UNIVERSO, di Robert A. Heinlein
«Attenzione,
c'è un mutante laggiù!»
Al
grido d'allarme, Hugh Hoyland si abbassò, raggomitolandosi su
se stesso. Un proiettile metallico a forma d'uovo colpì la paratia a
un centimetro dalla sua testa, rischiando di fracassargli il
cranio. Hoyland si era piegato con uno scatto tale che i suoi piedi
si erano sollevati dalle lastre del pavimento, e prima di toccare di
nuovo il suolo spinse energicamente i piedi contro la paratia alle
sue spalle, lanciandosi in avanti. Si proiettò in posizione
orizzontale lungo il passaggio, con il pugnale in mano.
Girandosi
in aria, frenò il proprio slancio puntando i piedi contro la paratia
metallica, proprio nel punto da cui il mutante lo aveva attaccato, e
ricadde lentamente in piedi. Il restante tratto del passaggio
era deserto. I suoi due compagni nel frattempo lo avevano raggiunto,
scivolando con strani movimenti lungo il pavimento.
«È
fuggito?» chiese Alan Mahoney.
«Sì»
rispose Hoyland. «Ho fatto in tempo a vederlo mentre si
infilava in quel boccaporto. Una femmina, direi. Mi è sembrato
avesse quattro gambe.»
«Due
gambe o quattro, ormai non l'acchiappiamo più» osservò il terzo
uomo.
«E
chi Huff lo voleva prendere?» protestò Mahoney. «Io no di certo!»
«Ma
io sì!» ribatté Hoyland. «Per Jordan, se avesse mirato un
centimetro più in basso, adesso sarei già pronto per il
Convertitore.»
«Ma
è possibile che nessuno di voi due riesca a dire tre parole senza
metterci una bestemmia?» li rimproverò il terzo uomo. «E se
il Capitano vi sentisse?»
Nel
nominare il Capitano si toccò la fronte con un gesto di
reverenza.
«Oh,
per l'amor di Jordan» sbuffò Hoyland «non essere così rigido,
Mort Tyler. Non sei ancora uno scienziato, in fin dei conti.
Credo di essere osservante almeno quanto te... ma non è un peccato
mortale dare sfogo ogni tanto ai propri sentimenti. Anche gli
scienziati lo fanno. Li ho sentiti con le mie orecchie.»
Tyler
aprì la bocca per ribattere, ma ci ripensò e lasciò perdere.
Mahoney
prese Hoyland per il braccio.
«Dammi
retta, Hugh» lo pregò «andiamocene via di qua. Non ci siamo mai
spinti così in alto. Non mi sento tranquillo... Ho bisogno di
tornare dove posso sentire un po' di peso sui piedi.»
Hoyland
guardò con rimpianto il boccaporto da cui il suo assalitore era
scomparso, continuando a stringere l'impugnatura del coltello. Si
rivolse quindi a Mahoney.
«D'accordo,
ragazzo» disse. «Abbiamo molta strada da fare per tornare
indietro.»
Si
voltò e iniziò a strisciare verso il boccaporto da cui avevano
raggiunto il livello dove si trovavano ora; gli altri due lo
seguirono. Senza servirsi della scaletta che avevano utilizzato per
salire, Hoyland si lasciò cadere nell'apertura, scendendo con
un lento ondeggiamento fino al ponte posto cinque metri più sotto,
con i due compagni a breve distanza. Un altro boccaporto, poco
lontano dal precedente, li fece accedere al ponte di un livello
ancora inferiore.
Giù,
giù, giù, scesero sempre più giù, attraverso decine e decine di
ponti, tutti silenziosi, poco illuminati, misteriosi. A ogni
nuovo livello, i loro corpi cadevano più rapidi e l'impatto con
il pavimento era un po' più duro.
Mahoney
alla fine protestò.
«Non
credi che sarebbe meglio usare le scale ora, Hugh? Quest'ultimo salto
mi ha quasi fracassato le gambe.»
«Come
vuoi. Ma impiegheremo più tempo. Quanto manca? Qualcuno ha contato i
livelli?»
«Ce
ne sono ancora settanta per arrivare alla zona verde» rispose Tyler.
«Come
fai a saperlo?» chiese Mahoney, sospettoso.
«Li
ho contati salendo, stupido. E, scendendo, ho diminuito di uno a
ogni ponte.»
«Non
ci credo. Soltanto uno scienziato può fare questi calcoli. Solo
perché stai imparando a leggere e a scrivere, credi già di
sapere tutto?»
Hoyland
intervenne prima che la discussione degenerasse in una lite.
«Piantala,
Alan. Può darsi che lui li sappia fare. È molto portato per queste
cose. E, comunque, i ponti da scendere non dovrebbero essere più di
settanta: comincio a sentirmi abbastanza pesante.»
«Forse
preferisce fare i conti con la lama del mio coltello!»
«Piantatela,
ve l'ho già detto! Lo sapete che fuori dal villaggio i duelli sono
proibiti. È il Regolamento.»
Ripresero
a scendere in silenzio, percorrendo rapidi le scale, fino a quando il
peso, che cresceva a ogni nuovo livello, li costrinse a
un'andatura più lenta.
Alla
fine raggiunsero un livello ben illuminato e alto più del doppio
rispetto ai ponti superiori. L'aria era umida e calda, la
vegetazione impediva la visuale.
«Ci
siamo, finalmente» disse Hugh. «Ma non ho mai visto questa
fattoria. Dobbiamo essere scesi lungo un percorso diverso da quello
che abbiamo seguito per salire.»
«C'è
un contadino» disse Tyler. Si avvicinò i mignoli alle labbra e
fischiò, poi gridò: «Ehi, compagno di viaggio! Dove ci
troviamo?»
Il
contadino li squadrò attentamente prima di indicare, con pochi
monosillabi pronunciati di malavoglia, dove si trovava il passaggio
principale che li avrebbe riportati al loro villaggio.
Percorsero
a passo spedito un'ampia galleria, lunga circa tre chilometri,
abbastanza trafficata: viaggiatori, facchini, qualche sporadico
carrettino, un distinto scienziato che procedeva rapido su una
portantina trasportata da quattro attendenti muscolosi, preceduto dal
suo aiutante, incaricato di sgombrare la strada dai comuni passanti.
Alla fine, arrivarono alla zona comune del loro villaggio, alta
tre ponti e larga forse dieci volte tanto. I tre si separarono e
ognuno andò per la sua strada. Hugh si diresse al suo alloggiamento
nella caserma dei cadetti, i giovani scapoli che non vivevano con i
genitori. Dopo essersi lavato, si recò nei compartimenti di suo zio,
presso cui lavorava per guadagnarsi da vivere. Quando entrò, sua zia
alzò gli occhi ma non disse nulla, come si conveniva a una
donna.
«Ciao,
Hugh» disse lo zio. «Sei andato ancora in esplorazione?»
«Lauto
pasto, zio. Sì.»
L'uomo,
flemmatico e dotato di buonsenso, sorrise con indulgenza.
«Fin
dove ti sei spinto e che cosa hai trovato?»
La
zia, che era uscita in silenzio dal compartimento, ricomparve
con la cena di Hugh e gliela pose davanti. Il giovane ci si avventò
sopra, e non gli passò neanche per la mente di ringraziare. Prima di
rispondere inghiottì un boccone.
«Siamo
saliti in alto. Ci siamo arrampicati fin quasi al livello del non
peso. E un mutante ha cercato di spaccarmi il cranio.»
Lo
zio si mise a ridacchiare.
«Ci
rimetterai la pelle un giorno o l'altro in uno di quei passaggi,
ragazzo. Sarebbe meglio che ti occupassi un po' di più dei miei
affari, in previsione del giorno in cui morirò e mi toglierò dai
piedi.»
Hugh
fece un'espressione corrucciata.
«Ma
tu, zio, non hai proprio nessuna curiosità?»
«Io?
Ho curiosato abbastanza da giovane. Sono arrivato sino in fondo
al passaggio principale e sono tornato al villaggio. Ho attraversato
tutto il Settore Buio, con un branco di mutanti alle calcagna. Vedi
questa cicatrice?»
Hugh
diede alla cicatrice un'occhiata di cortesia. L'aveva già vista
un'infinità di volte e aveva sentito raccontare la storia fino alla
noia. Un solo giro della Nave... figurarsi! Lui voleva andare
ovunque, vedere tutto e scoprire il perché delle cose. Per
esempio, quei livelli superiori... se agli uomini non era lecito
arrivarvi, perché Jordan li aveva creati?
Ma
tenne per sé i suoi pensieri e continuò a mangiare.
Lo
zio cambiò discorso.
«Ho
occasione di andare dal Testimone. John Black sostiene che gli devo
tre maiali. Vuoi venire anche tu?»
«Ecco,
veramente no, credo di no. Aspetta... ma sì, ti accompagno.»
«Sbrighiamoci,
allora.»
Si
fermarono alla caserma, dove Hugh sosteneva di dover sbrigare
una faccenda. Il Testimone viveva in un piccolo compartimento
maleodorante sul lato opposto della zona comune, proprio di fronte
alla caserma, dove poteva essere facilmente rintracciato da chiunque
avesse bisogno del suo consiglio. Lo trovarono seduto sulla
soglia, intento a stuzzicarsi i denti con un'unghia.
Il
suo apprendista, un ragazzo con la faccia foruncolosa e
l'espressione assorta dei miopi, gli stava accoccolato alle spalle.
«Lauto
pasto» disse lo zio di Hugh.
«Lauto
pasto a te, Edard Hoyland. Sei venuto per affari o per tenere
compagnia a un povero vecchio?»
«Per
entrambe le cose» rispose diplomaticamente lo zio di Hugh. Dopo di
che espose il motivo della sua visita.
«Qual
è il problema?» chiese il Testimone. «Il contratto parla
chiaro: "John consegna dieci sacchi d'avena, e stabilisce il
prezzo di due maiali; Ed mena la sua scrofa alla monta, John riceve
il pagamento quando i maiali sono cresciuti". Quanto sono
grandi ora i due porcelli, Edard Hoyland?»
«A
sufficienza» rispose Edard Hoyland «ma il guaio è che John Black
adesso, invece dei due maiali pattuiti, ne pretende tre.»
«E
tu digli di andare ad affogarsi. Il Testimone ha parlato!»
E
scoppiò in una risata chioccia.
I
due chiacchierarono per un po', Edard Hoyland raccontò alcuni
eventi che gli erano accaduti di recente, cercando di soddisfare
l'insaziabile curiosità del vecchio per i dettagli. Hugh rimase
rispettosamente in silenzio, mentre i due uomini parlavano. Ma,
quando suo zio si mosse per andare, si decise ad aprire la bocca.
«Io
mi fermo ancora un po', zio.»
«Fa'
come vuoi. Lauto pasto, Testimone.»
«Lauto
pasto, Edard Hoyland.»
«Ti
ho portato un regalo, Testimone» disse Hugh appena suo zio fu
abbastanza lontano da non sentirlo.
«Mostramelo.»
Hugh
gli diede un pacchetto di tabacco che aveva preso nel suo armadietto
in caserma. Il Testimone accettò il dono senza ringraziare e lo
gettò al suo apprendista, che lo prese in consegna. «Entra pure»
disse il Testimone. Poi si rivolse all'apprendista: «Ehi, tu...
Porta una sedia al cadetto.»
«E
ora, figliolo» riprese quando furono entrambi seduti
«raccontami che cosa stai facendo.»
Hugh
lo accontentò e dovette ripetere, senza tralasciare un solo
particolare, tutti gli incidenti delle sue ultime esplorazioni,
mentre il Testimone continuava a lamentarsi della sua incapacità
di ricordare con precisione tutto quello che aveva visto.
«Voi
giovani siete incapaci, completamente incapaci» dichiarò. «Perfino
quel giovinastro» e con un cenno della testa indicò il suo
apprendista «non è capace di ricordare, sebbene valga una
dozzina di volte più di te, quanto a questo. Ci crederesti che non
riesce a tenere a mente mille versi al giorno? Eppure è convinto di
poter prendere il mio posto, quando io me ne sarò andato. Quando
facevo io l'apprendista, avevo preso l'abitudine, per addormentarmi,
di canticchiare un migliaio di versi. Barche che fanno acqua, ecco
che cosa siete voi giovani.»
Hugh
non replicò all'accusa, ma aspettò che il vecchio riprendesse a
parlare, cosa che egli fece con tutto comodo.
«Volevi
chiedermi qualcosa, ragazzo?»
«In
un certo senso, sì, Testimone.»
«Bene,
dunque, dimmi. Non star qui a tergiversare.»
«Volevo
sapere se ti sei mai arrampicato fino al livello del non peso.»
«Io?
No, davvero! Studiavo da Testimone, seguivo la mia vocazione. Avevo
da imparare i versi di tutti i Testimoni che mi hanno preceduto,
e non mi restava certo il tempo per svaghi puerili!»
«Speravo
tu sapessi dirmi che cosa potrei trovare lassù.»
«Questo
è un altro paio di maniche. Io non mi sono mai spinto fin lì, ma
conservo i ricordi di molte persone che ci sono state, più di quante
tu potrai mai conoscere. Sono vecchio, io. Ho conosciuto il padre di
tuo padre e, prima di lui, il tuo bisnonno. Che cosa vorresti
sapere?»
«Ecco...»
Che
cosa voleva sapere esattamente? Come esprimere con una domanda quello
che era soprattutto un dolore che lo tormentava, una curiosità
bruciante? D'altra parte...
«Vorrei
sapere che cosa significano tutte queste cose, Testimone. Perché ci
sono tutti quei livelli sopra di noi?»
«Eh?
Come sarebbe a dire? Nel nome di Jordan, figlio mio, io faccio il
Testimone, non lo scienziato!»
«Pensavo
lo sapessi. Mi dispiace.»
«Certo
che lo so. Quello che cerchi si trova nei Versi del Principio.»
«Li
ho già sentiti.»
«Ascoltali
ancora. Troverai le risposte a tutti i tuoi quesiti, se sarai
abbastanza saggio da vederle. Ascoltami. Anzi... questa è una buona
occasione per il mio apprendista di mostrare la sua
erudizione... Ehi, tu! Facci sentire i Versi del Principio e...
attento al ritmo.»
L'apprendista
si passò la punta della lingua sulle labbra e cominciò: «In
principio era Jordan, che pensava in solitudine i Suoi
pensieri.»
"In
principio era la tenebra, l'informe, il non essere, e l'Uomo non
esisteva.
"Dalla
solitudine venne il desiderio, dal desiderio la visione.
"Dal
sogno nacque lo scopo, lo scopo generò la decisione.
"Jordan
levò alta la mano, e la Nave fu.
"Confortevoli
cabine e silos di grano dorato a perdita d'occhio.
"Scale
e passaggi, porte e rifugi per proteggere chi ancora non era
nato.
"Jordan
guardò la Propria Opera e se ne compiacque, gli parve adatta a una
razza che ancora non esisteva.
"Pensò
l'Uomo, e l'Uomo fu; nei suoi pensieri cercò la chiave.
"Lasciato
libero, l'Uomo avrebbe disobbedito al Creatore; senza legge,
avrebbe distrutto il Piano.
"Così,
Jordan dettò il Regolamento, norme per tutti gli uomini.
"A
ciascun uomo assegnò un compito e un ruolo, per servire un fine che
non potevano comprendere.
"Agli
uni il comandare, agli altri l'obbedire, e l'ordine regnò tra gli
uomini.
"Creò
l'Equipaggio affinché ciascuno assolvesse il proprio compito, e
gli scienziati dovevano dirìgere il Piano.
"Sopra
tutti creò il Capitano, lo volle giudice della razza umana.
"Così
era nell'Età dell'Oro!
"Jordan
è perfetto, chiunque si trovi sotto di lui compie azioni imperfette.
"Invidia,
Avidità e Superbia cercarono menti in cui depositare i loro
semi.
"E
ci fu un uomo che li ospitò: il maledetto Huff, il primo a
peccare!
"Con
il suo perverso consiglio egli indusse la ribellione, seminò il
dubbio dove prima non esisteva.
"Il
sangue dei martiri macchiò le lastre del pavimento, il Capitano di
Jordan fece il Viaggio.
"Calarono
le tenebre..."
Il
vecchio colpì il ragazzo sulla bocca con un violento manrovescio.
«Riprova!»
«Dall'inizio?»
«No,
da dove ti sei perso.»
L'apprendista
esitò, poi ritrovò il giusto ritmo. «Le tenebre calarono
su tutti i ponti e il Male trionfò sulla virtù...»
La
voce del ragazzo continuò la monotona litania, un verso dopo
l'altro, cantilenando le frasi ritmiche, e rievocando, seppure
con qualche imprecisione, l'antica, antichissima storia di
peccato, ribellione e tenebre discese sull'uomo. Narrò di come la
saggezza alla fine avesse prevalso e i capi dei ribelli fossero
stati dati in pasto al Convertitore. Raccontò come alcuni
rivoltosi fossero sfuggiti al Viaggio e fossero sopravvissuti,
generando i mutanti, e un nuovo Capitano fosse stato scelto dopo
molte preghiere e sacrifici.
Hugh,
inquieto, non riusciva a stare fermo e strascicava i piedi.
Trattandosi
dei Sacri Versi, senza dubbio dovevano contenere le risposte alle sue
domande, ma lui non era abbastanza intelligente da trovarle. Perché?
Che cosa significava tutto ciò? Possibile che nella vita non ci
fosse altro che mangiare, dormire e, alla fine, partire per il
lungo Viaggio? Forse Jordan lo aveva destinato a non capire? Ma
allora perché quella pena nel cuore? Quella fame che non se ne
andava, nonostante i lauti pasti?
Stava
interrompendo il digiuno, dopo il sonno, quando un attendente si
presentò alla porta dei compartimenti di suo zio.
«Lo
scienziato richiede la presenza di Hugh Hoyland» disse cantilenando.
Hugh
capì che lo scienziato era il Tenente Nelson, incaricato
del benessere fisico e spirituale del settore della Nave in cui si
trovava il villaggio dove era nato. Inghiottì l'ultimo boccone della
colazione e si affrettò a seguire l'attendente.
«Il
cadetto Hoyland!» lo annunciò l'attendente.
Lo
scienziato sollevò lo sguardo dal suo cibo.
«Oh,
bene» disse. «Avanti, ragazzo. Siediti. Hai mangiato?»
Hoyland
fece cenno di sì, ma i suoi occhi si posarono incuriositi sulla
strana frutta che il Tenente aveva davanti. Nelson, che aveva seguito
il suo sguardo, lo invitò a servirsi.
«Assaggia
questi fichi. Sono frutto di un nuovo innesto. Li ho fatti
venire dalla fiancata più lontana. Avanti, serviti, alla tua età un
uomo ha sempre posto per qualche boccone in più.»
Hugh
accettò con molto imbarazzo. Non aveva mai mangiato in presenza di
uno scienziato. Il vecchio appoggiò la schiena alla sedia, si
pulì le dita sulla camicia, si lisciò la barba e disse: «È
un po' di tempo che non ti vedo, ragazzo mio. Raccontami che cosa hai
fatto.» Ma prima che Hugh potesse rispondere, proseguì: «No, non
dirmi niente. Te lo dirò io. Innanzitutto, mi risulta che hai
esplorato e sei salito ai livelli alti, senza rispettare molto le
zone proibite. Non è così?»
Fissò
il giovane negli occhi, e Hugh iniziò a balbettare, cercando di
rispondere. Ma anche questa volta, Nelson non gliene lasciò il
tempo.
«Non
importa. Lo so, e tu sai che lo so. Non ne sono particolarmente
dispiaciuto, ma ciò mi ha costretto a riflettere sul fatto che
è ormai tempo per te di decidere quello che intendi fare della
tua vita. Hai qualche progetto?»
«Be'...
niente di preciso, signore.»
«E
quella ragazza, Edris Baxter? Hai intenzione di sposarla?»
«Veramente...
non saprei, signore. Penso di volerlo e suo padre è d'accordo,
credo. Solo...»
«Solo
che cosa?»
«Mah...
Suo padre vorrebbe che andassi a lavorare come apprendista nella sua
fattoria. Suppongo sia una buona idea. La sua tenuta, insieme
all'attività di mio zio, rappresenterebbe una buona proprietà.»
«Ma
non sei sicuro, vero?»
«Ecco...
non lo so.»
«È
giusto che tu abbia dei dubbi. Tutto ciò non è adatto a te. Ho
altri progetti. Dimmi, ti sei mai chiesto perché ti ho insegnato a
leggere e scrivere? L'hai fatto senz'altro. Ma hai tenuto i tuoi
pensieri per te. E hai fatto bene. Ora, però, stammi a sentire. Ti
osservo da quando eri bambino. Hai più immaginazione della media,
più curiosità, più vitalità. E sei un capo nato. Fin da
bambino eri diverso dagli altri. Il tuo cranio, per esempio, era più
sviluppato del normale, e ci fu chi, quando fosti ispezionato
alla nascita, votò per gettarti immediatamente nel Convertitore. Ma
io riuscii a impedirlo. Volevo vedere che cosa saresti diventato.
La vita del contadino non è fatta per persone come te. Tu sei
destinato a diventare uno scienziato.»
Il
vecchio tacque e studiò il volto di Hugh. Questi, confuso, era
rimasto senza parole. Nelson riprese: «Sì, è proprio così. Con un
uomo del tuo temperamento ci sono soltanto due cose da fare: renderlo
uno dei custodi o affidarlo al Convertitore.»
«Intende
dire, signore, che non ho altra scelta?»
«Se
la metti in termini così brutali... sì. Lasciare i più
intelligenti tra le file dell'Equipaggio significa rischiare
l'eresia. Non possiamo correre un tale pericolo. Già una volta
l'eresia si diffuse tra noi e fu sul punto di annientare la razza
umana. Ti sei fatto notare per le tue straordinarie capacità: ora
dovrai erudirti nel campo del retto pensiero, essere iniziato ai
Misteri, affinché tu possa diventare una forza di conservazione e
non il focolaio di un'infezione, fonte di guai.»
L'attendente
ricomparve con due pesanti fagotti, che lasciò cadere sul
pavimento. Hugh li guardò di sfuggita ed esclamò:
«Ma
quelle sono le mie cose!»
«Esattamente»
confermò Nelson. «Le ho mandate a prendere, perché d'ora in poi
abiterai qui. Ci rivedremo più tardi e daremo inizio ai tuoi studi,
a meno che tu abbia in mente qualcosa di meglio.»
«No,
signore, non mi pare. Devo ammettere di essere un po' confuso. Tutto
ciò, suppongo, significa che non potrò sposarmi.»
«Oh,
quanto a questo» rispose Nelson con noncuranza «sposa pure
quella ragazza, se proprio ci tieni. Il padre non potrebbe opporsi,
ora. Ti avverto, però: te ne stancherai presto.»
Hugh
Hoyland divorò gli antichi libri che il suo maestro gli
permetteva di leggere, e per molti, molti sonni non provò il
desiderio di salire ai ponti superiori né quello di lasciare il
compartimento di Nelson. Più d'una volta gli parve di essere sulla
strada che portava alla soluzione del mistero — un mistero che non
riusciva a definire, neppure in forma di domanda — ma poi si
ritrovava più confuso che mai. Diventare uno scienziato,
evidentemente, era molto più difficile di quanto avesse creduto.
Un
giorno, mentre si scervellava sulle bizzarre tortuosità che
caratterizzavano gli antichi e cercava di scoprire la chiave della
loro strana retorica e dei loro insoliti termini, Nelson entrò
nella piccola cabina che gli era stata destinata e, ponendogli
paternamente la mano sulla spalla, gli chiese: «Allora,
ragazzo, come va?»
«Abbastanza
bene, signore, direi» rispose Hugh mettendo il libro da parte.
«Alcune cose, però, mi sono ancora un po' oscure, anzi, molto
oscure per essere sincero.»
«Non
potrebbe essere diversamente» rispose il vecchio per nulla
turbato. «Ho lasciato che affrontassi queste letture da solo,
affinché ti rendessi conto delle insidie a cui può andare incontro
una mente incolta. Molte di queste cose non possono essere comprese
senza una guida. Che cosa stavi leggendo?» Prese il libro e lo
guardò. Si intitolava Elementi di fisica moderna.
«È
uno degli scritti sacri più preziosi» commentò «ma chi non è
stato iniziato a questo sapere, senza aiuto, non può trarne il
minimo profitto. Innanzitutto, ragazzo mio, devi capire che i
nostri antenati, nonostante tutta la loro perfezione spirituale, non
vedevano le cose come noi. Erano inguaribili romantici, e non
razionalisti come noi, e le nozioni che ci hanno tramandato, sebbene
indiscutibilmente vere, sono spesso avvolte in un linguaggio
allegorico. Per esempio, sei arrivato alla Legge di Gravitazione
Universale?»
«L'ho
letta.»
«E
l'hai capita? No, vedo che non l'hai capita.»
«Ecco»
disse Hugh, sulla difensiva «non mi pare che abbia un significato.
Mi sembra solo una sciocchezza, signore, se mi permette.»
«Questo
dimostra quanto stavo dicendo. Tu la intendevi in senso
letterale, e lo stesso vale per le leggi che governano gli
apparecchi elettrici di cui si parla in un altro punto del libro. Due
corpi si attraggono con una forza direttamente proporzionale al
prodotto delle loro masse e inversamente proporzionale al quadrato
della distanza. Sembrerebbe una delle tante leggi relative ai
semplici fenomeni fisici, no? Invece, non si tratta affatto di
questo: era il poetico modo con cui i nostri avi formulavano la legge
di attrazione che regola l'emozione dell'amore. I corpi a cui
alludevano sono i corpi umani, la massa è la loro capacità di
amare. I giovani hanno una capacità di amare superiore a quella dei
vecchi; quando sono vicini si innamorano, quando si separano
dimenticano presto l'amore. "Lontano dagli occhi, lontano
dal cuore". È altrettanto semplice. Ma tu in questa legge
cercavi un significato più profondo.»
Hugh
sorrise.
«Non
l'ho mai pensata in questo modo. Capisco che avrò bisogno di molto
aiuto.»
«Hai
altri problemi?»
«Be'...
sì, parecchi, per la verità, anche se, così su due piedi, non mi
vengono in mente. Una cosa vorrei chiederle: è vero che i
mutanti si possono considerare esseri umani come noi?»
«Vedo
che hai dato ascolto a voci infondate. La risposta a questa
domanda è tanto sì quanto no. È vero che i mutanti originariamente
discendevano da esseri umani, ma non fanno più parte dell'Equipaggio
e non si possono più considerare come membri della razza umana,
perché hanno contravvenuto alla Legge di Jordan.»
«È
un argomento molto vasto» proseguì, dopo averci riflettuto.
«Ci sono dubbi anche riguardo al significato originario del
termine mutante. È un fatto che tra i loro antenati si
annoverino gli ammutinati sfuggiti alla morte al tempo della
ribellione. Ma nelle loro vene scorre anche il sangue dei molti
mutanti che nacquero durante l'Epoca Oscura. Come puoi certo
immaginare, a quel tempo non era ancora in vigore la saggia Legge che
impone di ispezionare ogni neonato per accertare che non porti
il marchio del peccato e che obbliga a gettare nel Convertitore
chiunque presenti delle mutazioni. Ci sono strane e orrende
creature che strisciano per i passaggi oscuri e si annidano nei
livelli disabitati.»
Hugh
ci pensò per qualche istante, poi chiese: «Ma perché queste
mutazioni continuano a verificarsi anche tra noi esseri umani?»
«È
semplice. Il seme del peccato è ancora in noi. Ogni tanto riappare,
personificato. Distruggendo quei mostri contribuiamo a purificare la
specie, affinché si compia il Disegno di Jordan, e l'uomo si
avvicini alla nostra dimora celeste, meta del Viaggio: la remota
Centauri.»
La
fronte di Hoyland si corrugò di nuovo.
«Un'altra
cosa mi sfugge. Molti di questi antichi scritti parlano del
Viaggio come se si trattasse di un vero e proprio spostamento, un
movimento verso qualche luogo, come se la Nave stessa non fosse altro
che un carro. Com'è possibile?»
Nelson
sorrise.
«Come
può essere, infatti? Come potrebbe muoversi lo sfondo rispetto al
quale tutto il resto si muove? La risposta, naturalmente, è
semplice: ancora una volta hai confuso il linguaggio allegorico con
quello che si usa nella vita di tutti i giorni. Ovviamente, la
Nave è possente, immobile in senso fisico. Come potrebbe muoversi
l'intero universo? Tuttavia, si muove senz'altro, in senso
spirituale. Ogni atto di devozione che facciamo ci avvicina alla
meta suprema, il Disegno di Jordan.»
Hugh
annuì.
«Credo
di capire.»
«Naturalmente,
Jordan avrebbe potuto dare al mondo una forma diversa da quella
della Nave, se fosse stata più adatta al Disegno. Quando l'umanità
era giovane e poetica, i devoti facevano a gara tra loro
nell'immaginare i mondi fantastici che Jordan avrebbe potuto creare.
Una scuola inventò addirittura la leggenda di un mondo capovolto,
fatto di spazi infiniti e vuoti, se si eccettuano puntini
luminosi e mostruose creature mitologiche senza corpo. Lo
chiamarono "mondo celeste" o "cielo", quasi a
contrastare la possente realtà della Nave. Sembravano non stancarsi
mai di speculare su questo mondo fantastico, arricchendolo di
particolari, e di creare immagini per rappresentare qualcosa che
pensavano potesse assomigliare a tale mondo. Probabilmente, lo
facevano a maggior gloria di Jordan, e chi potrebbe affermare
che Egli considerasse inaccettabili i loro sogni? Ma in quest'epoca
moderna abbiamo cose più serie di cui occuparci.»
A
Hugh non interessava l'astronomia. Perfino la sua mente incolta era
stata in grado di vedere nelle sue deliranti speculazioni
un'allegoria. Tornò quindi a problemi più concreti.
«Dato
che i mutanti sono il seme del peccato, perché non facciamo alcuno
sforzo per annientarli? Questo non ci avvicinerebbe al Disegno di
Jordan?»
Lo
scienziato meditò un attimo prima di rispondere.
«È
una domanda legittima e merita una risposta sincera. Dato che
stai per diventare uno scienziato, devi conoscere la risposta.
Considera il problema da questo punto di vista: la Nave può dare da
vivere a un Equipaggio limitato. Se ci moltiplicassimo all'infinito,
verrebbe un giorno in cui non ci sarebbero più lauti pasti per
nessuno. Non è quindi meglio che alcuni di noi periscano negli
scontri con i mutanti, anziché arrivare al punto di doverci
uccidere a vicenda per il cibo? Le strade di Jordan sono
imperscrutabili: perfino i mutanti rientrano nel suo Disegno.»
Le
spiegazioni di Nelson sembravano ragionevoli, ma Hugh non riusciva a
convincersene pienamente. Quando entrò in servizio attivo come
scienziato subalterno addetto al funzionamento della Nave, scoprì
che alcune persone la pensavano diversamente. Com'era consuetudine,
fece domanda per trascorrere un periodo in servizio presso il
Convertitore. Non era un lavoro faticoso, si trattava
soprattutto di verificare i materiali di scarto immessi da ogni
villaggio, registrare gli apporti e accertarsi che nessun metallo
riciclabile fosse introdotto nelle camere di raccolta. La sua
attività, però, lo mise in contatto con Bill Ertz,
l'assistente dell'Ingegnere Capo, un uomo poco più giovane di lui.
Discusse
con Ertz delle cose che aveva imparato da Nelson e fu colpito dal suo
atteggiamento.
«Mettiti
bene in testa una cosa, ragazzo» gli disse Ertz. «Il nostro è un
lavoro pratico per uomini pratici. Scordati tutte queste sciocchezze
romantiche. Il Disegno di Jordan! Roba per tenere buoni i contadini e
farli restare al loro posto, ma tu non lasciarti imbambolare!
Non c'è nessun Disegno... tranne quello di badare a noi stessi. La
Nave ha bisogno di luce, calore ed energia per cucinare e irrigare.
Ed è proprio per questo che siamo noi a comandare l'Equipaggio,
perché senza queste cose non può tirare avanti. Quanto alla
stupida tolleranza verso i mutanti, vedrai che presto ci saranno dei
cambiamenti. Tieni la bocca chiusa e unisciti a noi.»
Hugh
si rese conto che gli scienziati più giovani, alleatisi tra
loro, si aspettavano la sua lealtà. Si trattava di un gruppo
compatto formatosi in seno a un gruppo più vasto, e ne facevano
parte uomini capaci e determinati, che lavoravano duramente per
ottenere il miglioramento delle condizioni su tutta la Nave, o
perlomeno quello che giudicavano tale. Tra loro non c'erano
divergenze, perché un nuovo adepto che si rifiutasse di vedere le
cose come loro non durava a lungo: o dimostrava di non essere
all'altezza del suo compito, e si trovava presto ricacciato tra
le fila dei contadini, o, com'era più probabile, gli capitava un
incidente e andava a finire nel Convertitore.
Hoyland,
d'altra parte, cominciò ad accorgersi che avevano ragione.
Erano
realisti. La Nave era la Nave. Era un dato di fatto che non
esigeva alcuna spiegazione. Quanto a Jordan... chi Lo aveva mai
visto? Chi Gli aveva mai parlato? In cosa consisteva quel Suo oscuro
Disegno? Lo scopo della vita era vivere. Un uomo nasceva, viveva la
sua vita, e alla fine se ne andava al Convertitore. Era semplice, non
c'era nessun Mistero, nessun Disegno supremo e nessuna Centauri.
Queste storie romantiche erano strascichi di quando la razza si
trovava nella sua infanzia e gli uomini ancora non possedevano
l'intelligenza e il coraggio per guardare in faccia la realtà.
Hugh
smise presto di rompersi il cervello sull'astronomia e la fisica
mistica e su tutta la mitologia che gli avevano insegnato a
rispettare. Lo divertivano ancora, più o meno, i Versi del
Principio e tutte le vecchie storie sulla Terra — a ogni modo,
che Huff era la "Terra"? — ma adesso si rendeva conto che
cose del genere potevano essere prese sul serio solo dai bambini
e dagli stolti.
Inoltre,
c'era molto lavoro da fare. I giovani, pur riconoscendo
teoricamente l'autorità degli anziani, avevano progetti propri,
il primo dei quali era lo sterminio sistematico dei mutanti. A parte
questo, non avevano ancora piani precisi, ma contavano di
utilizzare appieno le risorse della Nave, comprese quelle dei
livelli superiori. I giovani potevano procedere con i loro piani
senza arrivare a una rottura con gli anziani, dato che gli scienziati
più vecchi non si curavano molto dell'ordinaria amministrazione
della Nave.
Il
Capitano in carica era diventato così grasso che raramente
usciva dalla sua cabina, ed era il suo giovane aiutante, uno dei
loro, a occuparsi di tutto per lui.
Hoyland
aveva visto l'Ingegnere Capo una sola volta, in occasione della
cerimonia, meramente religiosa, con cui si celebrava l'armamento
delle stazioni di atterraggio.
Il
piano di annientamento dei mutanti esigeva frequenti e
sistematiche ricognizioni dei livelli superiori. E fu proprio nel
corso di una ricognizione che Hugh cadde nuovamente nell'imboscata di
un mutante.
Questo
mutante aveva una mira molto più precisa del precedente. I compagni
di Hoyland, costretti a ritirarsi a causa della superiorità numerica
degli avversari, lo abbandonarono, dandolo per morto.
Joe-Jim
Gregory stava giocando a scacchi con se stesso. Un tempo giocava
a carte, ma Joe, la testa di destra, aveva avuto il sospetto che Jim,
quella di sinistra, barasse. Avevano litigato, così Joe-Jim decise
di rinunciare alle carte: aveva imparato molto presto, nella sua
carriera di bicefalo, che due teste su un solo paio di spalle devono
per forza trovare il modo di andare d'accordo.
Gli
scacchi erano molto meglio: entrambe le teste riuscivano a
vedere la scacchiera e non si potevano avere divergenze
d'opinione.
Qualcuno
bussò con forza alla porta metallica della cabina,
interrompendo la partita. Joe-Jim sguainò il coltello da lancio e lo
bilanciò tra le dita, pronto a servirsene.
«Avanti!»
urlò Jim.
La
porta si aprì e l'individuo che aveva bussato entrò camminando
all'indietro (il solo modo sicuro, come tutti sapevano, di
presentarsi a Joe-Jim). Il nuovo arrivato era alto non più di un
metro e venti, con una corporatura tarchiata e una muscolatura
massiccia. Su una spalla trasportava il corpo inanimato di un
uomo, che teneva fermo con la mano.
Joe-Jim
rinfoderò il suo coltello.
«Mettilo
giù, Bobo» ordinò Jim.
«E
chiudi la porta» soggiunse Joe. «Che cos'abbiamo qui?»
Era
un giovane uomo, apparentemente morto, sebbene non presentasse alcuna
ferita. Bobo gli palpò una coscia.
«Mangiare?»
chiese speranzoso. Un rivolo di saliva gli usciva dalle labbra
socchiuse.
«Forse»
temporeggiò Jim. «L'hai ucciso?»
Bobo
scosse la minuscola testa.
«Bravo,
Bobo» approvò Joe. «Dove lo hai colpito?»
«Bobo
colpito lui qui.» Il microcefalo premette un pollice esageratamente
largo contro il corpo supino, nella regione compresa tra l'ombelico e
lo sterno.
«Bel
colpo!» esclamò Joe. «Con un coltello non avremmo potuto fare di
meglio.»
«Bel
colpo» convenne il nano senza grande entusiasmo. «Volere
vedere?» chiese, facendo vibrare la fionda contento.
«Taci»
rispose Joe, abbastanza gentilmente. «No, non vogliamo vedere,
vogliamo farlo parlare.»
«Bobo
sveglia lui» acconsentì il piccoletto, e con naturale
brutalità cominciò a perseguire il suo scopo.
Joe-Jim
lo allontanò con una manata, e applicò altri metodi di
rianimazione, dolorosi ma decisamente meno drastici di quelli
utilizzati dal nano.
Il
giovane uomo si mosse e aprì gli occhi.
«Mangiare?»
ripeté Bobo.
«No»
disse Joe.
«Da
quanto tempo non mangi?» chiese Jim.
Bobo
scrollò il capo e si sfregò lo stomaco, indicando con una chiara
pantomima che non metteva niente nello stomaco da molto, troppo
tempo. Joe-Jim si avvicinò a un armadietto, lo aprì e prese un
pezzo di carne. Lo tenne un momento a mezz'aria. Jim lo annusò e Joe
allontanò la testa, arricciando il naso per il disgusto.
Joe-Jim lo lanciò a Bobo che, felice, lo prese al volo.
«Ora
fila!» ordinò Jim.
Il
nano andò via trotterellando e si chiuse la porta alle spalle.
Joe-Jim si avvicinò al prigioniero e lo stuzzicò con un piede.
«Su,
parla» disse Jim. «Chi Huff sei?»
Il
giovane rabbrividì, si mise una mano sulla testa, poi provò a
mettere a fuoco ciò che gli stava intorno, cercò di sollevarsi in
piedi, muovendosi goffamente a causa del basso peso che
caratterizzava quel livello, e allungò la mano per prendere il suo
coltello, ma l'arma non era più nella cintura.
Joe-Jim,
invece, aveva sfoderato il suo e lo brandiva. «Cerca di fare il
bravo e non ti accadrà niente di male» disse. «Come ti chiamano?»
Il
giovane si inumidì le labbra con la punta della lingua e i suoi
occhi fecero rapidamente il giro della stanza.
«Avanti,
parla!» ordinò Joe.
«Perché
stare a perdere tempo con lui?» disse Jim. «Per me, è buono
soltanto da mangiare. Meglio richiamare Bobo.»
«Non
c'è fretta» rispose Joe. «Voglio parlare con lui. Come ti chiami?»
Il
prigioniero lanciò ancora un'occhiata al coltello e mormorò: «Hugh
Hoyland.»
«Questo
non ci dice molto» commentò Jim. «Che mestiere fai? Da quale
villaggio vieni? E che cos'eri venuto a fare nella zona dei
mutanti?»
Ma
questa volta Hoyland s'incupì. Perfino con il coltello premuto sulle
costole, non fece altro che mordersi le labbra.
«Lasciamo
perdere» disse Joe. «Non è che uno stupido colono.»
«Lo
liquidiamo?»
«No,
per adesso no. Rinchiudiamolo.»
Joe-Jim
aprì la porta di un piccolo compartimento e vi spinse dentro Hoyland
con il coltello.
Richiuse
la porta, mise il chiavistello e tornò alla sua partita.
«A
te la mossa, Jim.»
Il
compartimento in cui avevano rinchiuso Hugh Hoyland era buio.
Tastando le paratie metalliche, il giovane constatò che non c'erano
aperture, tranne la porta, massiccia e ben chiusa.
Alla
fine, si distese sul pavimento e si abbandonò a vane
riflessioni.
Ebbe
tutto il tempo di pensare e di addormentarsi varie volte, nonché di
farsi venire molta fame e moltissima sete.
Quando
Joe-Jim ritrovò abbastanza interesse per il suo prigioniero da
aprire la porta della cella, non vide subito Hoyland. Il giovane
aveva progettato varie volte quello che avrebbe fatto quando si fosse
spalancato l'uscio e fosse arrivata la sua occasione, ma al
momento opportuno giaceva senza forze in uno stato semicomatoso.
Joe-Jim lo trascinò fuori.
Il
trambusto lo destò un po' dal suo torpore. Si sedette e si guardò
intorno.
«Sei
pronto a parlare?» chiese Jim.
Hoyland
aprì la bocca, ma non riuscì a pronunciare neanche una parola.
«Non
vedi che ha la gola troppo secca per parlare?» disse Joe al suo
gemello. Poi, rivolgendosi a Hugh: «Parlerai se ti diamo da
bere?»
Hoyland
sembrò disorientato, poi annuì energicamente.
Joe-Jim
ritornò poco dopo con una brocca d'acqua. Hugh bevve con avidità, e
quando fece una pausa sembrò sul punto di svenire.
Joe-Jim
si riprese la brocca. «Basta così per ora» disse Joe. «Parlaci di
te.»
Hugh
obbedì. Di tanto in tanto, fu sollecitato a entrare nei dettagli.
Hugh
accettò quella che de facto era una condizione di schiavitù
senza opporre particolare resistenza né disperarsi
eccessivamente. La parola "schiavo" non figurava nel suo
vocabolario, ma si trattava di una condizione normale per la sua
esperienza. C'era sempre stato chi comandava e chi obbediva, non
riusciva a immaginare un'altra condizione, un altro tipo di
organizzazione sociale. Era un fatto naturale.
Nonostante
questo, di tanto in tanto pensava alla fuga.
Ma
pensarci fu il massimo a cui seppe arrivare. Joe-Jim intuì i suoi
propositi e gli spiegò la situazione con molta chiarezza: «Non
metterti in testa strane idee, giovanotto. Senza un coltello,
non potresti scendere nemmeno tre livelli, in questa parte della
Nave. E anche se riuscissi a rubarmi un coltello, non
riusciresti ugualmente a raggiungere la zona dell'alto peso. Inoltre,
c'è Bobo.»
Hugh
cercò per un attimo di ricordarsi chi fosse, poi chiese: «Bobo?»
Jim
sorrise e rispose: «Abbiamo dato a Bobo il permesso di
macellarti, se lo desidera, nel caso in cui tu provassi anche
solo a mettere la testa fuori di qui senza di noi. Ora dorme vicino
alla porta e trascorre lì gran parte del suo tempo.»
«Lo
abbiamo fatto solo per correttezza» disse Joe. «C'è rimasto male,
quando abbiamo deciso di risparmiarti.»
«A
proposito» suggerì Jim, girando la testa verso quella del fratello
«che ne dici di divertirci un po'?»
Si
rivolse di nuovo a Hugh: «Sai lanciare un coltello?»
«Certo»
rispose il giovane.
«Facci
vedere. Qui.» Joe-Jim gli porse il suo coltello. Hugh lo bilanciò
tra le dita. «Prova il mio bersaglio.»
Joe-Jim
aveva un tirassegno di plastica appeso alla parete,
all'estremità opposta della stanza rispetto alla sua poltrona
preferita, da cui era solito esercitarsi. Hugh prese la mira e con un
gesto del braccio troppo rapido per poter essere seguito dallo
sguardo, lanciò il coltello. Era ricorso al lancio segreto, che
permetteva di raggiungere il massimo risultato con il minimo sforzo,
il pollice sulla lama, le altre dita unite.
La
lama si piantò vibrando nel bersaglio, proprio al centro della zona
consumata dai colpi migliori di Joe-Jim.
«Bravo!»
approvò Joe. «Che cos'hai in mente, Jim?»
«Diamogli
un coltello e vediamo quanto lontano riesce ad andare.»
«No»
disse Joe. «Non sono d'accordo.»
«Perché
no?»
«Se
vince Bobo restiamo con un servo di meno, se vince Hugh perdiamo sia
lui sia Bobo. È uno spreco.»
«Va
bene, se insisti.»
«Insisto.
Ragazzo, vai a prendere il coltello.»
Hugh
obbedì. Non gli era neanche venuto in mente di usare il coltello
contro Joe-Jim. Il padrone era il padrone. Per un servo l'idea di
attaccare il padrone non era semplicemente amorale, ma anche
così delirante che non l'aveva assolutamente presa in
considerazione.
Hugh
si aspettava che Joe-Jim sarebbe rimasto impressionato dalla sua
cultura di scienziato. Non andò affatto così. Joe-Jim, ma
soprattutto Jim, amava discutere. In poco tempo, prosciugò Hugh
di tutto ciò che sapeva e poi, per così dire, lo mise da parte.
Hoyland si sentì umiliato. Dopo tutto, non era forse uno scienziato?
Uno dei pochi che sapevano leggere e scrivere?
«Smettila»
gli disse Jim. «Leggere è facile. Sapevo farlo quando tuo padre non
era ancora nato. Credi d'essere il primo scienziato che io abbia
avuto al mio servizio? Gli scienziati... bah! Una manica di
ignoranti!»
Per
provare a ristabilire la sua credibilità intellettuale, Hugh espose
le teorie dei giovani scienziati: il rigoroso attaccamento ai
fatti, lo spietato realismo che respingeva ogni interpretazione
religiosa e accettava la Nave per quello che era. Si aspettava che
Joe-Jim approvasse questo modo di vedere le cose, gli sembrava
corrispondesse al suo temperamento.
Le
due teste gli risero in faccia.
«Ma
davvero» insistette Jim, quando smise di ridere «voi giovinastri
siete così stupidi? In questo caso, siete anche peggio dei vostri
vecchi!»
«Eppure,
hai appena finito di dire» ribatté Hugh, risentito «che le
nostre convinzioni religiose sono solo fandonie! È proprio quello
che pensano i miei amici. Loro vogliono liberarsi di tutte
quelle antiquate sciocchezze!»
Joe
stava per dire qualche cosa, ma Jim lo interruppe: «Perché perdere
tempo con lui? È un caso disperato.»
«Non
sto perdendo tempo. Mi sto divertendo. È il primo con cui parlo
da non so quanto che non abbia assolutamente alcuna possibilità
di vedere la verità. Lasciami fare... Voglio capire se quella che ha
sulle spalle è una testa o semplicemente un posto dove
appendere le orecchie.»
«E
va bene, discutete pure» si rassegnò Jim «ma cercate di parlare
piano. Ho voglia di farmi una dormitina.»
La
testa di sinistra chiuse gli occhi e dopo qualche istante iniziò a
russare. Joe e Hugh ripresero la loro discussione a voce bassa.
«Il
guaio di voi giovani» disse Joe «è che se leggete una cosa e non
vi risulta subito chiara, pensate che non possa essere vera. Con i
vostri anziani, invece, il problema era che reinterpretavano
qualsiasi cosa non capissero, attribuendole un significato
diverso da quello che aveva, e poi credevano di averla capita.
Nessuno di voi ha tentato di prendere le parole per come erano
scritte e cercato di comprendere il loro significato. Oh, no,
siete tutti troppo intelligenti per farlo, se non capite
immediatamente una cosa, significa che non è così, che il suo
significato è un altro.»
«Che
vuoi dire?» chiese Hugh, sospettoso.
«Il
Viaggio, per esempio. Che cosa significa per te?»
«Per
me non significa niente, è solo una favoletta per tener buoni i
contadini.»
«E
ufficialmente qual è il suo significato?»
«Ecco...
è il posto dove si va quando si muore o, per meglio dire, quello che
si fa quando si muore: un Viaggio su Centauri.»
«E
che cos'è Centauri?»
«Sarebbe...
bada bene che io ti spiego le cose secondo la concezione ortodossa,
io personalmente non credo a tutte queste stupidaggini... sarebbe la
meta, il punto di arrivo del Viaggio, un luogo dove tutti sono
felici e ci sono sempre lauti pasti.»
Joe
scoppiò a ridere e Jim smise per un attimo di russare, aprì un
occhio e si rimise a dormire con un grugnito.
«È
esattamente quello che intendevo dire» riprese Joe, a voce bassa.
«Voi non usate il cervello. Non ti è mai sorto il dubbio che il
Viaggio potesse essere proprio quello che gli antichi libri dicevano
che era... che la Nave e l'Equipaggio stiano veramente andando da
qualche parte, che si stiano muovendo?»
Hoyland
ci pensò. «Non vorrai che ti prenda sul serio! Dal punto di vista
fisico, questo non è possibile. La Nave non può andare in nessun
posto. Essa è già in ogni luogo. Noi possiamo fare un viaggio al
suo interno, ma il Viaggio deve avere per forza un significato
spirituale, ammesso che ne abbia uno.»
Joe
implorò l'aiuto di Jordan.
«Senti»
disse. «Cerca di far entrare nella tua testa dura quello che sto per
dirti. Immagina un luogo molto più grande della Nave, un luogo molto
più grande con dentro la Nave, che si muove. Riesci a immaginarlo?»
Hugh
tentò. Si sforzò in ogni modo. Alla fine scosse la testa.
«È
assurdo» disse. «Niente può essere più grande della Nave. Non può
esistere un luogo che la contenga.»
«Oh,
per Jordan! Ascolta... fuori dalla Nave, capisci? Giù, oltre il
livello più basso, in una direzione qualunque. Il vuoto là fuori.
Mi capisci?»
«Ma
non c'è niente sotto il livello più basso. Per questo è il
livello più basso.»
«Senti,
se prendi un coltello e scavi un buco nel pavimento del livello
più basso, dove ti porta questo buco?»
«Ma
non si può scavare un buco nel pavimento. È troppo duro.»
«Supponi
di poterlo fare e di scavare un buco. Dove porterà questo buco?
Prova a immaginarlo.»
Hugh
chiuse gli occhi e provò a immaginare di scavare un buco nel
pavimento dell'ultimo livello, come se il pavimento fosse molle,
molle come il formaggio. Cominciò a intravedere qualche vaga
possibilità, una possibilità che lo sconvolgeva, che gli scuoteva
l'anima. Si sentì precipitare, sprofondare in un buco che lui
stesso aveva scavato e sotto il quale non c'erano livelli. Aprì gli
occhi immediatamente. «Ma è una cosa terribile!» esclamò.
«Non posso crederci!»
Joe-Jim
si alzò.
«Farò
in modo che tu ci creda» disse, risoluto «a rischio di farti
rompere l'osso del collo!»
Si
diresse con passo deciso verso la porta e l'aprì. «Bobo!» urlò.
«Bobo!»
La
testa di Jim si alzò di scatto. «Cosa c'è? Che succede?»
«Stiamo
per portare Hugh al non peso.»
«A
quale scopo?»
«Per
fargli entrare un po' di sale in zucca.»
«Un'altra
volta.»
«No,
ora!»
«Va
bene, va bene. Non c'è bisogno di scaldarsi. Tanto, ormai sono
sveglio!»
Joe-Jim
Gregory era tanto unico nella sua, o loro, capacità di usare il
cervello quanto lo era nella sua struttura fisica. In qualunque
circostanza sarebbe stato una personalità dominante, tra i
mutanti era inevitabile che egli li guidasse, li comandasse, si
facesse servire.
Se
fosse stato assetato di potere, probabilmente avrebbe potuto
organizzare i mutanti per combattere e sopraffare l'Equipaggio
propriamente detto.
Gli
mancava, però, la pulsione a farlo. Era per temperamento un
intellettuale, uno spettatore, un osservatore. Lo interessavano il
come e il perché delle cose, ma per soddisfare la sua volontà
d'azione bastavano gli agi e le comodità.
Se
fosse nato in due normali gemelli e in seno all'Equipaggio, è
quasi certo che Joe-Jim si sarebbe occupato di questioni
scientifiche, come quella di trovare la più semplice e
soddisfacente risposta al problema della vita, e avrebbe potuto
trascorrere il suo tempo piacevolmente, conversando e dedicandosi
all'amministrazione. Date le circostanze, non aveva mai avuto un
compagno che fosse alla sua altezza dal punto di vista intellettuale
e aveva trascorso tre generazioni a leggere e rileggere i libri
che i suoi tirapiedi avevano rubato per lui.
Le
due metà della sua duplice persona avevano analizzato e
discusso quello che avevano letto, e quasi sempre erano arrivati a
formulare una teoria abbastanza coerente della storia e del
mondo fisico. L'unica eccezione era rappresentata dalla letteratura,
il cui concetto era loro completamente estraneo: non facevano alcuna
distinzione tra i romanzi di cui la spedizione Jordan era stata
fornita, e i testi scientifici.
Questo
li aveva portati a una significativa divergenza d'opinione. Jim
considerava Allan Quatermain il più grande uomo mai vissuto, Joe
preferiva John Henry.
Entrambi
amavano pazzamente la poesia, sapevano a memoria pagine e pagine di
Kipling ed erano quasi altrettanto appassionati di Rhysling, "il
cieco cantore delle rotte spaziali".
Bobo
entrò camminando all'indietro. Joe-Jim puntò il pollice verso Hugh.
«Senti»
disse Joe «lui sta per uscire.»
«Ora?»
chiese Bobo felice, e sorrise, con la bava alla bocca.
«Tu
e il tuo stomaco!» rispose Joe, dando dei colpi con le nocche delle
dita sulla zucca di Bobo. «No, non lo mangi. Tu e lui, fratelli di
sangue. Hai capito?»
«No
mangiare lui?»
«No.
Batterti per lui. Lui si batte per te.»
«Capito.»
La testa di legno si rassegnò all'inevitabile con un'alzata di
spalle. «Fratelli di sangue. Bobo sa.»
«Bene.
Ora noi saliamo verso il luogo dove tutti volano. Tu vai avanti
di vedetta.»
Cominciarono
ad arrampicarsi in fila indiana, con Bobo in testa a controllare
la situazione. Hoyland lo seguiva e Joe-Jim chiudeva la fila, Joe
guardava davanti, Jim teneva d'occhio le spalle.
Salirono
sempre più in alto, con il peso che, gradualmente, li
abbandonava a ogni nuovo ponte. Alla fine, raggiunsero un
livello oltre il quale non ci si poteva spingere, perché sul
soffitto non c'erano aperture. Il ponte s'incurvava dolcemente,
suggerendo che lo spazio in realtà avesse la forma di un
gigantesco cilindro, ma sopra di loro una lastra metallica con
un'analoga curvatura oscurava la vista e non permetteva di vedere se
il ponte fosse veramente ripiegato su se stesso.
Non
c'erano vere e proprie paratie; grandi puntali, tanto massicci
da dare l'impressione di una forza eccessiva, non necessaria, si
ergevano fitti intorno a loro, mettendo ancor più in risalto la
distanza che separava il ponte dal soffitto.
Il
peso era quasi scomparso. Se si rimaneva fermi il corpo si spostava
delicatamente in giù, verso il "pavimento", ma "su"
e "giù" erano termini del tutto privi di senso. A Hugh non
piaceva; lo innervosiva. Bobo, invece, apparentemente ne traeva
un grande godimento, sembrava abituato a quell'ambiente. Galleggiava
nell'aria come un pesce nell'acqua, muovendosi a suo piacere fra i
pilastri, le lastre del pavimento e il soffitto.
Joe-Jim
seguì una direzione parallela all'asse comune del cilindro esterno e
di quello interno, lungo un passaggio tra due file di puntali.
Lungo il passaggio erano disposti dei corrimani, ed egli ne
seguì uno come un ragno la sua tela. Procedeva a grande velocità, e
Hugh gli stava dietro a fatica. Dopo un po' di tempo, capì che il
trucco per muoversi facilmente, senza sforzo, era spingersi tenendo
le braccia all'indietro, procedendo per inerzia, frenati solo
dall'aria, e dando ogni tanto dei colpetti al pavimento con le
dita dei piedi o delle mani. Era decisamente troppo occupato per
rendersi conto di quanta strada avessero percorso prima di
fermarsi. Immaginò che avessero fatto chilometri, ma non poteva
dirlo con certezza.
Si
fermarono solo perché il passaggio era terminato. Una massiccia
paratia, che si estendeva da sinistra a destra, sbarrava loro la
strada. Joe-Jim prese a seguirla verso destra, alla ricerca di
qualcosa.
Trovò
quello che cercava: una porta a misura d'uomo, chiusa, la cui
presenza era rivelata soltanto dalla lieve fessura che ne
delineava il contorno e da un disegno geometrico inciso sulla
superficie. Joe-Jim studiò il disegno e si grattò la testa di
destra. Le due teste bisbigliarono tra di loro. Joe-Jim alzò la mano
con un gesto maldestro.
«No,
no» disse Jim. Joe-Jim si bloccò. «Allora come?» replicò
Joe. Confabularono nuovamente, Joe annuì e Joe-Jim sollevò
un'altra volta la mano.
Seguì
il disegno sulla porta senza toccarlo, muovendo l'indice nell'aria a
una decina di centimetri dalla porta. L'ordine dei movimenti con cui
spostava il dito lungo le linee del disegno appariva semplice,
ma certamente non ovvio.
Quando
ebbe finito, appoggiando il palmo della mano contro la paratia che
aveva di fianco, si diede una spinta, tornò fluttuando alla porta e
rimase in attesa.
Dopo
un istante si sentì un soffio lieve, quasi impercettibile; la
porta si scosse e si aprì verso l'interno di circa quindici
centimetri, poi si fermò. Joe-Jim sembrò perplesso. Infilò le
dita nella fessura e tirò. Non successe niente. Ordinò a Bobo:
«Apri!»
Bobo
studiò la situazione, con un tale cipiglio che le rughe della fronte
gli arrivavano quasi al cocuzzolo. Dopo di che, sistemò i piedi
contro la paratia, e si tenne in equilibrio aggrappandosi con
una mano alla porta. Poi afferrò con tutt'e due le mani lo spigolo
della porta, trovò un solido appoggio per i piedi, piegò il
corpo e fece forza.
Mentre
tratteneva il fiato aveva il petto gonfio e la schiena piegata,
ed era ricoperto di sudore per lo sforzo. I tendini che
sporgevano sul collo facevano sembrare la sua testa una piramide
deforme. Hugh poté sentire le giunture del nano scricchiolare. Non
era difficile credere che si sarebbe ucciso per lo sforzo, era troppo
stupido per rinunciare.
Ma
improvvisamente l'intelaiatura metallica della porta cedette,
con un fragore assordante. La porta, aprendosi di botto, era sfuggita
dalle dita di Bobo che, venuto a mancargli il contrappeso, fu
catapultato lontano dalla paratia, precipitò lungo il
passaggio, annaspando per cercare una presa. Dopo qualche
istante, però, lo videro tornare fluttuando goffamente
nell'aria, mentre si massaggiava un polpaccio irrigidito da un
crampo.
Joe-Jim
entrò per primo, seguito a breve distanza da Hugh.
«Dove
siamo?» chiese Hugh, spinto da una curiosità che ebbe il
sopravvento sui suoi modi servili.
«Nella
Centrale Comandi» rispose Joe.
La
Centrale Comandi! Il luogo più sacro e inviolabile di tutta la Nave,
la sua vera ubicazione era un mistero dimenticato! Secondo il
credo dei giovani, essa non esisteva. L'atteggiamento degli
scienziati più anziani variava da un'accettazione dogmatica a una
credenza mistica. Per quanto illuminato Hugh credesse di essere, il
suono di quelle parole lo colmò di sacro terrore. La Centrale
Comandi! Si diceva che lì vivesse lo spirito stesso di Jordan.
Si
arrestò di colpo.
Joe-Jim
si fermò a sua volta e Joe si voltò a guardarlo.
«Forza»
disse. «Che cosa ti succede?»
«Ma...
oh... oh...!»
«Avanti,
parla!»
«Ma...
questo luogo è proibito... appartiene a Jordan...»
«Oh,
per l'amor di Jordan!» protestò Joe con pacata esasperazione. «Mi
era sembrato di sentirti dire che a voi giovinastri non importava
nulla di Jordan!»
«Sì,
ma... ma questo è...»
«Piantala!
Muoviti, se non vuoi che ti faccia trascinare da Bobo.»
Joe-Jim
si allontanò e Hugh lo seguì riluttante, con l'aria dell'uomo
costretto a salire il patibolo.
S'inoltrarono
per un passaggio abbastanza largo da permettere a due persone di
procedere affiancate. Il passaggio formava un'ampia curva a novanta
gradi, prima di aprirsi nella Centrale Comandi vera e propria. Hugh
sbirciò da dietro le ampie spalle di Joe-Jim, impaurito ma curioso.
Vide
una sala ben illuminata, immensa, larga non meno di una
settantina di metri. Era sferica, l'interno di un grande globo. La
superficie del globo era liscia, di color argento. Nel centro
geometrico di quella sfera, Hugh vide un blocco di apparecchi largo
circa cinque metri. Al suo occhio inesperto quei macchinari erano del
tutto incomprensibili. Non avrebbe saputo descriverli, ma si
accorse che galleggiavano immobili nell'aria, apparentemente senza
nessun sostegno.
Dalla
fine del passaggio alla massa che si trovava al centro del globo
correva un tubo fatto di rete metallica, largo come il passaggio
stesso, che rappresentava l'unica via d'uscita. Joe-Jim si voltò
verso Bobo e gli ordinò di rimanere nel passaggio, poi entrò
nel tubo.
Si
arrampicò aiutandosi con le mani, la rete faceva da scala. Hugh lo
seguì, e spuntarono dentro la massa di macchinari che occupava il
centro della sfera. Da vicino, il giovane poté osservare ogni
singolo dettaglio dell'attrezzatura della Centrale Comandi, ma
questa per lui continuava a non avere alcun senso. Spostò lo
sguardo sulla superficie interna del globo che li circondava.
Fu
un errore. La superficie interna del globo, liscia e di un color
argento che abbagliava, non aveva niente che le desse prospettiva.
Avrebbe potuto essere lontana decine o centinaia di metri oppure
chilometri. Hugh non aveva mai visto un'altezza superiore a quella
tra due ponti, né uno spazio vuoto più grande della zona comune del
suo villaggio.
Fu
colto dal panico, lo assalì un terrore folle, tanto più folle in
quanto non sapeva che cosa temeva. Ma un'angoscia atavica si
impossessò di lui e una paura istintiva, primordiale di
precipitare nel vuoto gli raggelò il sangue.
Si
aggrappò al blocco dei comandi, si strinse a Joe-Jim, che lo colpì
violentemente sulla bocca con il palmo della mano.
«Si
può sapere che cos'hai?» ringhiò Jim.
«Non
lo so» riuscì a dire Hugh poco dopo. «Non lo so, ma non mi piace
questo posto. Andiamo via di qua!»
Jim
inarcò le sopracciglia e si girò verso Joe. Con un'aria
disgustata gli disse: «Sarà meglio tornare. Questo bamboccio senza
spina dorsale non capirà mai niente di quello che gli dirai.»
«Oh,
vedrai che si abituerà» replicò Joe, chiudendo il discorso. «Hugh,
arrampicati su uno di quei sedili... là, quello là.»
Intanto,
lo sguardo di Hugh era caduto sul tubo attraverso cui avevano
raggiunto il cuore della Centrale Comandi e con gli occhi lo
aveva ripercorso a ritroso. La sfera, d'un tratto, gli apparve
nelle sue dimensioni reali e così egli superò il momento peggiore
di panico. Si attenne all'ordine, ancora tremante, ma in grado
di obbedire.
La
postazione di comando era costituita da un'intelaiatura rigida
nella quale erano inseriti sedili, o postazioni, per i vari
operatori, con i relativi strumenti e indicatori montati in modo tale
da trovarsi quasi sulle ginocchia degli operatori, affinché
potessero essere tenuti sott'occhio senza ostacolare la visuale. I
sedili erano dotati di alti braccioli, sui quali erano montati gli
appositi dispositivi di controllo per ciascun ufficiale di guardia;
ma di tutto questo Hugh non s'era ancora potuto rendere conto.
Scivolando
sotto il quadro degli strumenti, raggiunse un sedile e vi si
abbandonò, lieto della sua avvolgente stabilità. Un
poggiapiedi e un poggiatesta gli permisero di sistemarsi in
posizione semi-inclinata.
Qualcosa,
però, stava accadendo, sul pannello di fronte a Joe-Jim. Hugh
se ne accorse con la coda dell'occhio e si girò a guardare. Quasi in
cima al quadro brillavano lettere d'un rosso vivace: "Secondo
Navigatore Spaziale ai comandi". Che cosa voleva dire Secondo
Navigatore Spaziale? Non lo sapeva, ma poi notò che all'estremità
superiore del suo pannello c'era la scritta "Secondo Navigatore
Spaziale", e concluse che doveva essere proprio lui, o meglio
l'uomo che avrebbe dovuto trovarsi in quel posto. Per un istante si
sentì a disagio, pensando che il vero Secondo Navigatore Spaziale
sarebbe potuto arrivare e trovare Joe-Jim a occupare
illegittimamente il suo posto, ma se lo tolse subito dalla mente,
sembrava improbabile.
A
ogni modo, chi era il Secondo Navigatore Spaziale?
Le
lettere svanirono dal quadro di Joe-Jim, un punto rosso si accese sul
bordo e vi rimase. Joe-Jim fece un gesto con la mano destra e
sul quadro apparve la scritta: "Accelerazione, zero". Poi:
"Motori centrali". Le ultime due lampeggiarono diverse
volte, prima di essere sostituite da "Nessun segnale".
Queste parole svanirono e un punto verde luminoso apparve vicino al
margine destro del quadro.
«Attenzione»
disse Joe, guardando Hugh «la luce sta per spegnersi.»
«Non
vorrai spegnere la luce?» protestò Hoyland.
«Non
io, tu. Da' un'occhiata al bracciolo sinistro del tuo sedile. Vedi
quelle piccole luci bianche?»
Hugh
guardò e, attraverso il rivestimento del bracciolo, vide otto
puntini luminosi disposti in due quadrati, uno sopra l'altro.
«Ognuna
controlla la luce di un quadrante» spiegò Joe. «Se le copri con la
mano la luce si spegne. Avanti, provaci.»
Riluttante,
ma affascinato, Hugh fece quanto gli era stato ordinato. Mise la mano
sulle minuscole luci, e aspettò. La sfera argentea si fece di
un cupo color piombo, poi la luce si affievolì ulteriormente,
lasciandoli nel buio completo, a eccezione del leggero chiarore che
proveniva dai pannelli degli strumenti. Hoyland si sentiva nervoso e
nello stesso tempo euforico. Ritrasse la mano, ma la sfera rimase
buia, mentre gli otto punti luminosi erano diventati blu.
«Ora»
disse Joe «ti mostrerò le stelle!»
Nelle
tenebre, la mano destra di Joe-Jim passò sopra un altro quadrante
con otto luci.
Il
creato.
Fedelmente
riprodotte, splendenti, immobili e limpide sulle pareti dello
stellano come lo erano quelle originali nelle oscure profondità
dello spazio, le stelle lo stavano a guardare. Gioielli di luce a
profusione, sparsi con magnifica indifferenza e principesco
sfarzo nel simulacro del cielo, gli infiniti soli si stendevano
dinanzi a lui... sopra di lui, dietro di lui, tutt'intorno a lui. Era
solo, sospeso nel centro dell'universo stellare.
«Oooooh!»
L'esclamazione gli uscì involontaria dalle labbra socchiuse,
ove il respiro era rimasto sospeso. Stringeva i braccioli con tale
forza da spezzarsi le unghie, ma non se ne accorse. Né in quel
momento aveva paura: nel suo essere c'era posto per una sola
emozione. La vita sulla Nave, a volte dura e a volte monotona, non
aveva scalfito la sua innata capacità di apprezzare la bellezza; per
la prima volta in vita sua conosceva l'intollerabile estasi della
pura bellezza. Lo sconvolgeva e lo feriva, come la prima trepida
rivelazione del sesso.
Dovette
passare un po' di tempo prima che Hugh si riprendesse abbastanza
dallo shock e dall'intensa preoccupazione che lo aveva seguito
per accorgersi del riso sardonico di Jim e del sogghigno ironico
di Joe.
«Hai
visto abbastanza?» chiese Joe. Senza aspettare una risposta, Joe-Jim
riaccese le luci, usando i comandi sul bracciolo sinistro della sua
poltrona.
Hugh
sospirò. Sentiva un dolore al petto e il cuore gli batteva forte. Si
accorse improvvisamente che aveva trattenuto il respiro per
tutto il tempo in cui le luci erano state spente.
«E
ora, caro il mio scienziato» domando Jim «sei convinto?»
Hugh
sospirò ancora, senza sapere perché. Con le luci accese, si sentiva
di nuovo sicuro e protetto, ma nel suo animo sentiva di avere subito
una grave perdita. Inconsciamente sapeva che, avendo visto le
stelle, non avrebbe più potuto essere felice.
La
sorda pena che sentiva nel cuore, la vaga nostalgia profondamente
sepolta nel suo essere per la perduta eredità di spazi senza
fine e stelle, non si sarebbe più sopita, anche se sapeva ancora
troppo poco per esserne del tutto cosciente.
«Che
cos'era?» chiese con voce sommessa.
«Era
tutto» rispose Joe. «Era il mondo, l'universo. Tutto ciò che ho
cercato di farti capire.»
Hugh,
furioso, si sforzò di costringere il suo cervello inesperto a
comprendere.
«Era
quello che tu chiamavi l'esterno?» domandò. «Tutte quelle
meravigliose piccole luci?»
«Certo»
disse Joe «soltanto che non sono piccole. Sono molto lontane,
capisci, forse migliaia di chilometri.»
«Migliaia
di chilometri?»
«Ma
sì, certo» insistette Joe. «C'è un'enorme quantità di
spazio, fuori di qua. Lo spazio. È immenso. Chissà, forse qualcuna
di quelle stelle può essere grande come la Nave... forse più grande
ancora.»
La
faccia di Hugh Hoyland era straziata dall'eccessivo sforzo di
immaginazione.
«Più
grandi della Nave?» ripeté. «Ma... ma...»
Jim
scosse la testa con impazienza e disse a Joe: «Che cosa t'avevo
detto? Perdi il nostro tempo con questo zuccone. Non ha la
minima capacità...»
«Non
esagerare, Jim» disse Joe. «Non puoi pretendere che impari a
correre prima di aver imparato a strisciare. Anche noi abbiamo
avuto bisogno di molto tempo. Mi sembra di ricordare che tu facevi un
po' fatica a credere ai tuoi stessi occhi.»
«Non
è vero» disse Jim in tono brusco. «Eri tu quello che non ci voleva
credere.»
«Va
bene, va bene» concedette Joe. «Sarà come dici tu. Ma c'è
voluto molto tempo prima che tu e io imparassimo a vedere come
stanno realmente le cose.»
Hoyland
badava poco alla discussione tra i due fratelli. Le loro dispute
rientravano nella norma, mentre la sua attenzione era concentrata su
questioni decisamente fuori dalla norma.
«Joe»
chiese a un tratto «che cosa è accaduto alla Nave quando abbiamo
visto le stelle? Vedevamo forse attraverso di essa?»
«Non
esattamente» rispose Joe «non vedevi le stelle direttamente,
ma una specie di quadro che le rappresentava. È come...
insomma, è un effetto che si ottiene tramite degli specchi, o
qualcosa del genere. Ho un libro che lo spiega.»
«Ma
puoi anche vederle direttamente» disse Jim, dimentico ormai
della sua arrabbiatura. «C'è un compartimento più avanti...»
«Sì»
confermò Joe «mi era sfuggito di mente, è la Veranda del Capitano.
Ha un'intera parete di vetro, attraverso la quale si può
guardare fuori.»
«La
Veranda del Capitano? Ma...»
«No,
non si tratta dell'attuale Capitano. Lui non si è mai spinto da
queste parti. Ma così è scritto sulla porta.»
«Che
cos'è una veranda?»
«E
chi lo sa. È solo il nome di quel luogo.»
«Vuoi
condurmi fin là?»
Joe
stava per acconsentire, ma Jim s'intromise: «Un'altra volta.
Adesso voglio tornare giù... Ho fame.»
Ripercorsero
il tubo, svegliarono Bobo e iniziarono la lunga discesa del ritorno.
Passò
molto tempo prima che Hugh riuscisse a convincere Joe-Jim a
condurlo di nuovo in esplorazione, ma quel periodo di tempo fu bene
impiegato. Joe-Jim lo lasciò libero di leggere la più vasta
collezione di libri che Hugh avesse mai visto. Alcuni erano testi che
Hugh conosceva già, ma, rileggendoli adesso, poté trovarvi un
senso del tutto nuovo. Leggeva senza posa, affrontando di continuo
nuovi concetti, spesso lottando con essi, talora restandone
sopraffatto, ma altre volte riuscendo, sia pure a fatica, ad
assimilarli. Trascurava il sonno, dimenticava di mangiare, fino a
quando respirare gli diventava doloroso e acuti crampi alla cintola
lo costringevano a occuparsi del suo corpo. Saziata la fame, tornava
alle letture, finché la testa gli doleva e gli occhi si rifiutavano
di mettere a fuoco.
Le
esigenze di Joe-Jim erano poche. Sebbene Hugh fosse in servizio
a tempo pieno, a Joe-Jim non dava fastidio il fatto che lui leggesse,
purché restasse a portata di voce, pronto ad accorrere appena
chiamato. Giocare a scacchi con una delle due teste, quando l'altra
non ne aveva voglia, era il servizio che gli portava via più
tempo. Anche questo, però, non era tempo del tutto perso, perché,
quando l'avversario era Joe, riusciva quasi sempre a portare la
discussione sulla Nave, la sua storia, i suoi motori e i suoi
strumenti, su chi l'aveva costruita e munita di un equipaggio per la
prima volta, sulla storia di quelle persone, là, sulla Terra,
quell'incredibile, inimmaginabile luogo, dove esseri umani
avevano vissuto esternamente anziché internamente.
Hugh
si chiedeva perché non volassero via.
Affrontò
la questione con Joe e alla fine acquisì alcune nozioni sulla forza
di gravità. Da un punto di vista emotivo, non riuscì mai ad
accettare veramente l'idea della gravitazione — era troppo
inverosimile perché potesse crederci — ma, da un punto di
vista intellettuale, se ne convinse e, molto tempo dopo, utilizzò il
concetto nei suoi primi incerti tentativi di avvicinarsi alla scienza
della balistica e all'arte della navigazione spaziale, oltre che per
cercare di capire come si manovrava una nave. Inoltre, il tempo lo
portò a interrogarsi sulla questione del peso nella Nave, un
argomento che fino ad allora non gli aveva mai creato alcun problema.
Il fatto che scendendo di livello il peso aumentasse, per lui,
rientrava nell'ordine delle cose, e non si era mai interrogato al
riguardo. Sapeva che la fionda funzionava grazie alla forza
centrifuga, ma non riusciva assolutamente a figurarsi come
facesse l'intera Nave ad avere un'analoga rotazione, né che cosa la
rotazione avesse a che fare con il peso. Non credette mai veramente
che la rotazione potesse generare il peso.
Joe-Jim
lo condusse un'altra volta alla Centrale Comandi, e gli mostrò
quel poco che sapeva sul funzionamento dei comandi e sulla
lettura degli strumenti di navigazione spaziale.
Gli
ingegneri assoldati dalla Fondazione Jordan, di cui da lungo tempo si
era persa la memoria, avevano ricevuto l'ordine di progettare una
nave che, se anche il viaggio si fosse protratto oltre i sei anni
previsti, non si sarebbe logorata. Ed essi l'avevano costruita
meglio di quanto credessero. Nel progettare i motori principali
e le macchine ausiliarie, quasi tutte automatizzate, che avrebbero
reso la Nave abitabile, e nell'ideare i comandi necessari a
manovrare le macchine non completamente automatizzate, l'idea
stessa di pezzo in movimento era stata abolita. Motori e
macchine ausiliarie lavoravano su un piano diverso da quello
meccanico, su un piano di forza pura, come i trasformatori elettrici.
Invece di pulsanti, leve, manopole, pulegge e alberi motore, i
comandi e le macchine che questi dirigevano erano stati concepiti in
termini di equilibrio tra campi statici, valvole elettroniche,
circuiti aperti e chiusi da una mano posta sopra una sorgente
luminosa. Con questo sistema, l'attrito e l'usura avevano perso
significato; il tempo non sortiva alcun effetto. Se anche tutto
l'equipaggio fosse rimasto ucciso in un ammutinamento, la Nave
avrebbe continuato il suo viaggio nello spazio, sarebbe rimasta
illuminata, con l'aria sempre fresca e al giusto grado di umidità, i
motori pronti, in attesa di essere messi in funzione. E così
era stato. Anche se ascensori e nastri trasportatori avevano finito
per guastarsi, erano caduti in disuso e la loro stessa funzione era
stata dimenticata, i macchinari essenziali della Nave avevano
continuato automaticamente a servire l'ignaro carico umano,
oppure, forse, aspettavano, pronti e in silenzio, qualcuno
sufficientemente intelligente da scoprirne il mistero.
La
costruzione della Nave era stata opera di menti veramente
geniali. Assolutamente troppo grande per essere assemblata sulla
Terra, era stata montata pezzo per pezzo in orbita, oltre la Luna.
Poi, aveva continuato a girare per quindici silenziosi anni, mentre
si formulavano e si risolvevano i problemi nati dalla decisione
di dotarla di macchine che non temevano né il tempo né la
stupidità umana. Nel corso di questo processo, era stato
scoperto un intero campo d'azione submolare, affrontando e
risolvendo i problemi a esso connessi.
Così,
quando Hugh posò una mano ignorante e curiosa sulla prima spia
luminosa di una fila contraddistinta dall'indicazione
"Accelerazione positiva", ebbe una risposta immediata,
anche se non in termini di accelerazione. Una luce rossa si mise a
lampeggiare sul quadro del primo pilota e sul pannello di
controllo s'accese la scritta "Motori centrali non in funzione".
«Che
cosa significa?» chiese a Joe-Jim.
«Non
c'è modo di saperlo» rispose Jim. «Abbiamo fatto la stessa cosa
nel salone dei motori centrali» aggiunse Joe. «Là, quando
provi, appare la scritta "Centrale Comandi non in
funzione".»
Hugh
rifletté un istante.
«Che
cosa accadrebbe» continuò «se in tutte le postazioni di
comando, nello stesso momento, ci fosse qualcuno e io facessi
quello che ho fatto adesso?»
«Non
te lo so dire» rispose Joe. «Non ho mai potuto sperimentarlo.»
Hugh
non disse altro. Un'idea cresciuta nella sua mente senza una
forma precisa si stava ora concretizzando in una decisione. Era
assorto in questo pensiero.
Prima
di esporre a Joe-Jim la sua idea, Hugh aspettò che entrambe le teste
fossero di buon umore. Si trovavano nella Veranda del Capitano,
quando Hoyland decise che era giunto il momento opportuno. Joe-Jim si
stava rilassando sulla poltrona del Capitano, con lo stomaco
pieno, e attraverso lo spesso cristallo della vetrata fissava le
stelle limpide. Hugh fluttuò al suo fianco. A causa della rotazione
della Nave, le stelle sembravano muoversi in circoli maestosi.
«Joe-Jim»
disse Hugh dopo qualche istante.
«Eh?
Che c'è, ragazzo?» rispose Joe.
«È
molto bello, vero?»
«Che
cosa?»
«Tutto
questo... le stelle.»
Con
un ampio movimento della mano, Hugh indicò il cosmo oltre la
vetrata, e dovette aggrapparsi al sedile per non rovesciarsi
all'indietro.
«Sì,
certo che lo è. Dà una sensazione di benessere.»
Stranamente,
fu Jim a pronunciare queste parole.
Hugh
capì che era arrivato il momento. Aspettò un istante, poi disse:
«Perché non terminiamo noi l'impresa?»
Le
due teste si girarono contemporaneamente, Joe sporgendosi un po'
per vedere oltre Jim: «Quale impresa?»
«Il
Viaggio. Perché non avviamo i motori centrali e ci rimettiamo in
navigazione? Da qualche parte là fuori» disse velocemente, prima di
essere interrotto «esistono pianeti come la Terra... o almeno così
credeva il Primo Equipaggio. Troviamoli noi, questi pianeti.»
Jim
lo guardò e scoppiò a ridere, Joe scosse la testa.
«Ragazzo»
disse serio «tu non sai quello che dici. Sei più tonto di Bobo. No»
proseguì «è un capitolo chiuso. Non ci pensare più.»
«Perché
un capitolo chiuso, Joe?»
«Perché...
è un'impresa troppo grande. Ci vorrebbe un Equipaggio che sapesse
quello che fa, addestrato a manovrare la Nave.»
«Credi
che ci sarebbe bisogno di tutto questo? Da quanto ho visto, le
postazioni di comando, in realtà, sono una dozzina in tutto. Non
pensi che una dozzina di uomini potrebbe manovrare la Nave... se
avesse le tue conoscenze?» aggiunse con furbizia.
Jim
ridacchiò: «Te l'ha fatta, Joe. Ha ragione.»
Joe
lo ignorò.
«Tu
sopravvaluti le nostre conoscenze. Forse potremmo far funzionare la
Nave, ma non arriveremmo da nessuna parte. Non sappiamo dove ci
troviamo. La Nave sta andando alla deriva da non so quante
generazioni. Non sappiamo dove siamo diretti né a quale velocità ci
muoviamo.
«Ma,
ascoltami» implorò Hugh «ci sono gli strumenti, me li hai
mostrati tu. Non potremmo imparare a usarli? Non saresti in grado di
scoprire come funzionano, Jim, se veramente lo volessi?»
«Credo
di sì» affermò Jim.
«Non
darti delle arie» lo ammonì Joe.
«Non
mi sto dando delle arie» sbuffò Jim. «Se una cosa non è rotta, io
riesco a farla funzionare.»
«Bum!»
fece Joe.
La
situazione era delicata. Hugh li aveva messi l'uno contro l'altro —
esattamente quel che voleva — e il meno arrendevole dei due
era dalla sua parte. Ora, per trarne profitto...
«Ho
avuto un'idea, Jim» disse pronto «per procurarti gli uomini
che lavorerebbero ai tuoi ordini, se tu fossi in grado di
addestrarli...»
«Quale
sarebbe l'idea?» domandò Jim, sospettoso.
«Ascolta,
ricordi quello che ti dissi su un gruppo di giovani scienziati...»
«Oh,
quella massa d'idioti!»
«Sì,
d'accordo... ma loro non sanno tutte le cose che voi avete scoperto.
A modo loro, cercavano di essere ragionevoli. Se io potessi
scendere da loro e informarli di quello che mi avete insegnato,
potrei procurarvi gli uomini che vi servono.»
Joe
intervenne: «Guardaci bene, Hugh. Che cosa vedi?»
«Ma...
vedo te, Joe-Jim.»
«Tu
vedi un mutante» lo corresse Joe, con la voce piena di sarcasmo.
«Noi siamo un mutante. Lo capisci? I tuoi giovani scienziati non
lavoreranno mai con noi!»
«No,
no» protestò Hugh. «Non è vero. Non sto parlando di contadini. I
contadini non capirebbero, ma loro sono scienziati, si tratta degli
uomini più brillanti dell'Equipaggio. Capiranno. Tutto quello che
dovete fare è provvedere affinché possano attraversare incolumi la
regione dei mutanti. Voi lo potete fare, vero?» aggiunse,
portando istintivamente la discussione su un terreno più concreto.
«Certo»
disse Jim.
«Scordatelo!»
esclamò Joe.
«E
va bene, come vuoi tu» si rassegnò Hugh, avvertendo che la sua
ostinazione stava seriamente irritando Joe. «Ma sarebbe stato
davvero entusiasmante...»
Si
allontanò un po' dai fratelli. Sentì che Joe-Jim continuava la
discussione con se stesso a bassa voce. Finse d'ignorarli.
Joe-Jim, data la sua duplice natura, aveva questo difetto
sostanziale: essendo un comitato più che un singolo individuo, non
era un uomo d'azione, in quanto tutte le sue decisioni erano frutto
di discussioni e compromessi.
Parecchio
tempo dopo, Hugh sentì Joe che diceva a voce alta: «E va bene,
va bene, facciamo come vuoi tu!» E poi urlò: «Hugh! Vieni qua!»
Hugh
si diede una spinta puntando i piedi contro una paratia che aveva di
fianco e schizzò come un proiettile vicino a Joe-Jim, tanto che per
frenarsi dovette afferrare con entrambe le mani la poltrona del
Capitano.
«Abbiamo
deciso» annunciò Joe, senza preliminari «di lasciarti tornare giù,
nella zona dell'alto peso, a vendere la tua idea. Ma secondo me
sei proprio matto» aggiunse in tono acido.
Bobo
scortò Hugh Hoyland attraverso i pericolosi livelli popolati
dai mutanti e lo lasciò in una zona disabitata, sopra l'alto peso.
«Grazie,
Bobo» disse Hugh, allontanandosi. «Lauto pasto!»
Il
nano sorrise, abbassò la testa e scappò via, arrampicandosi
sulla scala da cui erano appena discesi.
Hugh
si voltò e ricominciò la discesa, toccando il suo coltello. Faceva
piacere sentirselo di nuovo contro il corpo, anche se non era il
suo coltello d'un tempo. Quello era stato il premio di Bobo per
averlo catturato e il nano non aveva avuto modo di renderglielo, dato
che lo aveva inavvertitamente lasciato conficcato nel corpo di un
grosso mutante in fuga. Ma il coltello che Joe-Jim gli aveva
regalato per sostituire quello perduto era ben bilanciato e
piuttosto soddisfacente.
Bobo
lo aveva condotto, su richiesta di Hugh e per ordine di Joe-Jim,
nella zona che si trovava esattamente sopra il Convertitore
ausiliario usato dagli scienziati. Hugh voleva trovare Bill
Ertz, l'assistente dell'Ingegnere Capo e leader del gruppo degli
scienziati più giovani, e non voleva rispondere a troppe
domande prima di averlo raggiunto.
Si
calò rapidamente attraverso gli ultimi livelli rimasti e si trovò
in un passaggio principale che riconobbe. Bene! Una svolta a
sinistra, una marcia di duecento metri e si trovò alla porta del
compartimento che ospitava il Convertitore.
Un
uomo dall'aria indolente stava di guardia di fronte a esso. Hugh
procedette oltre, ma fu fermato.
«Ehi,
tu, dove credi di andare?»
«Sto
cercando Bill Ertz.»
«Vuoi
dire l'Ingegnere Capo? Non è qui.»
«Capo?
E l'altro che fine ha fatto?» chiese Hugh. Si pentì subito della
domanda, ma ormai era troppo tardi.
«Il
vecchio Ingegnere Capo? Oh, quello ha fatto il Viaggio già da un
pezzo.» La sentinella lo guardò con sospetto. «Che cos'hai?»
«Niente»
rispose Hugh «solo un lapsus...»
«Uno
strano lapsus. L'Ingegnere Capo dev'essere nel suo ufficio,
comunque.»
«Grazie.
Lauto pasto!»
«Lauto
pasto a te.»
Hugh
fu ammesso alla presenza di Ertz dopo una breve attesa. Questi levò
gli occhi dalla scrivania nell'istante in cui Hoyland entrava.
«Bene»
disse «così sei tornato, e non sei morto, a quanto vedo. Questa sì
che è una sorpresa. Sei stato iscritto nel registro dei decessi,
come se avessi fatto il Viaggio.»
«Sì,
lo immaginavo.»
«Siediti
e raccontami... Non ho molto tempo da perdere al momento. Sai
che non ti avrei riconosciuto? Sei molto cambiato, tutti quei capelli
grigi. Dev'essere stata dura per te...»
Capelli
grigi? I suoi capelli erano grigi? Anche Ertz era cambiato parecchio,
si rese conto Hugh. Aveva messo su pancia e il suo volto era coperto
di rughe. Jordan! Ma quanto tempo era stato via?
Ertz
tamburellò con le dita sulla scrivania e storse le labbra.
«È
un problema... questo tuo improvviso ritorno. Temo di non
poterti assegnare il tuo vecchio incarico, adesso lo svolge Mort
Tyler. Ma ti troveremo un posto adatto al tuo rango.»
Hugh
si ricordava di Mort Tyler, e non troppo favorevolmente. Un
giovane affettato, sempre attento a fare ciò che si conveniva ed era
conforme alle regole. Dunque, Tyler si era effettivamente dato
alla scienza e aveva preso l'antico posto di Hugh al Convertitore!
Ormai non aveva importanza.
«Non
preoccuparti per me» disse a Ertz. «Quello che mi premeva era
parlarti...»
«Certo,
c'è il problema dell'anzianità di servizio...» lo interruppe Ertz.
«Forse il Consiglio dovrebbe considerare la questione. Non mi
risulta che esistano precedenti a cui attenersi. Abbiamo perso
molti scienziati a causa dei mutanti in passato, ma tu sei il primo,
a quanto ricordo, che sia riuscito a salvarsi.»
«Non
importa» s'intromise Hugh. «Ci sono cose molto più urgenti di cui
vorrei parlarti. Durante la mia assenza ho avuto modo di
scoprire alcune cose straordinarie, Bill, cose che devi
assolutamente sapere. Ecco perché sono venuto dritto da te. Senti,
io...»
Ertz
improvvisamente si fece attento.
«Lo
credo bene, Hugh! Si vede proprio che sto invecchiando! Devi
avere avuto una fantastica occasione di studiare i mutanti ed
esplorare il loro territorio. Su, racconta! Fammi il tuo
resoconto!»
Hugh
s'inumidì le labbra.
«Non
si tratta di quello che credi» cominciò. «È infinitamente più
importante di un semplice resoconto sui mutanti, sebbene li riguardi.
Infatti, vedi, noi dovremo cambiare tutta la nostra posizione
nei riguardi dei mutanti, capisci?»
«Continua,
ti ascolto.»
«Bene.»
E
Hoyland gli fece un racconto particolareggiato delle sue
straordinarie scoperte sulla vera natura della Nave, scegliendo con
cura le parole e sforzandosi di risultare convincente. Si soffermò
molto brevemente sulle difficoltà che il tentativo di
riorganizzare la Nave in relazione alle nuove scoperte avrebbe
presentato, e insistette a lungo sul prestigio e l'onore che ne
sarebbero venuti all'uomo che avesse guidato l'impresa.
Parlando,
non perdeva d'occhio l'espressione del volto di Ertz. Dopo l'iniziale
sorpresa, quando Hugh aveva rivelato la scoperta più
importante, cioè che la Nave in realtà era un corpo che si muoveva
in un grande spazio esterno a essa, la sua faccia era diventata
impassibile e Hugh non era più riuscito a leggervi niente, tranne
che sembrò rivelare un maggiore interesse quando Hugh parlò di
come Ertz fosse l'uomo più adatto al compito, per l'ascendente di
cui godeva presso il gruppo degli scienziati più giovani e
progressisti.
Quand'ebbe
concluso, Hoyland aspettò la risposta di Ertz. All'inizio, questi
non disse niente, continuò semplicemente con quella sua
fastidiosa abitudine di tamburellare con le dita sul tavolo.
Infine, parlò: «Queste sono cose importanti, Hoyland, terribilmente
importanti, e non le si può affrontare alla leggera. Mi occorre
tempo per pensarci con calma.»
«Sì,
certo» convenne Hugh. «Volevo solo aggiungere che ho preso
accordi per salire senza pericolo al non peso. Posso guidarti io,
lassù, e farti vedere coi tuoi occhi come stanno le cose.»
«Sono
sicuro che sia la cosa migliore da fare» rispose Ertz. «Bene...
hai fame?»
«No.»
«Allora
ci dormiremo sopra entrambi. Puoi usare il compartimento sul retro
del mio ufficio. Non voglio che tu parli di questo con nessun altro,
fino a quando non avrò studiato bene il problema. Rivelazioni così
importanti potrebbero causare disordini, se trapelassero senza
un'adeguata preparazione...»
«Sì,
hai ragione.»
«Benissimo,
dunque...» Ertz lo guidò in un compartimento dietro il suo
ufficio che egli con tutta evidenza utilizzava come sala d'aspetto.
«Buon riposo» gli disse «e a più tardi.»
«Grazie»
rispose Hugh. «Lauto pasto.»
«Lauto
pasto.»
Rimasto
solo, Hugh sentì l'eccitazione affievolirsi a poco a poco e si
accorse di essere stanchissimo e molto assonnato. Si sdraiò sul
divano e si addormentò.
Quando
si svegliò, scoprì che la porta della cabina era stata chiusa a
chiave dall'esterno e, peggio ancora, che il suo coltello era
scomparso.
Dopo
una lunga attesa, sentì armeggiare all'uscio.
La
porta si aprì e sulla soglia comparvero due uomini robusti, con la
faccia impassibile.
«Vieni
con noi» disse uno di loro.
Hoyland
li esaminò, notando che nessuno di loro aveva un coltello. Nessuna
probabilità, quindi, di sottraine uno dalla loro cintura. Gli
rimaneva la speranza, d'altra parte, di riuscire a fuggire.
Ma,
alle loro spalle, a prudente distanza nel compartimento esterno,
vide altri due uomini altrettanto atletici, ciascuno armato d'un
coltello. Uno bilanciava l'arma, pronto a tirarla, l'altro ne
impugnava il manico, pronto per un eventuale corpo a corpo.
Si
rese conto di essere in trappola. Ogni sua possibile mossa era stata
prevista.
Da
molto tempo aveva imparato a rimanere calmo davanti all'inevitabile.
Assunse un'espressione tranquilla e uscì senza fretta dalla
stanza. Ertz lo stava aspettando, chiaramente al comando del
gruppo di uomini. Hugh si rivolse a lui, stando attento a parlare con
voce calma: «Ciao, Bill. Vedo che hai pensato proprio a tutto.
C'è forse qualche problema?»
Ertz
sembrò incerto su quello che doveva dire, poi rispose: «Devi
presentarti al Capitano.»
«Bene!»
disse Hugh. «Grazie, Bill. Ma credi che sia prudente cercare di
convincere lui senza aver prima sondato le opinioni degli altri?»
Ertz
fu seccato da tanta ottusità e non glielo nascose: «Tu non hai
capito la situazione!» ringhiò. «Ti devi presentare al Capitano
per essere processato... per eresia.»
Hugh
meditò su queste parole, come se l'idea non lo avesse ancora
sfiorato. Poi osservò con calma: «Sei sceso nel passaggio
sbagliato, Bill. Forse un'accusa e un processo sono la via
migliore per raggiungere lo scopo, ma non sono un contadino, che si
possa portare a calci dal Capitano. Io devo essere processato dal
Consiglio. Sono uno scienziato.»
«Anche
ora?» disse Ertz gentilmente. «Mi sono informato e ho saputo che
sei stato cancellato dalle liste. Spetta al Capitano decidere che
cosa sei.»
Hugh
non rispose. Tutto era contro di lui, lo sapeva, e non avrebbe avuto
niente da guadagnare a inimicarsi Ertz. L'Ingegnere Capo fece un
segnale e i due uomini disarmati afferrarono Hugh per le
braccia. Egli li seguì senza opporre resistenza.
Hugh
guardò con interesse il Capitano. Il vecchio non era cambiato
molto... un po' più grasso, forse.
Il
Capitano si sistemò comodamente nella poltrona e prese il memorandum
che aveva davanti a sé.
«Che
cosa significa tutto ciò?» esordì con tono irritato. «Non
capisco.»
C'era
Mort Tyler a sostenere l'accusa contro Hoyland, una circostanza che
Hugh non aveva potuto prevedere e che accentuò le sue apprensioni.
Frugò tra i ricordi d'infanzia alla ricerca di qualche appiglio
per guadagnarsi la simpatia dell'uomo, ma non ne trovò.
Tyler
si schiarì la voce e cominciò: «È il processo di un certo Hugh
Hoyland, Capitano, un tempo uno dei vostri giovani
scienziati...»
«Uno
scienziato? E allora, perché non se ne occupa il Consiglio?»
«Perché
non è più uno scienziato, Capitano. È passato ai mutanti e ora è
tornato fra noi a predicare l'eresia e a cercare di minare la vostra
autorità.»
Il
Capitano guardò Hugh con la pronta ostilità dell'uomo geloso
delle proprie prerogative.
«Ah,
è così?» urlò rabbiosamente. «Che cos'hai da dire in tua
difesa?»
«L'accusa
è completamente infondata, Capitano» rispose Hugh. «Tutto
quello che ho detto è la conferma della verità assoluta della
nostra antica sapienza. Non ho messo in dubbio le verità che
regolano la nostra vita, le ho semplicemente affermate con maggior
forza di quanto siamo soliti fare. Io...»
«Io
continuo a non capire» lo interruppe il Capitano, scuotendo la
testa. «Sei accusato di eresia, e nello stesso tempo sostieni di
credere ai Dogmi. Se non sei colpevole si può sapere perché
sei qui?»
«Forse
posso chiarire io le cose» intervenne Ertz. «Hoyland...»
«Speriamo»
sospirò il Capitano. «Su, avanti... Sentiamo che cosa hai da
dire.»
Ertz
fornì una versione abbastanza esatta, sebbene tendenziosa, del
ritorno di Hoyland e della sua strana storia. Il Capitano stette ad
ascoltare con un'espressione che variava dalla perplessità alla
noia.
Quando
Ertz ebbe concluso, il Capitano si volse ancora a guardare Hugh:
«Mah!» disse.
Hugh
replicò immediatamente.
«In
sostanza, Capitano, io sostengo che su, nel non peso, c'è un luogo
dove si può realmente vedere che la Nave si muove! Dove si può
realmente vedere il Disegno di Jordan in azione! Questo non significa
rinnegare la fede, ma affermarla. Non c'è bisogno che vi fidiate
della mia parola. Jordan stesso dimostrerà che dico la verità.»
Notando
che il Capitano sembrava indeciso, Tyler intervenne. «Capitano,
c'è una possibile spiegazione a questa incredibile situazione, una
spiegazione che sento il dovere di farvi conoscere. Ci sono due
interpretazioni ovvie della ridicola storia di Hoyland: o egli è
semplicemente colpevole di estrema eresia o dentro di sé è un
mutante che ha escogitato un piano per consegnarvi nelle mani
dei suoi compagni. Ma c'è anche una terza, più caritatevole,
spiegazione, quella che in cuor mio sento essere vera. È registrato
negli archivi che Hoyland rischiò di essere affidato al
Convertitore dopo la visita di controllo che gli fu fatta alla
nascita, ma la sua imperfezione fisica, la testa troppo grossa, era
minima, e venne risparmiato. Ritengo che le terribili esperienze da
lui subite quando era nelle mani dei mutanti possano avere alla fine
avuto ragione di una mente già scossa. Il poveretto, semplicemente,
non è responsabile delle sue azioni.»
Hugh
guardò Tyler con un nuovo rispetto. Assolverlo d'ogni colpa e nello
stesso tempo assicurarsi che facesse il Viaggio... Che abilità!
Il
Capitano fece un cenno con la mano.
«Basta,
questa conversazione è durata anche troppo!» Poi, rivolgendosi a
Ertz: «Che cosa suggerisce?»
«Il
Convertitore, Capitano.»
«Va
bene, allora. Ma veramente non capisco, Ertz» continuò irritato
«perché venga a infastidirmi con queste inezie. Se non
sbaglio, lei dovrebbe essere capace di tenere la disciplina nel suo
reparto senza bisogno del mio aiuto.»
«Certo,
Capitano.»
Il
Capitano si allontanò dalla scrivania e si alzò in piedi:
«Suggerimento accolto. Congedati.»
Hoyland
fu pervaso dalla rabbia per l'assurda ingiustizia di tutto ciò. Non
avevano neppure preso in considerazione l'idea di controllare la
sola prova reale che egli aveva in sua difesa.
Sentì
una voce urlare: «Aspettate!»
Poi
scoprì che quella voce era la sua.
Il
Capitano rimase immobile, guardandolo.
«Aspettate
un momento» proseguì Hugh, a cui le parole uscivano spontaneamente.
«Quanto
vi sto per dire non farà alcuna differenza, visto che siete
così dannatamente sicuri di conoscere tutte le risposte da non
considerare una proposta ragionevole come quella di verificare con i
vostri occhi. Nondimeno, eppure... eppur si muove!»
Hugh
ebbe tutto il tempo che voleva per pensare, disteso nel
compartimento dove lo avevano rinchiuso in attesa che il programma
energetico richiedesse il suo inserimento nel Convertitore. Ebbe
tempo di ripensare ai propri errori. Il primo sbaglio era stato
quello di raccontare tutto a Ertz appena tornato. Avrebbe dovuto
aspettare, rinsaldare i legami con Ertz e sondarlo, invece di
fare affidamento su una vecchia amicizia che non era mai stata molto
profonda.
Secondo
sbaglio: Mort Tyler. Quando aveva sentito pronunciare il suo
nome da Ertz, avrebbe dovuto cercare di scoprire quanta influenza
quell'individuo avesse su Bill. Conosceva Tyler da molto tempo, non
avrebbe dovuto sbagliarsi in modo così grossolano sul suo conto.
Ed
eccolo qui, condannato come un mutante o, forse, come un eretico. In
fondo, non cambiava molto. Si domandò se non gli sarebbe
convenuto cercare di spiegare perché esistevano i mutanti. L'aveva
imparato leggendo alcuni antichi documenti posseduti da Joe-Jim. No,
non sarebbe servito a niente. Come si poteva spiegare che erano
state le radiazioni provenienti dall'esterno a causare la nascita dei
mutanti, quando nessuno credeva che esistesse un esterno? No,
lui aveva combinato il guaio prima di essere portato alla presenza
del Capitano.
Le
sue riflessioni alla fine furono interrotte dal rumore della porta
che si apriva. Era troppo presto per un altro dei rari pasti che gli
venivano portati, perciò credette che finalmente fossero venuti a
prenderlo e rinnovò il proposito di vendere cara la pelle.
Ma
si sbagliava. Sentì una voce flebile e piena di dignità che diceva:
«Figliolo, figliolo, che cosa ti è successo?»
Era
il Tenente Nelson, il suo primo maestro, che appariva
invecchiato e fragile.
Il
colloquio fu penoso per entrambi. Il vecchio, che non aveva avuto
figli, aveva nutrito grandi progetti per il suo protetto, aveva
addirittura sperato che un giorno potesse aspirare alla carica di
Capitano, sebbene si fosse tenuto quelle ambizioni per sé, pensando
che non fosse opportuno lodare eccessivamente i giovani. Aveva
profondamente sofferto quando Hugh era stato dato per morto.
Ora
il giovane, divenuto un uomo, era tornato, ma disonorato e
condannato al Convertitore.
Anche
per Hugh il colloquio fu straziante. A modo suo, aveva voluto molto
bene al vecchio, desiderando compiacerlo e cercando la sua
approvazione. Mentre raccontava la sua storia, però, si rese conto
che Nelson la giudicava soltanto un'aberrazione della sua mente e
sospettò perfino che egli preferisse vederlo andare incontro a
una rapida morte nel Convertitore, con gli atomi ridotti a
idrogeno e trasformati in utile e pura energia, piuttosto che
saperlo vivo a farsi beffe degli antichi insegnamenti.
In
questo, però, Hugh fu ingiusto con il suo vecchio maestro, perché
sottovalutava il buon cuore di Nelson e gli attribuiva un'eccessiva
devozione alla "scienza". In ogni caso Hugh, se in gioco ci
fosse stato solo il suo benessere, avrebbe preferito morire pur
di non spezzare il cuore al suo benefattore, essendo un uomo
romantico e decisamente un po' folle.
Poco
dopo il vecchio si alzò per andare, poiché la visita era divenuta
intollerabile per entrambi.
«Non
c'è niente che possa fare per te, figliolo? Ti nutrono a
sufficienza?»
«Benissimo,
grazie» mentì Hugh.
«Non
hai proprio bisogno di niente?»
«No...
cioè, sì, potrebbe farmi avere un po' di tabacco? Non ne
mastico da un'infinità di tempo.»
«Va
bene. C'è qualcuno che desideri vedere?»
«Pensavo
che non mi fosse consentito ricevere visite... visite di persone
comuni.»
«È
così, ma credo di poter ottenere che si faccia un'eccezione per te.
Però, mi devi promettere di non parlare della tua eresia»
aggiunse ansioso.
Hugh
rifletté velocemente. Gli si presentava una nuova possibilità. Suo
zio?... No, sebbene fossero sempre andati d'accordo, vedevano le cose
in modo diverso, e il loro sarebbe stato un saluto fra due
estranei. Hugh non aveva mai fatto amicizia facilmente, ed Ertz in
fondo era l'amico migliore che avesse mai avuto, figurarsi! A un
tratto ricordò un suo vecchio compagno, Alan Mahoney, con cui
da ragazzo giocava al villaggio. A dire la verità, praticamente
non ne aveva più saputo niente da quando faceva l'apprendista da
Nelson. Eppure...
«Alan
Mahoney abita sempre nel nostro villaggio?»
«Sì.»
«Mi
piacerebbe vederlo, se è disposto a venire.»
Alan
arrivò, nervoso, a disagio, ma evidentemente felice di rivedere
Hugh e sconvolto nel saperlo condannato a fare il Viaggio. Hugh gli
diede una pacca sulla spalla.
«Sei
un bravo ragazzo» disse «sapevo che saresti venuto.»
«Certo
che sono venuto» protestò Alan «appena l'ho saputo. Al villaggio
nessuno ne era informato. Credo che nemmeno il Testimone lo sapesse.»
«A
ogni modo, ora sei qui, ed è questo che conta. Dimmi di te. Ti sei
sposato?»
«No,
ma non perdiamo tempo a parlare di me. Comunque, non mi succede
mai niente. Come hai fatto, in nome di Jordan, a ficcarti in una
situazione simile?»
«Non
posso parlare di questo, Alan. Ho promesso al Tenente Nelson di
tenere la bocca chiusa.»
«Bene,
se si tratta di una promessa... ma che razza di promessa, comunque.
Sei in un brutto guaio, amico.»
«A
quanto pare!»
«Qualcuno
ce l'ha con te?»
«Bah,
il nostro vecchio amico Mort Tyler non mi è stato di grande aiuto.
Questo credo di poterlo dire.»
Alan
fece un fischio e scosse lentamente la testa.
«Questo
chiarisce molte cose.»
«Che
cosa vuoi dire? Sai qualcosa?»
«Forse.
Tyler, dopo la tua scomparsa, ha sposato Edris Baxter.»
«Capisco...
Ora mi è tutto più chiaro.»
Rimase
in silenzio per qualche istante.
Subito
dopo, Alan riprese: «Senti, Hugh. Non vorrai mica stare qui seduto
ad aspettare? Specialmente, dopo avere scoperto che c'è di mezzo
Tyler. Dobbiamo farti uscire di qua.»
«E
come?»
«Non
lo so. Con un atto di forza, forse. Credo di poter raccogliere un
certo numero di uomini bene armati e disposti ad aiutarci...
Tutti bravi ragazzi, ansiosi di poter usare i loro coltelli.»
«Così,
alla fine, saremo tutti pronti per il Convertitore! Tu, io e i
tuoi compagni. No, Alan, non è il caso.»
«Ma
dobbiamo fare qualcosa! Non possiamo restarcene con le
mani in mano ad aspettare che ti decompongano!»
«Lo
so.» Hugh studiò la faccia di Alan. Era giusto chiedergli un favore
del genere? Ma si sentì rassicurato da ciò che aveva visto. «Senti.
Tu faresti qualunque cosa, pur di tirarmi fuori di qua, non è
vero?»
«Lo
sai bene!» Alan sembrava offeso.
«Molto
bene. C'è un nano chiamato Bobo. Ti dirò come devi fare per
trovarlo...»
Alan
salì sempre più in alto, molto più in alto di quanto si fosse mai
spinto da quando erano ragazzi e Hugh lo guidava in sconsiderate
spedizioni. Era più vecchio ora, più prudente, non gli piaceva
farlo. Al pericolo reale di allontanarsi dai livelli inferiori,
che ben conosceva, si aggiungevano i timori ispiratigli dalla
superstizione. Ma continuava a salire.
Doveva
essere arrivato nel luogo indicatogli da Hugh, a meno che avesse
sbagliato il conto dei livelli. Ma non scorgeva traccia del nano.
Fu
Bobo a vederlo per primo. Un proiettile lanciato da una fionda colpì
Alan in pieno stomaco, proprio mentre urlava: «Bobo! Bobo!»
Bobo
entrò camminando all'indietro nella cabina di Joe-Jim e scaricò il
suo fardello ai piedi del bicefalo.
«Carne
fresca» annunciò orgoglioso.
«Vedo»
disse Jim con indifferenza. «È tuo. Portalo via.»
Al
nano venne l'acquolina in bocca. «È strano» disse. «Conosce
il nome di Bobo.»
Joe
alzò gli occhi dal libro che stava leggendo, una raccolta di
poesie di Browning, pubblicata dalla L-Press, New York, London, Luna
City, cr. 3.50.
«Interessante.
Aspetta un momento.»
Hugh
aveva preparato Alan allo shock che gli avrebbe procurato la vista di
Joe-Jim. Così, in un tempo ragionevolmente breve riuscì a
ritrovare la presenza di spirito per dire quello che doveva. Joe-Jim
lo ascoltò senza fare molti commenti, Bobo con interesse, ma senza
capire granché.
Quando
Alan ebbe finito, Jim osservò: «Insomma, avevi ragione tu, Joe. Non
ce l'ha fatta.» E, rivolgendosi ad Alan, aggiunse: «Puoi prendere
tu il posto di Hoyland. Sai giocare a scacchi?»
Alan
guardò prima una testa e poi l'altra.
«Voi
non capite!» esclamò. «Non intendete fare nulla per aiutarlo?»
Joe
lo guardò perplesso: «Noi? Perché dovremmo?»
«Ma
voi dovete farlo. Non vi rendete conto che lui ha bisogno di
voi? Non c'è nessun altro a cui possa rivolgersi. Ecco perché
sono venuto. Non capite?»
«Un
momento» disse Jim con voce strascicata «aspetta un momento.
Non correre. Ammettendo che fossimo disposti ad aiutarlo... Come
potremmo fare, in nome della Nave di Jordan? Rispondi alla mia
domanda!»
«Ma...
è semplice...» si mise a balbettare Alan, di fronte a tanta
stupidità. «Organizzate una squadra... e scendete a liberarlo!»
«Perché
dovremmo farci uccidere in un combattimento per liberare il tuo
amico?»
Bobo
drizzò le orecchie.
«Combattimento?»
chiese eccitato.
«No,
Bobo» disse Joe. «Niente combattimenti. Si faceva per dire.»
«Oh»
esclamò Bobo e ritornò alla sua inerzia.
Alan
guardò il nano.
«Se
almeno lasciaste che io e il nano...»
«No»
tagliò corto Joe «è fuori discussione. Falla finita con
questa storia.»
Alan,
preso dallo sconforto, andò a sedersi in un angolo,
abbracciandosi le ginocchia. Se solo fosse riuscito ad andarsene di
lì. Avrebbe ancora potuto cercare aiuto ai livelli inferiori.
Il nano sembrava essersi addormentato, sebbene fosse difficile
accertarsene. Se solo si fosse addormentato anche Joe-Jim.
Joe-Jim
non sembrava affatto assonnato. Joe provava a continuare la sua
lettura, ma Jim di tanto in tanto lo interrompeva. Alan non
riusciva a sentire quello che si dicevano.
A
un tratto Joe alzò la voce.
«È
questa la tua idea di divertimento?» domandò.
«Mah!»
disse Jim «è sempre meglio degli scacchi!»
«Figurarsi!
E se ti prendi un coltello in un occhio? Che cosa sarebbe di me?»
«Joe,
stai invecchiando. Non hai più un filo di coraggio.»
«Tu
sei vecchio quanto me!»
«Sì,
ma le mie idee rimangono giovani!»
«Oh,
mi fai venire la nausea. Comunque, d'accordo, facciamo come vuoi, ma
poi non prendertela con me... Bobo!»
Il
nano scattò in piedi immediatamente, pronto a entrare in
azione.
«Sì,
capo!»
«Corri
a cercare Mezzo Accovacciato, Lungo Braccio e Porcello.»
Joe-Jim
si alzò, aprì un armadio, e cominciò a sfilare i coltelli dalle
rastrelliere.
Hugh,
dalla sua cella, sentì un trambusto nel passaggio. Potevano
essere le guardie che venivano a prenderlo per condurlo al
Convertitore, ma gli sembrò strano che facessero tanto fracasso. A
meno che non si trattasse di qualche avvenimento del tutto estraneo
alla sua sorte. Oppure poteva essere...
Lo
era. La porta si spalancò di colpo e Alan entrò, gridando e
ficcandogli in mano un paio di coltelli. Fu spinto fuori dalla porta
mentre si sistemava i coltelli nella cintura e se ne faceva dare
altri due.
Fuori
vide Joe-Jim che, all'inizio, non si accorse di lui, occupato com'era
a lanciare coltelli con la stessa calma metodica che aveva quando si
allenava nella sua cabina. Vide anche Bobo, che, a capo chino e
sogghignando con la bocca allargata da un taglio sanguinante,
continuava senza fatica a caricare la fionda e a tirare proiettili.
C'erano altri tre individui, che Hugh riconobbe come sgherri di
Joe-Jim, mutanti per definizione e luogo di nascita, ma senza alcuna
deformità.
Il
suo conteggio non includeva le forme immobili che giacevano sulle
lastre del pavimento.
«Presto,
andiamo!» urlò Alan. «Ne arriveranno altri, fra pochi
istanti.»
E
si lanciò correndo verso il passaggio alla loro destra.
Joe-Jim
desistette e lo seguì. Hugh scagliò un'ultima lama contro una
figura che si allontanava velocemente verso sinistra: era un
bersaglio difficile e Hoyland non ebbe tempo di vedere se il colpo
fosse andato a segno.
Si
arrampicarono lungo il passaggio, Bobo chiudeva la fila, quasi gli
dispiacesse lasciare il divertimento, e arrivarono a un punto
dove un passaggio secondario incrociava il passaggio principale.
Alan
li guidò ancora verso destra. «Le scale di fronte!» urlò.
Ma
non fecero in tempo a raggiungerle. Una porta stagna, utilizzata
raramente, si chiuse improvvisamente davanti a loro, a una
decina di passi dalla scala. I bravi di Joe-Jim si bloccarono e
guardarono il loro capo con aria interrogativa. Bobo si spezzò le
unghie spesse cercando di trovare un appiglio sulla porta.
Sentivano
chiaramente i rumori degli inseguitori dietro di loro.
«Siamo
in trappola» disse Joe a bassa voce. «Spero che questo ti
diverta, Jim.»
Guardando
verso il passaggio da cui provenivano, Hugh vide una testa che
spuntava da dietro l'angolo. Lanciò un coltello, ma la distanza era
troppo grande: la lama mancò il bersaglio e andò a sbattere contro
la paratia metallica. La testa scomparve. Lungo Braccio teneva
d'occhio l'angolo, con la fionda carica, pronto a tirare.
Hugh
prese Bobo per una spalla: «Ascolta! Vedi quella luce?»
Il
nano sbatté le palpebre senza capire. Hugh gli indicò il punto in
cui i tubi luminosi si incrociavano, in alto, proprio sopra l'angolo
formato dai passaggi.
«Quella
luce. Puoi colpire i tubi là dove s'incrociano?»
Bobo
misurò la distanza con lo sguardo. Sarebbe stato un colpo difficile
in qualunque condizione, data la distanza. Da dove si trovavano,
stretti com'erano nel basso passaggio, era indispensabile che il
tiro fosse dritto e veloce. Oltretutto, si trovavano in una zona in
cui il peso era più alto di quello a cui era abituato.
Il
nano non rispose. Hugh sentì lo spostamento d'aria, ma non fece in
tempo a vedere il lancio. Ci fu un rumore di vetri infranti, e il
passaggio fu avvolto dalle tenebre.
«Ora!»
urlò Hugh, e li condusse via di corsa. Mentre si avvicinavano
all'incrocio dei passaggi gridò: «Trattenete il respiro! Attenti al
gas!» Il vapore radioattivo fuoriusciva dal tubo rotto, in alto, e
riempiva i passaggi di una nebbia verdastra. Aveva preso la direzione
giusta, il passaggio davanti a loro era buio, poiché era
anch'esso servito dal tubo che Bobo aveva rotto. Intorno a sé
sentiva rumore di passi, ma non avrebbe potuto dire se provenisse da
amici o nemici.
Irruppero
in una zona illuminata. Non si vedeva nessuno, all'infuori di un
contadino indifeso e spaventato, che corse via a gran velocità. Si
passarono rapidamente in rassegna, per controllare di esserci tutti.
Nessuno mancava all'appello, ma Bobo si reggeva a fatica.
Joe
lo guardò. «Deve avere respirato il gas. Dategli qualche colpo
sulla schiena.»
Porcello
fu ben lieto di provvedere. Bobo fece un forte rutto, ebbe un
repentino conato di vomito e poi sorrise.
«Sta
meglio di prima» decise Joe.
Quella
breve sosta aveva permesso ad almeno uno degli inseguitori di
raggiungerli. Uscì dal buio profondo, senza rendersi conto di che
cosa lo aspettava, o forse non curandosene. Alan abbassò il
braccio di Porcello, che stava per lanciare il coltello.
«Lascialo
a me» disse. «Ho un vecchio conto in sospeso con lui.»
Era
Tyler.
«Duello?»
lo sfidò Alan, il pollice sulla lama del pugnale.
Gli
occhi di Tyler andarono rapidi da un avversario all'altro e,
alla fine, accettò l'invito a uno scontro individuale,
scagliandosi su Alan. Lo spazio era troppo ristretto per un duello a
distanza: i due avversari si avvicinarono, cercando di schivare
i colpi, e si afferrarono per i polsi.
Alan
aveva una corporatura più massiccia ed era probabilmente più
forte, ma Tyler si muoveva con agilità. Tentò di dare una
ginocchiata al basso ventre ad Alan, che la evitò, avvinghiandosi a
Tyler, ben piantato sui piedi. I due rotolarono al suolo. Si
sentì rumore di tessuti lacerati.
Un
istante dopo, Alan stava pulendo la lama del coltello contro la
coscia. «Andiamocene» disse. «Ho paura.»
Raggiunsero
una scala e vi si arrampicarono a tutta velocità, con in testa
Porcello e Lungo Braccio che perlustravano i nuovi livelli e
coprivano i fianchi, mentre il terzo — quello che Hugh aveva
sentito chiamare Mezzo Accovacciato — proteggeva loro le spalle.
Gli altri procedevano in gruppo al centro.
Hugh
credeva che ormai si trovassero fuori pericolo, quando sentì delle
grida e, proprio sopra la sua testa, il sibilo d'un coltello.
Raggiunse il livello superiore in tempo per essere ferito solo di
striscio da una lama rimbalzata sulla paratia.
Tre
uomini giacevano al suolo. Lungo Braccio aveva un coltello conficcato
proprio nel braccio, ma sembrava non farci caso. La sua fionda
roteava ancora. Porcello cercava di impossessarsi di un coltello
rimasto sul terreno, avendo esaurito il suo armamentario. I
segni del suo lavoro, però, erano ben visibili: a qualche metro di
distanza c'era un uomo in ginocchio, con il sangue che gli grondava
da una ferita alla gamba.
L'uomo
si appoggiò con una mano alla paratia e con l'altra si frugò nella
cintura in cerca di un coltello che non aveva più; in quel mentre
Hugh lo riconobbe.
Era
Bill Ertz.
Ertz
aveva guidato un manipolo di uomini per un'altra via fino a quel
livello, ed era caduto in trappola. Bobo si spinse dietro a Hugh e
preparò il potente braccio al tiro, ma Hugh lo fermò: «Piano,
Bobo» raccomandò. «Nello stomaco, e piano.»
Il
nano sembrò stupito, ma obbedì. Ertz si piegò su se stesso e cadde
al suolo.
«Bel
colpo» disse Jim.
«Prenditelo
in spalla, Bobo» ordinò Hugh «e resta nel mezzo.» Passò in
rassegna con una rapida occhiata la squadra, riunita in cima alla
scala. «Pronti, ragazzi? Si riprende a salire! Tenete gli occhi bene
aperti!»
Lungo
Braccio e Porcello si arrampicarono sulla scalinata successiva,
mentre gli altri ripresero la formazione iniziale. Joe aveva
l'aria seccata. In qualche modo — un modo che per il momento gli
sfuggiva completamente — era stato esautorato dalla sua
posizione di capo della squadra — la sua squadra! —
ed era Hugh che impartiva gli ordini. Si disse tuttavia che, al
momento, non c'era tempo per protestare. Rischiavano di essere uccisi
tutti.
Quanto
a Jim, non sembrava affatto contrariato, anzi, apparentemente si
divertiva.
Salirono
altri dieci livelli, senza incontrare nessuna resistenza. Hugh aveva
dato ordine di non uccidere i contadini, se non ce ne fosse
stata necessità. I tre sgherri obbedirono; quanto a Bobo, era
troppo impegnato a trasportare il corpo di Ertz per creare
problemi di disciplina. Solo dopo che si furono lasciati alle spalle
altri trenta ponti ed ebbero raggiunto la terra di nessuno, Hugh
allentò la vigilanza. Diede l'alt e tutti iniziarono ad esaminare le
proprie ferite.
Le
sole che meritassero di essere prese sul serio erano quella di Lungo
Braccio e quella sulla faccia di Bobo. Joe-Jim le osservò con
attenzione e vi applicò dei cerotti di cui s'era rifornito prima di
partire per la spedizione. Hugh rifiutò di farsi medicare il piccolo
taglio.
«Non
sanguina più» insistette. «E poi ho troppo da fare.»
«L'unica
cosa che devi fare è tornare nella nostra zona, e porre fine a
questa follia» lo rimbeccò Joe.
«Neanche
per sogno» replicò Hugh. «Tu, forse, ci tornerai, ma Alan, io e
Bobo proseguiamo fin su, al non peso, e alla Veranda del Capitano.»
«Sciocchezze»
disse Joe. «A fare che cosa?»
«Vieni
anche tu, se ti fa piacere, e te ne renderai conto da solo.
Avanti, ragazzi. Andiamo!»
Joe
stava per protestare, ma si fermò vedendo che Jim rimaneva in
silenzio. Joe-Jim li seguì.
Fluttuarono
dolcemente attraverso la porta della Veranda: Hugh, Alan, Bobo,
che trasportava ancora il corpo inerte di Ertz sulle spalle, e
Joe-Jim.
«Ecco»
disse Hugh ad Alan, indicando le splendide stelle con un gesto della
mano. «Ecco quello di cui ti ho parlato.»
Alan
guardò la volta celeste e afferrò il braccio di Hugh.
«Per
Jordan! Precipitiamo!» gemette, chiudendo gli occhi.
Hugh
lo scosse. «Va tutto bene» lo rassicurò. «È meraviglioso. Apri
gli occhi.»
Joe-Jim
toccò il braccio di Hugh. «Si può sapere che cosa intendi fare? E
perché hai fatto portare anche quello?» chiese, indicando
Ertz.
«Oh,
lui?... Quando riprenderà i sensi, voglio fargli vedere le
stelle, dimostrargli che la Nave si muove davvero.»
«E
perché?»
«Perché
allora potrò mandarlo giù a convincere qualcun altro.»
«Uhm!...
E chi ti dice che avrà più fortuna di quanta ne abbia avuta tu?
«Mah!
In questo caso...» Hugh si strinse nelle spalle «in questo caso
dovremo ricominciare tutto da capo, suppongo, finché non li avremo
convinti. Abbiamo il dovere di farlo, e tu lo sai.»
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