e proprio assorbimento, un annientamento: cessa di esistere (a questo proposito si è parlato di assassinio). Il personoide annientato diventa una parte assimilata e indistinguibile dell’“aggressore”. Siamo riusciti – dice Dobb – a simulare non soltanto la vita psichica, ma anche i suoi rischi e la sua obliterazione. Siamo dunque riusciti a simulare anche la morte. In condizioni sperimentali normali, tuttavia, i personoidi evitano questi atti di aggressione; è rarissimo incontrare tra loro gli “psicofagi” (il termine è di Castler). Quando sentono gli inizi di un’osmosi, che può insorgere come risultato di accostamenti e di fluttuazioni del tutto accidentali – ed essi sentono questa minaccia in un modo che naturalmente non è fisico, ma più o meno come un uomo potrebbe avvertire la presenza di un altro o magari udire nella propria mente “voci strane” – i personoidi si affrettano a eseguire manovre per evitarla; si ritraggono e vanno ciascuno per la sua strada. È sulla base di questo fenomeno che essi sono giunti a conoscere il significato dei concetti di “bene” e di “male”. Per loro è evidente che il “male” risiede nella distruzione di un loro simile e il “bene” nella sua liberazione. Allo stesso tempo, il “male” dell’uno può essere il “bene” (cioè il vantaggio, ora non più in senso etico) dell’altro, il quale diventerebbe così uno “psicofago”. Infatti questa espansione – l’appropriarsi del “territorio intellettuale” di un altro – accresce l’“area” mentale ricevuta all’inizio. In un certo senso, si tratta di un corrispettivo di una delle nostre pratiche, poiché in quanto carnivori noi uccidiamo le nostre vittime e ce ne cibiamo. I personoidi, però, non sono obbligati a comportarsi in questo modo; hanno semplicemente la facoltà di farlo. Essi non conoscono né fame né sete, poiché sono sostenuti dal flusso continuo di energia – un’energia della cui fonte essi non debbono preoccuparsi (proprio come noi non dobbiamo fare nulla di particolare affinché il sole ci mandi i suoi raggi). Nel mondo dei personoidi non possono essere applicati all’energia i termini e i princìpi della termodinamica, poiché quel mondo è soggetto a leggi matematiche e non termodinamiche.


Non passò molto tempo prima che gli sperimentatori giunsero alla conclusione che i contatti tra i personoidi e gli uomini effettuati attraverso gli ingressi e le uscite del calcolatore non solo erano di scarso valore scientifico, ma in più generavano certi dilemmi morali i quali contribuirono a far sì che la personetica venisse qualificata come la più crudele delle scienze. Vi è qualcosa di meschino nell’informare i personoidi del fatto che li abbiamo creati in universi chiusi che simulanosoltanto l’infinito, che essi sono microscopiche “psicocisti” o capsule in seno al nostro mondo. Certo, essi posseggono una loro infinità; perciò Sharker e altri psiconetici (Falk, Wiegeland) sostengono che la situazione è del tutto simmetrica: i personoidi non hanno bisogno del nostro mondo, del nostro “spazio vitale”, proprio come noi non sappiamo che farcene della loro “terra matematica”. Per Dobb questi ragionamenti sono sofistici, poiché non può esservi dubbio su quali siano i creatori e quali le creature e su chi sia stato confinato esistenzialmente. Dobb appartiene a quel gruppo che sostiene il principio del non intervento assoluto – il “non contatto” – nei confronti dei personoidi. Si tratta dei comportamentisti della personetica: il loro desiderio è quello di osservare esseri intelligenti sintetici, di spiare i loro discorsi e i loro pensieri, di registrare le loro azioni e occupazioni, senza tuttavia mai interferire con essi. Questo metodo è già sviluppato e possiede una propria tecnica basata su un insieme di strumenti la cui messa a punto ha presentato difficoltà che ancora pochi anni fa parevano quasi insormontabili. L’idea è di ascoltare, di comprendere – in breve, di origliare incessantemente – impedendo però nel contempo che questo “ascolto” disturbi in qualsiasi modo il mondo dei personoidi. Esistono presso il MIT programmi ancora allo stadio di progetto (l’APHERON II e l’EROT), che permettevano ai personoidi, i quali per il momento non hanno sesso, di avere “contatti erotici”, rendendo possibile ciò che corrisponde alla fecondazione e dando loro modo di moltiplicarsi “per via sessuale”. Dobb dichiara apertamente di non essere entusiasta dei progetti americani. In suo lavoro, così com’è descritto in Non serviam, punta in una direzione completamente diversa: non per nulla la scuola inglese di personetica è stata chiamata “poligono filosofico” e “laboratorio di teodicea”. Con queste descrizioni giungiamo a quella che è probabilmente la parte più significativa, e certamente la più affascinante del libro in oggetto: l’ultima parte, che ne giustifica e ne spiega lo strano titolo.
Dobb fornisce un resoconto del suo esperimento, che è in corso senza interruzioni da otto anni. Alla creazione egli accenna solo di sfuggita; si tratta di una duplicazione abbastanza ordinaria di funzioni tipica del programma JAHVE VI, con lievi modifiche. Egli riassume i risultato ottenuti “intercettando” questo mondo che egli stesso ha creato e i cui sviluppi egli continua a seguire. Dobb considera questa pratica dell’intercettazione come immorale e, a volte, addirittura vergognosa. Tuttavia egli continua il proprio lavoro, professando di credere nella necessità, per la scienza, di compiere anche esperimenti siffatti, esperimenti che non possono essere in alcun modo giustificati su basi morali né in verità su nessun’altra base che non sia il progresso della conoscenza. La situazione, egli dice, è arrivata a un punto tale per cui gli scienziati non possono più mantenere i loro vecchi atteggiamenti ambigui. Non si può affettare un’elegante neutralità e tacitare i rimorsi di coscienza ricorrendo ad esempio al ragionamento inventato dai vivisezionisti, cioè che quelli ai quali si causa sofferenza o anche solo fastidio non sono creature pienamente coscienti, esseri sovrani. Negli esperimenti sui personoidi siamo doppiamente responsabili, poiché prima creiamo e poi incateniamo ciò che abbiamo creato al disegno dei nostri procedimenti di laboratorio. Qualunque cosa facciamo e comunque spieghiamo il nostro agire, non possiamo più sottrarci alla nostra responsabilità.
I molti anni di esperienza da parte di Dobb e dei suoi collaboratori a Oldport portarono alla costruzione del loro universum a otto dimensioni, che divenne dimora di personoidi chiamati ADAN, ADNA, ANAD, DANA, DAAN e NAAD. I primi personoidi svilupparono i rudimenti di linguaggio ricevuti ed ebbero una “progenie” per scissione. Dobb, adottando un linguaggio biblico, scrive: “E ADAN generò ADNA. ADNA a sua volta generò DAAN e DAAN diede i natali a EDAN, che partorì EDNA…”. Le cose continuarono in questo modo finché si giunge alla trecentesima generazione; poiché, tuttavia, la capacità del calcolatore era sufficiente solo per cento unità di personoidi, vi furono eliminazioni periodiche del “surplus demografico”. Alla trecentesima generazione fecero di nuovo la loro comparsa personoidi di nome ADAN, ADNA, ANAD, DANA, DAAN e NAAD, con numeri suppletivi per indicare il loro ordine nella discendenza. (Per semplicità nella nostra ricapitolazione ometteremo questi numeri). Dobb scrive che il tempo trascorso nell’universum contenuto nel calcolatore corrisponde – facendo una trasformazione approssimata alle nostre unità di misura equivalenti – a duemila-duemilacinquecento anni. In questo periodo, nella popolazione dei personoidi si sono sviluppate svariatissime spiegazioni del loro destino; essi hanno anche formulato vari modelli, contrastanti e mutuamente esclusivi, di “tutto ciò che esiste”. Sono cioè nate molte filosofie (ontologie e gnoseologie) diverse e anche “esperimenti metafisici” di un genere tutto particolare. Non sappiamo se sia perché la “cultura” dei personoidi è troppo dissimile da quella umana o perché l’esperimento è stato finora troppo breve, fatto sta che nella popolazione studiata non si è mai cristallizzata una fede completamente dogmatizzata: una fede paragonabile diciamo, al Buddhismo o al Cristianesimo. Peraltro già all’ottava generazione si nota la comparsa della nozione di un Creatore concepito come essere personale in una prospettiva monoteistica.
L’esperimento consiste nell’aumentare al massimo la velocità delle trasformazioni operate dal calcolatore e poi (più o meno una volta all’anno) nell’abbassarla per rendere possibile l’osservazione diretta. Questi cambiamenti di velocità, come ci spiega Dobb, non vengono affatto percepiti dagli abitanti dell’universum in seno al calcolatore, così come le variazioni del genere non sarebbero percepite da noi, poiché quando tutta l’esistenza subisce un cambiamento repentino (in questo caso, nella dimensione temporale) coloro che vi sono immersi non possono rendersene conto, dal momento che non hanno un punto fisso, un sistema di riferimento, rispetto al quale accorgersi che esso sta avvenendo.
L’impiego di “due marce cronologiche” permise di ottenere ciò che Dobb più desiderava, cioè l’emergere di una storia personoide, una storia dotata di profondità di tradizioni e di prospettiva nel tempo futuro. Riassumere tutti i dati di questa storia registrati da Dobb, che sono spesso di natura sensazionale, non ci è possibile. Ci limiteremo perciò ai passi dai quali scaturì l’idea che è rispecchiata nel titolo del libro. Il linguaggio impiegato dai personoidi è una trasformazione recente dell’inglese standard, il cui lessico e la cui sintassi erano stati incorporati nel programma della prima generazione. Dobb lo traduce in un inglese sostanzialmente normale, ma lascia intatte alcune espressioni coniate dal popolo dei personoidi. Tra queste figurano i termini “con-dio” e “senza-dio”, impiegati per indicare i credenti in Dio e gli atei.
ADAN discute con DAAN e ADNA (i personoidi in realtà non usano questi nomi, che sono un puro e semplice espediente pratico cui ricorrono gli osservatori per poter registrare più facilmente i “dialoghi” ) a proposito di un problema che si sono posti anche gli uomini, un problema che nella nostra storia ebbe origine con Pascal, ma che nella storia dei personoidi fu scoperto da un certo EDAN 197. Proprio come Pascal, questo pensatore asserì che credere in Dio è in ogni caso più vantaggioso che non crederci, poiché se la verità sta dalla parte dei “senza-dio” il credente, lasciando il mondo, perde solo la vita, mentre de Dio esiste egli si guadagna l’eternità (la gloria perenne). Pertanto è consigliabile credere in Dio, poiché ciò è in fin dei conti in linea con la tattica esistenziale di pesare i pro e i contro nella ricerca dell’esito migliore.
A proposito di questa impostazione ADAN 300 è della seguente opinione: EDAN 197, nella sua argomentazione, ipotizza un Dio che esige ossequio, amore e devozione totale e non solo e semplicemente la convinzione che Egli esista e che abbia creato il mondo. Per guadagnarsi la salvezza non basta consentire all’ipotesi Dio Fattore del Mondo; si deve anche essere grati a quel Fattore per il suo atto creativo, divinare la Sua volontà e seguirla. In breve si deve servire Dio. Ora, Dio, se esiste, ha il potere di dimostrare la Sua esistenza in un modo almeno tanto convincente quanto lo è il modo in cui testimonia della Sua esistenza ciò che può essere percepito direttamente. È evidente che non si può dubitare che certi oggetti esistano e che il nostro mondo si componga di essi. Tutt’al più si potranno nutrire dubbi su che cosa essi facciano per esistere, su come essi esistano, ecc. Ma il fatto in sé della loro esistenza non può essere negato. Dio poteva fornire le prove della Sua esistenza con questa stessa forza. Eppure Egli non l’ha fatto, condannandoci a conseguire, a questo riguardo, una conoscenza che è obliqua, indiretta, espressa sotto forma di varie congetture, alle quali viene dato talvolta il nome di rivelazione. Se ha agito così, Egli ha con ciò posto i “con-dio” e i “senza-dio” sullo stesso piano; non ha obbligato le Sue creature a una fede assoluta nella Sua esistenza, ma ha soltanto offerto loro questa possibilità. Certo, i motivi che hanno mosso il Creatore possono essere celati alle Sue creature. Comunque sia, vale la seguente proposizione: o Dio esiste o Dio non esiste. Che vi sia una terza possibilità (Dio è esistito ma non esiste più, oppure esiste a intermittenza, in modo oscillante, o esiste a volte “di meno” e a volte “di più”, ecc.) appare improbabilissimo. Questa possibilità non può essere esclusa in modo assoluto, ma l’introduzione di una logica polivalente in una teodicea serve solo a ingarbugliarla.
Così dunque o Dio c’è o non c’è. E se Dio stesso accetta la nostra situazione, in cui ciascun corno del dilemma in oggetto ha argomenti a proprio sostegno – poiché i “con-dio” dimostrano l’esistenza del Cratore e i “senza-dio” la confutano – allora, dal punto di vista della logica, si ha a che fare con un gioco i cui partecipanti sono, da una parte, l’insieme completo dei “con-dio” e del “senza-dio” e, dall’altra, Dio da solo. Il gioco possiede di necessità il connotato logico che Dio non può punire qualcuno solo perché questi non crede in Lui. Se si ignora in modo assoluto se una certa cosa esista oppure no, per cui semplicemente alcuni asseriscono che esiste e altri che non esiste, e se in generale è possibile avanzare l’ipotesi che la cosa non sia mai esistita, allora nessun tribunale equo potrà condannare qualcuno che neghi l’esistenza di questa cosa. Poiché in tutti i mondi vale questo principio: quando non c’è certezza piena non c’è piena responsabilità. Sotto il profilo puramente logico questa formulazione è inattaccabile, poiché stabilisce una funzione di rimunerazione simmetrica nel contesto della teoria dei giochi; chiunque, di fronte all’incertezza, esiga piena responsabilità distrugge la simmetria matematica del gioco; si ha allora a che fare con i cosiddetti giochi a somma non zero.
Pertanto le cose stanno così: o Dio è perfettamente giusto, nel qual caso Egli non può arrogarsi il diritto di punire i “senza-dio” a causa del fatto che sono “senza-dio” (cioè che non credono in Lui); oppure Egli punisce effettivamente i non credenti, il che significa che dal punto di vista logico Egli non è perfettamente giusto. Che cosa ne consegue? Ne consegue che Egli può agire come gli pare, poiché quando in un sistema logico si permette anche solo una solitaria contraddizione, allora, per il principio ex falso quodilbet, da quel sistema si può dedurre qualunque conclusione si voglia. In altre parole: un Dio giusto non può torcere un capello ai “senza-dio” e, se lo fa, allora per quell’atto stesso Egli non è quell’essere universalmente perfetto e giusto postulato dalla teodicea.
ADNA chiede come si debba considerare, alla luce di questa impostazione, il problema del fare del male agli altri.


ADAN 300 risponde: Tutto ciò che accade qui è assolutamente certo; tutto ciò che accade “là” – cioè oltre i confini del mondo, nell’eternità, presso Dio – è incerto, poiché viene solo inferito sulla base delle ipotesi. Qui non si dovrebbe commettere il male, anche se il principio di evitare il male non è dimostrabile logicamente. Ma allo stesso titolo neppure l’esistenza del mondo può essere dimostrata logicamente. Il mondo esiste, anche se potrebbe non esistere. Il male può essere commesso, anche se sarebbe bene non commetterlo e questo, credo, a causa del nostro accordo basato sulla regola di reciprocità: comportati con me come io mi comporto con te. Ciò non ha nulla a che vedere con l’esistenza o la non esistenza di Dio. Se dovessi astenermi dal commettere il male nel timore che, a causa di ciò, “là” sarei punito, oppure se dovessi compiere il bene contando su una ricompensa “là”, fonderei la mia condotta su basi incerte. Qui, invece, non può esservi base più solida del nostro reciproco accordo in questa faccenda. Se “là” vi sono altre basi, io non ho di esse conoscenza altrettanto precisa di quella che ho, qui, delle nostre. Vivendo giochiamo il gioco della vita, e in esso siamo tutti alleati. Quindi la partita fra noi è perfettamente simmetrica. Col postulare Dio, postuliamo che la partita abbia un prolungamento oltre il mondo. Io credo che sia lecito postulare questo prolungamento, purché esso non influenzi in alcun modo lo svolgimento della partita qui. Altrimenti, in nome di qualcuno che forse non esiste potremmo sacrificare ciò che esiste qui ed esiste di sicuro.
NAAD osserva che l’atteggiamento di ADAN 300 verso Dio non gli è chiaro. ADAN ha ammesso, la possibilità che il creatore esista: che cosa segue da ciò?
ADAN: Nulla di nulla. Cioè nulla che abbia carattere di obbligo. Io credo che valga – e anche questo in tutti i mondo – il principio seguente: un’etica temporale è sempre indipendente da un’etica trascendente. Ciò significa che un’etica dell’hic et nunc non può avere fuori di sé alcuna sanzione che possa sostanziarla. E ciò significa che chi commette il male è in ogni caso un farabutto, così come chi fa il bene è in ogni caso un virtuoso. Se qualcuno è disposto a servire Dio giudicando sufficienti gli argomenti a favore della Sua esistenza, costui non acquista con ciò alcun merito addizionale qui: è affar suo. Questo principio si basa sull’assunto che se Dio non esiste, allora Egli non esiste neanche un po’, e se esiste, è onnipotente. Essendo onnipotente, Egli potrebbe allora creare non soltanto un altro mondo, ma del pari anche un’altra logica diversa da quella su cui si fonda il mio ragionamento. All’interno di questa logica, l’ipotesi di un’etica temporale potrebbe essere necessariamente dipendente da un’etica trascendente. In tal caso le prove logiche, se non quelle palpabili, avrebbero una forza cogente e ci obbligherebbero ad accettare l’ipotesi di Dio per tema di peccare contro la ragione.
NAAD dice che Dio non desidera una situazione che a tal punto obblighi a credere in Lui, situazione che si presenterebbe in un creato basato sull’altra logica postulata da ADAN 300. A ciò questi risponde:
Un Dio onnipotente deve essere anche onnisciente; il potere assoluto non è qualcosa d’indipendente dalla conoscenza assoluta, poiché colui che può fare tutto ma non sa quali conseguenze seguiranno dall’esercizio della propria onnipotenza non è più, ipso facto, onnipotente; se Dio facesse qualche miracolo ogni tanto, come corre voce che faccia, Egli porrebbe la Sua perfezione in una luce quanto mai dubbia, poiché un miracolo è una violazione dell’autonomia della Sua creazione, un intervento violento. Ma colui che ha regolato il prodotto della propria creazione e ne conosce il comportamento dall’inizio alla fine non ha alcun bisogno di violare quest’autonomia; se nonostante ciò la viola, pur restando onnisciente, ciò significa che egli così facendo non corregge affatto la sua opera (una correzione, dopotutto, può significare soltanto una non-onniscenza iniziale), ma fornisce invece – col miracolo – un segno della propria esistenza. Orbene, questa è logica fallace, poiché la produzione di un segno siffatto deve necessariamente dare l’impressione che il creato venga ciò nondimeno corretto nei suoi incespicamenti locali. Infatti un’analisi logica del nuovo modello fornisce quanto segue: la creazione subisce correzioni che non procedono da essa ma provengono dall’esterno (dal trascendente, da Dio), e quindi i miracoli dovrebbero in realtà diventare la norma; ovvero, in altre parole, la creazione dovrebbe essere corretta e perfezionata in modo tale che i miracoli alla fine non risulterebbero più necessari. Infatti i miracoli, in quanto interventi specifici, non possono essere soltanto segni dell’esistenza di Dio: essi dopo tutto, oltre a rivelare il loro Autore, indicano sempre un destinatario (essendo indirizzati a qualcuno qui per aiutarlo). Così dunque, rispetto alla logica, le cose devono stare in questo modo: o la creazione è perfetta, nel qual caso i miracoli non sono necessari, oppure i miracoli sono necessari, nel qual caso la creazione non è perfetta. (Con o senza miracoli, si può correggere solo ciò che ha qualche difetto, poiché un miracolo che interferisca con ciò che è perfetto lo disturberà soltanto, o anzi lo peggiorerà). Pertanto segnalare la propria presenza col miracolo equivale ad usare un metodo per manifestarsi che è il peggiore possibile dal punto di vista logico.
NAAD chiede se Dio in realtà non voglia che vi sia una dicotomia fra la logica e il credere in Lui: forse l’atto di fede dovrebbe essere proprio un abbandono della logica a favore di una fiducia totale.
ADAN: Una volta che si permette che la ricostruzione logica di qualcosa (un essere, una teodicea, una teogonia e simili) contenga autocontraddizioni interne, diventa chiaramente possibile dimostrare qualunque cosa ci piaccia. Consideriamo i termini della cosa: si crea qualcuno e lo si dota di una certa logica, e poi si pretende che questa stessa logica sia offerta in sacrificio per poter credere nel Fattore di tutte le cose. Se questo modello deve a sua volta restare esente da contraddizioni, esso richiede l’applicazione, sotto forma di metalogica, di un tipo di ragionamento affatto diverso da quello che è naturale per la logica di colui che è stato creato. Se tutto ciò non rivela la netta imperfezione del Creatore, rivela purtuttavia una qualità che chiamerei ineleganza matematica: una carenza di metodicità (un’incoerenza) sui generis dell’atto creativo.
NAAD insiste: Forse Dio agisce così proprio perché desidera restare imperscrutabile al Suo creato, cioè non ricostruibile mediante la logica che Egli gli ha fornito. In breve, Egli esige il primato della fede sulla logica.
ADAN gli risponde: Capisco che cosa vuoi dire. Ciò naturalmente è possibile, ma anche se così fosse, una fede che si dimostri incompatibile con la logica presenta uno spiacevolissimo dilemma di natura morale. In tal caso infatti a un certo punto dei nostri ragionamenti si rende necessario sospenderli per da la precedenza a una supposizione nebulosa; in altre parole, si rende necessario situare la supposizione al di sopra della certezza logica; e si deve fare questo in nome di una fiducia illimitata. Entriamo qui in un circulus vitiosus, poiché l’esistenza postulata di ciò in cui è d’uopo porre ora la nostra fiducia è il prodotto di una linea di ragionamento che, all’inizio, era logicamente corretta; sorge così una contraddizione logica che, per certuni, assume un valore positivo e viene detta il Mistero di Dio. Orbene, sotto il profilo della pura costruzione questa soluzione è scadente e sotto il profilo morale è discutibile, poiché il Mistero può essere fondato in modo soddisfacente sull’infinito (l’infinitezza è, in fin dei conti, una caratteristica del nostro mondo), ma il mantenimento e il rafforzamento di esso mediante il paradosso interno è, secondo qualunque criterio architettonico, un procedimento disonesto. I difensori della teodicea in genere non si rendono conto che è così perché a certe parti della loro teodicea essi continuano ad applicare la logica ordinaria e ad altre no. Voglio dire questo: che se uno crede nella contraddizione, allora dovrebbe credere solo nella contraddizione e non allo stesso tempo anche in qualche non-contraddizione (cioè nella logica) in altri campi. Se, tuttavia, si insiste in questo curioso dualismo (cioè che il temporale è sempre soggetto alla logica e il trascendente solo a tratti), allora il modello del Creato che così si ottiene è qualcosa che, rispetto alla correttezza logica, è “rappezzato” e non è più possibile postulare la sua perfezione. Si giunge senza scampo alla conclusione che la perfezione è qualcosa di necessariamente rappezzato sotto il profilo logico.
EDNA chiede se la congiunzione di queste incoerenze non possa essere l’amore.
ADAN: Anche se così fosse, non può essere qualsiasi forma d’amore bensì solo una forma simile all’accecamento. Dio, se c’è, se ha creato il mondo, gli ha permesso di governarsi come può e desidera. Per il fatto che Dio esiste non è richiesta nessuna gratitudine verso di Lui; tale gratitudine poggia sul precedente assunto che Dio è in grado di non esistere e che ciò sarebbe male, premessa che porta a un altro genere ancora di contraddizione. E la gratitudine per l’atto creativo? Neppure questa è dovuta a Dio. Infatti essa è basata sulla coazione a credere che essere sia senz’altro meglio che non essere; e non riesco a immaginare come ciò possa, a sua volta, essere dimostrato. A chi non esiste non è certo possibile fare né un favore né un danno, e se Colui che crea, nella Sua onniscienza, sa già in anticipo che colui che è creato Gli sarà grato e Lo amerà oppure che non Gli sarà grato e Lo rinnegherà, Egli con ciò stabilisce un vincolo, anche se esso non è accessibile alla comprensione diretta di colui che è creato. Proprio per questo motivo, nulla è dovuto a Dio: né odio né amore, né gratitudine né biasimo, né la speranza di una ricompensa né il timore di un castigo. Niente Gli è dovuto. Un Dio bramoso di questi sentimenti deve prima assicurare al Suo soggetto senziente che Egli esiste al di là di ogni dubbio. L’amore può essere forzato ed affidarsi a speculazioni riguardanti la reciprocità che esso ispira; ciò è comprensibile. Ma un amore forzato ad affidarsi a speculazioni riguardanti l’esistenza dell’oggetto amato non ha senso. Colui che è onnipotente avrebbe potuto dare la certezza. Poiché non l’ha data, Egli, se esiste, deve averla ritenuta non necessaria. Perché non necessaria? Si comincia a sospettare che forse Egli non è onnipotente. Un Dio non onnipotente meriterebbe sentimenti affini alla pietà, e in effetti anche all’amore; ma questo, penso, nessuna delle nostre teodicee lo ammette. E così diciamo: noi serviamo noi stessi e nessun altro.
Tralasciamo le conclusioni raggiunte in seguito sulla questione se il dio della teodicea sia più un liberale o un autocrate; è difficile riassumere argomenti che occupano una parte così grande del libro. Le discussioni e le conclusioni che Dobb ha riportato, svoltesi talvolta in colloqui di gruppo tra ADAN 300, NAAD e altri personoidi, e talvolta in soliloqui (lo sperimentatore è in grado di registrare anche una sequenza puramente mentale, per mezzo di appositi strumenti collegati con i circuiti del calcolatore), costituiscono in pratica un terzo diNon serviam. Nel testo esse non vengono mai commentate, ma nella postfazione di Dobb troviamo questa dichiarazione:

Il ragionamento di ADAN pare incontrovertibile, almeno per quanto riguarda me: in fin dei conti sono stato io a crearlo. Nella sua teodicea sono io il Creatore. Sta di fatto che io ho prodotto quel mondo (numero progressivo 47) con l’ausilio del programma ADONAI IX e ho creato le gemme dei personoidi apportando una modifica al programma JAHVE VI. Queste entità iniziali diedero luogo a trecento generazioni successive. Sta di fatto che io non ho comunicato loro sotto forma di assioma né questi dati né la mia esistenza oltre i limiti del loro mondo. Sta di fatto che essi sono giunti a ritenere possibile la mia esistenza solo per via dell’inferenza, sulla base di congetture e ipotesi. Sta di fatto che quando creo esseri intelligenti non mi sento autorizzato a esigere tributi di alcun genere: amore, gratitudine, o servizi di sorta. Posso espandere o ridurre il loro mondo, accelerare o rallentare il loro tempo, alterare le modalità e gli strumenti della loro percezione; posso eliminarli, dividerli, moltiplicarli, trasformare il fondamento ontologico stesso della loro esistenza. Sono quindi onnipotente rispetto a loro, ma in realtà da ciò non segue che essi mi debbano alcunché. Per quanto mi riguarda, essi non sono per nulla obbligati verso di me. È vero che io non li amo. L’amore non c’entra affatto, benché, suppongo, qualche altro sperimentatore possa magari provare questo sentimento per i suoi personoidi. A mio parere, ciò non modifica in nulla la situazione; proprio in nulla. Immaginate per un momento che io colleghi al mio BIX 310 092 un’enorme unità ausiliaria che funga da ‘aldilà’. Attraverso i canali di connessione faccio passare dentro l’unità, una dopo l’altra, le ‘anime’ dei miei personoidi, e laggiù ricompenso quelle che credevano in me, mi rendevano omaggio, mi dimostravano gratitudine e fiducia, mentre punisco gli altri, i ‘senza-dio’, per usare il vocabolario dei personoidi, per esempio annientandoli, oppure torturandoli. (A un castigo eterno non oso nemmeno pensare, non sono un mostro fino a quel punto!). Non c’è dubbio che il mio operato sarebbe considerato un atto di spudoratissimo egoismo, un meschino gesto di vendetta irrazionale, insomma, l’ultimo oltraggio in una situazione di dominio totale su esseri innocenti. E questi innocenti avrebbero contro di me la prova irrefutabile della logica, che è l’egida della loro condotta. Ciascuno, è ovvio, ha il diritto di trarre dagli esperimenti della personetica le conclusioni che considera appropriate. Una vola, durante una conversazione privata, il dottor Ian Combay mi disse che in fin dei conti avrei potuto fornire alla società dei personoidi la certezza della mia esistenza. Ebbene, è una cosa che non farò mai, poiché ciò avrebbe secondo me tutta l’aria di voler provocare un effetto, cioè sembrerebbe voler sollecitare una reazione da parte loro. Ma che cosa potrebbero poi fare o dirmi, che non mi faccia sentire in profondo imbarazzo, il dolore pungente di essere il loro sfortunato Creatore? Le bollette dell’elettricità che consumiamo devono essere pagate ogni trimestre, e arriverà il momento in cui i miei superiori all’università esigeranno la ‘chiusura’ dell’esperimento, cioè l’arresto della macchina o, in altre parole, la fine del mondo. Intendo rimandare quel momento per quanto è umanamente possibile. È l’unica cosa di cui sono capace, ma non è una cosa che consideri particolarmente degna di lode. Anzi, è ciò che, in un linguaggio comune, viene di solito chiamato ‘una sporca faccenda’- Dicendo questo spero che nessuno si faccia venire delle idee; ma se gli vengono, be’, è affar suo”.

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