mercoledì 6 gennaio 2016

Universo (di Robert A. Heinlein)

Questa è una delle storie più importanti nella storia della fantascienza di ogni tempo. Parla di una enorme astronave i cui abitanti avevano dimenticato chi erano, cosa facevano, e persino la natura della loro esistenza.

UNIVERSO, di Robert A. Heinlein




«Attenzione, c'è un mutante laggiù!»
Al grido d'allarme, Hugh Hoyland si abbassò, raggomi­tolandosi su se stesso. Un proiettile metallico a forma d'uovo colpì la paratia a un centimetro dalla sua testa, ri­schiando di fracassargli il cranio. Hoyland si era piegato con uno scatto tale che i suoi piedi si erano sollevati dalle lastre del pavimento, e prima di toccare di nuovo il suolo spinse energicamente i piedi contro la paratia alle sue spalle, lanciandosi in avanti. Si proiettò in posizione oriz­zontale lungo il passaggio, con il pugnale in mano.
Girandosi in aria, frenò il proprio slancio puntando i piedi contro la paratia metallica, proprio nel punto da cui il mutante lo aveva attaccato, e ricadde lentamente in pie­di. Il restante tratto del passaggio era deserto. I suoi due compagni nel frattempo lo avevano raggiunto, scivolando con strani movimenti lungo il pavimento.
«È fuggito?» chiese Alan Mahoney.
«Sì» rispose Hoyland. «Ho fatto in tempo a veder­lo mentre si infilava in quel boccaporto. Una femmina, direi. Mi è sembrato avesse quattro gambe.»
«Due gambe o quattro, ormai non l'acchiappiamo più» osservò il terzo uomo.
«E chi Huff lo voleva prendere?» protestò Mahoney. «Io no di certo!»
«Ma io sì!» ribatté Hoyland. «Per Jordan, se avesse mirato un centimetro più in basso, adesso sarei già pron­to per il Convertitore.»
«Ma è possibile che nessuno di voi due riesca a dire tre parole senza metterci una bestemmia?» li rimpro­verò il terzo uomo. «E se il Capitano vi sentisse?»
Nel nominare il Capitano si toccò la fronte con un ge­sto di reverenza.
«Oh, per l'amor di Jordan» sbuffò Hoyland «non essere così rigido, Mort Tyler. Non sei ancora uno scien­ziato, in fin dei conti. Credo di essere osservante almeno quanto te... ma non è un peccato mortale dare sfogo ogni tanto ai propri sentimenti. Anche gli scienziati lo fanno. Li ho sentiti con le mie orecchie.»
Tyler aprì la bocca per ribattere, ma ci ripensò e lasciò perdere.
Mahoney prese Hoyland per il braccio.
«Dammi retta, Hugh» lo pregò «andiamocene via di qua. Non ci siamo mai spinti così in alto. Non mi sento tranquillo... Ho bisogno di tornare dove posso sentire un po' di peso sui piedi.»
Hoyland guardò con rimpianto il boccaporto da cui il suo assalitore era scomparso, continuando a stringere l'impugnatura del coltello. Si rivolse quindi a Mahoney.
«D'accordo, ragazzo» disse. «Abbiamo molta stra­da da fare per tornare indietro.»
Si voltò e iniziò a strisciare verso il boccaporto da cui avevano raggiunto il livello dove si trovavano ora; gli altri due lo seguirono. Senza servirsi della scaletta che avevano utilizzato per salire, Hoyland si lasciò cadere nell'apertu­ra, scendendo con un lento ondeggiamento fino al ponte posto cinque metri più sotto, con i due compagni a breve distanza. Un altro boccaporto, poco lontano dal preceden­te, li fece accedere al ponte di un livello ancora inferiore.
Giù, giù, giù, scesero sempre più giù, attraverso decine e decine di ponti, tutti silenziosi, poco illuminati, miste­riosi. A ogni nuovo livello, i loro corpi cadevano più rapi­di e l'impatto con il pavimento era un po' più duro.
Mahoney alla fine protestò.
«Non credi che sarebbe meglio usare le scale ora, Hugh? Quest'ultimo salto mi ha quasi fracassato le gambe.»
«Come vuoi. Ma impiegheremo più tempo. Quanto manca? Qualcuno ha contato i livelli?»
«Ce ne sono ancora settanta per arrivare alla zona verde» rispose Tyler.
«Come fai a saperlo?» chiese Mahoney, sospettoso.
«Li ho contati salendo, stupido. E, scendendo, ho di­minuito di uno a ogni ponte.»
«Non ci credo. Soltanto uno scienziato può fare que­sti calcoli. Solo perché stai imparando a leggere e a scri­vere, credi già di sapere tutto?»
Hoyland intervenne prima che la discussione degene­rasse in una lite.
«Piantala, Alan. Può darsi che lui li sappia fare. È molto portato per queste cose. E, comunque, i ponti da scendere non dovrebbero essere più di settanta: comincio a sentirmi abbastanza pesante.»
«Forse preferisce fare i conti con la lama del mio col­tello!»
«Piantatela, ve l'ho già detto! Lo sapete che fuori dal villaggio i duelli sono proibiti. È il Regolamento.»
Ripresero a scendere in silenzio, percorrendo rapidi le scale, fino a quando il peso, che cresceva a ogni nuovo li­vello, li costrinse a un'andatura più lenta.
Alla fine raggiunsero un livello ben illuminato e alto più del doppio rispetto ai ponti superiori. L'aria era umi­da e calda, la vegetazione impediva la visuale.
«Ci siamo, finalmente» disse Hugh. «Ma non ho mai visto questa fattoria. Dobbiamo essere scesi lungo un percorso diverso da quello che abbiamo seguito per salire.»
«C'è un contadino» disse Tyler. Si avvicinò i mignoli alle labbra e fischiò, poi gridò: «Ehi, compagno di viag­gio! Dove ci troviamo?»
Il contadino li squadrò attentamente prima di indicare, con pochi monosillabi pronunciati di malavoglia, dove si trovava il passaggio principale che li avrebbe riportati al loro villaggio.
Percorsero a passo spedito un'ampia galleria, lunga cir­ca tre chilometri, abbastanza trafficata: viaggiatori, fac­chini, qualche sporadico carrettino, un distinto scienziato che procedeva rapido su una portantina trasportata da quattro attendenti muscolosi, preceduto dal suo aiutante, incaricato di sgombrare la strada dai comuni passanti. Al­la fine, arrivarono alla zona comune del loro villaggio, alta tre ponti e larga forse dieci volte tanto. I tre si separarono e ognuno andò per la sua strada. Hugh si diresse al suo al­loggiamento nella caserma dei cadetti, i giovani scapoli che non vivevano con i genitori. Dopo essersi lavato, si recò nei compartimenti di suo zio, presso cui lavorava per guadagnarsi da vivere. Quando entrò, sua zia alzò gli oc­chi ma non disse nulla, come si conveniva a una donna.
«Ciao, Hugh» disse lo zio. «Sei andato ancora in esplorazione?»
«Lauto pasto, zio. Sì.»
L'uomo, flemmatico e dotato di buonsenso, sorrise con indulgenza.
«Fin dove ti sei spinto e che cosa hai trovato?»
La zia, che era uscita in silenzio dal compartimento, ri­comparve con la cena di Hugh e gliela pose davanti. Il giovane ci si avventò sopra, e non gli passò neanche per la mente di ringraziare. Prima di rispondere inghiottì un boccone.
«Siamo saliti in alto. Ci siamo arrampicati fin quasi al livello del non peso. E un mutante ha cercato di spac­carmi il cranio.»
Lo zio si mise a ridacchiare.
«Ci rimetterai la pelle un giorno o l'altro in uno di quei passaggi, ragazzo. Sarebbe meglio che ti occupassi un po' di più dei miei affari, in previsione del giorno in cui morirò e mi toglierò dai piedi.»
Hugh fece un'espressione corrucciata.
«Ma tu, zio, non hai proprio nessuna curiosità?»
«Io? Ho curiosato abbastanza da giovane. Sono arri­vato sino in fondo al passaggio principale e sono tornato al villaggio. Ho attraversato tutto il Settore Buio, con un branco di mutanti alle calcagna. Vedi questa cicatrice?»
Hugh diede alla cicatrice un'occhiata di cortesia. L'ave­va già vista un'infinità di volte e aveva sentito raccontare la storia fino alla noia. Un solo giro della Nave... figurarsi! Lui voleva andare ovunque, vedere tutto e scoprire il per­ché delle cose. Per esempio, quei livelli superiori... se agli uomini non era lecito arrivarvi, perché Jordan li aveva creati?
Ma tenne per sé i suoi pensieri e continuò a mangiare.
Lo zio cambiò discorso.
«Ho occasione di andare dal Testimone. John Black sostiene che gli devo tre maiali. Vuoi venire anche tu?»
«Ecco, veramente no, credo di no. Aspetta... ma sì, ti accompagno.»
«Sbrighiamoci, allora.»
Si fermarono alla caserma, dove Hugh sosteneva di do­ver sbrigare una faccenda. Il Testimone viveva in un pic­colo compartimento maleodorante sul lato opposto della zona comune, proprio di fronte alla caserma, dove poteva essere facilmente rintracciato da chiunque avesse biso­gno del suo consiglio. Lo trovarono seduto sulla soglia, intento a stuzzicarsi i denti con un'unghia.
Il suo apprendista, un ragazzo con la faccia foruncolo­sa e l'espressione assorta dei miopi, gli stava accoccolato alle spalle.
«Lauto pasto» disse lo zio di Hugh.
«Lauto pasto a te, Edard Hoyland. Sei venuto per af­fari o per tenere compagnia a un povero vecchio?»
«Per entrambe le cose» rispose diplomaticamente lo zio di Hugh. Dopo di che espose il motivo della sua visita.
«Qual è il problema?» chiese il Testimone. «Il con­tratto parla chiaro: "John consegna dieci sacchi d'avena, e stabilisce il prezzo di due maiali; Ed mena la sua scrofa alla monta, John riceve il pagamento quando i maiali so­no cresciuti". Quanto sono grandi ora i due porcelli, Edard Hoyland?»
«A sufficienza» rispose Edard Hoyland «ma il guaio è che John Black adesso, invece dei due maiali pat­tuiti, ne pretende tre.»
«E tu digli di andare ad affogarsi. Il Testimone ha parlato!»
E scoppiò in una risata chioccia.
I due chiacchierarono per un po', Edard Hoyland rac­contò alcuni eventi che gli erano accaduti di recente, cer­cando di soddisfare l'insaziabile curiosità del vecchio per i dettagli. Hugh rimase rispettosamente in silenzio, men­tre i due uomini parlavano. Ma, quando suo zio si mosse per andare, si decise ad aprire la bocca.
«Io mi fermo ancora un po', zio.»
«Fa' come vuoi. Lauto pasto, Testimone.»
«Lauto pasto, Edard Hoyland.»
«Ti ho portato un regalo, Testimone» disse Hugh ap­pena suo zio fu abbastanza lontano da non sentirlo.
«Mostramelo.»
Hugh gli diede un pacchetto di tabacco che aveva preso nel suo armadietto in caserma. Il Testimone accettò il do­no senza ringraziare e lo gettò al suo apprendista, che lo prese in consegna. «Entra pure» disse il Testimone. Poi si rivolse all'apprendista: «Ehi, tu... Porta una sedia al cadetto.»
«E ora, figliolo» riprese quando furono entrambi se­duti «raccontami che cosa stai facendo.»
Hugh lo accontentò e dovette ripetere, senza tralascia­re un solo particolare, tutti gli incidenti delle sue ultime esplorazioni, mentre il Testimone continuava a lamentar­si della sua incapacità di ricordare con precisione tutto quello che aveva visto.
«Voi giovani siete incapaci, completamente incapaci» dichiarò. «Perfino quel giovinastro» e con un cenno della testa indicò il suo apprendista «non è capace di ri­cordare, sebbene valga una dozzina di volte più di te, quanto a questo. Ci crederesti che non riesce a tenere a mente mille versi al giorno? Eppure è convinto di poter prendere il mio posto, quando io me ne sarò andato. Quando facevo io l'apprendista, avevo preso l'abitudine, per addormentarmi, di canticchiare un migliaio di versi. Barche che fanno acqua, ecco che cosa siete voi giovani.»
Hugh non replicò all'accusa, ma aspettò che il vecchio riprendesse a parlare, cosa che egli fece con tutto comodo.
«Volevi chiedermi qualcosa, ragazzo?»
«In un certo senso, sì, Testimone.»
«Bene, dunque, dimmi. Non star qui a tergiversare.»
«Volevo sapere se ti sei mai arrampicato fino al livello del non peso.»
«Io? No, davvero! Studiavo da Testimone, seguivo la mia vocazione. Avevo da imparare i versi di tutti i Testi­moni che mi hanno preceduto, e non mi restava certo il tempo per svaghi puerili!»
«Speravo tu sapessi dirmi che cosa potrei trovare lassù.»
«Questo è un altro paio di maniche. Io non mi sono mai spinto fin lì, ma conservo i ricordi di molte persone che ci sono state, più di quante tu potrai mai conoscere. Sono vecchio, io. Ho conosciuto il padre di tuo padre e, prima di lui, il tuo bisnonno. Che cosa vorresti sapere?»
«Ecco...»
Che cosa voleva sapere esattamente? Come esprimere con una domanda quello che era soprattutto un dolore che lo tormentava, una curiosità bruciante? D'altra parte...
«Vorrei sapere che cosa significano tutte queste cose, Testimone. Perché ci sono tutti quei livelli sopra di noi?»
«Eh? Come sarebbe a dire? Nel nome di Jordan, figlio mio, io faccio il Testimone, non lo scienziato!»
«Pensavo lo sapessi. Mi dispiace.»
«Certo che lo so. Quello che cerchi si trova nei Versi del Principio.»
«Li ho già sentiti.»
«Ascoltali ancora. Troverai le risposte a tutti i tuoi quesiti, se sarai abbastanza saggio da vederle. Ascoltami. Anzi... questa è una buona occasione per il mio apprendi­sta di mostrare la sua erudizione... Ehi, tu! Facci sentire i Versi del Principio e... attento al ritmo.»
L'apprendista si passò la punta della lingua sulle labbra e cominciò: «In principio era Jordan, che pensava in so­litudine i Suoi pensieri.»
"In principio era la tenebra, l'informe, il non essere, e l'Uomo non esisteva.
"Dalla solitudine venne il desiderio, dal desiderio la vi­sione.
"Dal sogno nacque lo scopo, lo scopo generò la decisione.
"Jordan levò alta la mano, e la Nave fu.
"Confortevoli cabine e silos di grano dorato a perdita d'occhio.
"Scale e passaggi, porte e rifugi per proteggere chi an­cora non era nato.
"Jordan guardò la Propria Opera e se ne compiacque, gli parve adatta a una razza che ancora non esisteva.
"Pensò l'Uomo, e l'Uomo fu; nei suoi pensieri cercò la chiave.
"Lasciato libero, l'Uomo avrebbe disobbedito al Creato­re; senza legge, avrebbe distrutto il Piano.
"Così, Jordan dettò il Regolamento, norme per tutti gli uomini.
"A ciascun uomo assegnò un compito e un ruolo, per servire un fine che non potevano comprendere.
"Agli uni il comandare, agli altri l'obbedire, e l'ordine regnò tra gli uomini.
"Creò l'Equipaggio affinché ciascuno assolvesse il pro­prio compito, e gli scienziati dovevano dirìgere il Piano.
"Sopra tutti creò il Capitano, lo volle giudice della raz­za umana.
"Così era nell'Età dell'Oro!
"Jordan è perfetto, chiunque si trovi sotto di lui compie azioni imperfette.
"Invidia, Avidità e Superbia cercarono menti in cui de­positare i loro semi.
"E ci fu un uomo che li ospitò: il maledetto Huff, il pri­mo a peccare!
"Con il suo perverso consiglio egli indusse la ribellione, seminò il dubbio dove prima non esisteva.
"Il sangue dei martiri macchiò le lastre del pavimento, il Capitano di Jordan fece il Viaggio.
"Calarono le tenebre..."
Il vecchio colpì il ragazzo sulla bocca con un violento manrovescio.
«Riprova!»
«Dall'inizio?»
«No, da dove ti sei perso.»
L'apprendista esitò, poi ritrovò il giusto ritmo. «Le te­nebre calarono su tutti i ponti e il Male trionfò sulla virtù...»
La voce del ragazzo continuò la monotona litania, un verso dopo l'altro, cantilenando le frasi ritmiche, e rievo­cando, seppure con qualche imprecisione, l'antica, anti­chissima storia di peccato, ribellione e tenebre discese sull'uomo. Narrò di come la saggezza alla fine avesse pre­valso e i capi dei ribelli fossero stati dati in pasto al Con­vertitore. Raccontò come alcuni rivoltosi fossero sfuggiti al Viaggio e fossero sopravvissuti, generando i mutanti, e un nuovo Capitano fosse stato scelto dopo molte preghie­re e sacrifici.
Hugh, inquieto, non riusciva a stare fermo e strascica­va i piedi.
Trattandosi dei Sacri Versi, senza dubbio dovevano contenere le risposte alle sue domande, ma lui non era abbastanza intelligente da trovarle. Perché? Che cosa significava tutto ciò? Possibile che nella vita non ci fosse al­tro che mangiare, dormire e, alla fine, partire per il lungo Viaggio? Forse Jordan lo aveva destinato a non capire? Ma allora perché quella pena nel cuore? Quella fame che non se ne andava, nonostante i lauti pasti?

Stava interrompendo il digiuno, dopo il sonno, quando un attendente si presentò alla porta dei compartimenti di suo zio.
«Lo scienziato richiede la presenza di Hugh Hoyland» disse cantilenando.
Hugh capì che lo scienziato era il Tenente Nelson, inca­ricato del benessere fisico e spirituale del settore della Nave in cui si trovava il villaggio dove era nato. Inghiottì l'ultimo boccone della colazione e si affrettò a seguire l'at­tendente.
«Il cadetto Hoyland!» lo annunciò l'attendente.
Lo scienziato sollevò lo sguardo dal suo cibo.
«Oh, bene» disse. «Avanti, ragazzo. Siediti. Hai mangiato?»
Hoyland fece cenno di sì, ma i suoi occhi si posarono incuriositi sulla strana frutta che il Tenente aveva davanti. Nelson, che aveva seguito il suo sguardo, lo invitò a ser­virsi.
«Assaggia questi fichi. Sono frutto di un nuovo inne­sto. Li ho fatti venire dalla fiancata più lontana. Avanti, serviti, alla tua età un uomo ha sempre posto per qualche boccone in più.»
Hugh accettò con molto imbarazzo. Non aveva mai mangiato in presenza di uno scienziato. Il vecchio appog­giò la schiena alla sedia, si pulì le dita sulla camicia, si li­sciò la barba e disse: «È un po' di tempo che non ti vedo, ragazzo mio. Raccontami che cosa hai fatto.» Ma prima che Hugh potesse rispondere, proseguì: «No, non dirmi niente. Te lo dirò io. Innanzitutto, mi risulta che hai esplorato e sei salito ai livelli alti, senza rispettare molto le zone proibite. Non è così?»
Fissò il giovane negli occhi, e Hugh iniziò a balbettare, cercando di rispondere. Ma anche questa volta, Nelson non gliene lasciò il tempo.
«Non importa. Lo so, e tu sai che lo so. Non ne sono particolarmente dispiaciuto, ma ciò mi ha costretto a ri­flettere sul fatto che è ormai tempo per te di decidere quel­lo che intendi fare della tua vita. Hai qualche progetto?»
«Be'... niente di preciso, signore.»
«E quella ragazza, Edris Baxter? Hai intenzione di sposarla?»
«Veramente... non saprei, signore. Penso di volerlo e suo padre è d'accordo, credo. Solo...»
«Solo che cosa?»
«Mah... Suo padre vorrebbe che andassi a lavorare come apprendista nella sua fattoria. Suppongo sia una buona idea. La sua tenuta, insieme all'attività di mio zio, rappresenterebbe una buona proprietà.»
«Ma non sei sicuro, vero?»
«Ecco... non lo so.»
«È giusto che tu abbia dei dubbi. Tutto ciò non è adat­to a te. Ho altri progetti. Dimmi, ti sei mai chiesto perché ti ho insegnato a leggere e scrivere? L'hai fatto senz'altro. Ma hai tenuto i tuoi pensieri per te. E hai fatto bene. Ora, però, stammi a sentire. Ti osservo da quando eri bambino. Hai più immaginazione della media, più curiosità, più vi­talità. E sei un capo nato. Fin da bambino eri diverso dagli altri. Il tuo cranio, per esempio, era più sviluppato del nor­male, e ci fu chi, quando fosti ispezionato alla nascita, votò per gettarti immediatamente nel Convertitore. Ma io riuscii a impedirlo. Volevo vedere che cosa saresti diventa­to. La vita del contadino non è fatta per persone come te. Tu sei destinato a diventare uno scienziato.»
Il vecchio tacque e studiò il volto di Hugh. Questi, con­fuso, era rimasto senza parole. Nelson riprese: «Sì, è proprio così. Con un uomo del tuo temperamento ci sono soltanto due cose da fare: renderlo uno dei custodi o affi­darlo al Convertitore.»
«Intende dire, signore, che non ho altra scelta?»
«Se la metti in termini così brutali... sì. Lasciare i più intelligenti tra le file dell'Equipaggio significa rischiare l'eresia. Non possiamo correre un tale pericolo. Già una volta l'eresia si diffuse tra noi e fu sul punto di annientare la razza umana. Ti sei fatto notare per le tue straordinarie capacità: ora dovrai erudirti nel campo del retto pensiero, essere iniziato ai Misteri, affinché tu possa diventare una forza di conservazione e non il focolaio di un'infezione, fonte di guai.»
L'attendente ricomparve con due pesanti fagotti, che la­sciò cadere sul pavimento. Hugh li guardò di sfuggita ed esclamò:
«Ma quelle sono le mie cose!»
«Esattamente» confermò Nelson. «Le ho mandate a prendere, perché d'ora in poi abiterai qui. Ci rivedremo più tardi e daremo inizio ai tuoi studi, a meno che tu ab­bia in mente qualcosa di meglio.»
«No, signore, non mi pare. Devo ammettere di essere un po' confuso. Tutto ciò, suppongo, significa che non po­trò sposarmi.»
«Oh, quanto a questo» rispose Nelson con noncu­ranza «sposa pure quella ragazza, se proprio ci tieni. Il padre non potrebbe opporsi, ora. Ti avverto, però: te ne stancherai presto.»
Hugh Hoyland divorò gli antichi libri che il suo mae­stro gli permetteva di leggere, e per molti, molti sonni non provò il desiderio di salire ai ponti superiori né quel­lo di lasciare il compartimento di Nelson. Più d'una volta gli parve di essere sulla strada che portava alla soluzione del mistero — un mistero che non riusciva a definire, nep­pure in forma di domanda — ma poi si ritrovava più con­fuso che mai. Diventare uno scienziato, evidentemente, era molto più difficile di quanto avesse creduto.
Un giorno, mentre si scervellava sulle bizzarre tortuo­sità che caratterizzavano gli antichi e cercava di scoprire la chiave della loro strana retorica e dei loro insoliti ter­mini, Nelson entrò nella piccola cabina che gli era stata destinata e, ponendogli paternamente la mano sulla spal­la, gli chiese: «Allora, ragazzo, come va?»
«Abbastanza bene, signore, direi» rispose Hugh mettendo il libro da parte. «Alcune cose, però, mi sono ancora un po' oscure, anzi, molto oscure per essere sin­cero.»
«Non potrebbe essere diversamente» rispose il vec­chio per nulla turbato. «Ho lasciato che affrontassi que­ste letture da solo, affinché ti rendessi conto delle insidie a cui può andare incontro una mente incolta. Molte di queste cose non possono essere comprese senza una gui­da. Che cosa stavi leggendo?» Prese il libro e lo guardò. Si intitolava Elementi di fisica moderna.
«È uno degli scritti sacri più preziosi» commentò «ma chi non è stato iniziato a questo sapere, senza aiu­to, non può trarne il minimo profitto. Innanzitutto, ra­gazzo mio, devi capire che i nostri antenati, nonostante tutta la loro perfezione spirituale, non vedevano le cose come noi. Erano inguaribili romantici, e non razionalisti come noi, e le nozioni che ci hanno tramandato, sebbene indiscutibilmente vere, sono spesso avvolte in un lin­guaggio allegorico. Per esempio, sei arrivato alla Legge di Gravitazione Universale?»
«L'ho letta.»
«E l'hai capita? No, vedo che non l'hai capita.»
«Ecco» disse Hugh, sulla difensiva «non mi pare che abbia un significato. Mi sembra solo una sciocchezza, signore, se mi permette.»
«Questo dimostra quanto stavo dicendo. Tu la inten­devi in senso letterale, e lo stesso vale per le leggi che go­vernano gli apparecchi elettrici di cui si parla in un altro punto del libro. Due corpi si attraggono con una forza di­rettamente proporzionale al prodotto delle loro masse e inversamente proporzionale al quadrato della distanza. Sembrerebbe una delle tante leggi relative ai semplici fe­nomeni fisici, no? Invece, non si tratta affatto di questo: era il poetico modo con cui i nostri avi formulavano la legge di attrazione che regola l'emozione dell'amore. I corpi a cui alludevano sono i corpi umani, la massa è la loro capacità di amare. I giovani hanno una capacità di amare superiore a quella dei vecchi; quando sono vicini si innamorano, quando si separano dimenticano presto l'a­more. "Lontano dagli occhi, lontano dal cuore". È altret­tanto semplice. Ma tu in questa legge cercavi un significa­to più profondo.»
Hugh sorrise.
«Non l'ho mai pensata in questo modo. Capisco che avrò bisogno di molto aiuto.»
«Hai altri problemi?»
«Be'... sì, parecchi, per la verità, anche se, così su due piedi, non mi vengono in mente. Una cosa vorrei chieder­le: è vero che i mutanti si possono considerare esseri umani come noi?»
«Vedo che hai dato ascolto a voci infondate. La rispo­sta a questa domanda è tanto sì quanto no. È vero che i mutanti originariamente discendevano da esseri umani, ma non fanno più parte dell'Equipaggio e non si possono più considerare come membri della razza umana, perché hanno contravvenuto alla Legge di Jordan.»
«È un argomento molto vasto» proseguì, dopo aver­ci riflettuto. «Ci sono dubbi anche riguardo al significa­to originario del termine mutante. È un fatto che tra i loro antenati si annoverino gli ammutinati sfuggiti alla morte al tempo della ribellione. Ma nelle loro vene scorre anche il sangue dei molti mutanti che nacquero durante l'Epoca Oscura. Come puoi certo immaginare, a quel tempo non era ancora in vigore la saggia Legge che impone di ispe­zionare ogni neonato per accertare che non porti il mar­chio del peccato e che obbliga a gettare nel Convertitore chiunque presenti delle mutazioni. Ci sono strane e or­rende creature che strisciano per i passaggi oscuri e si an­nidano nei livelli disabitati.»
Hugh ci pensò per qualche istante, poi chiese: «Ma perché queste mutazioni continuano a verificarsi anche tra noi esseri umani?»
«È semplice. Il seme del peccato è ancora in noi. Ogni tanto riappare, personificato. Distruggendo quei mostri contribuiamo a purificare la specie, affinché si compia il Disegno di Jordan, e l'uomo si avvicini alla nostra dimora celeste, meta del Viaggio: la remota Centauri.»
La fronte di Hoyland si corrugò di nuovo.
«Un'altra cosa mi sfugge. Molti di questi antichi scrit­ti parlano del Viaggio come se si trattasse di un vero e proprio spostamento, un movimento verso qualche luogo, come se la Nave stessa non fosse altro che un carro. Com'è possibile?»
Nelson sorrise.
«Come può essere, infatti? Come potrebbe muoversi lo sfondo rispetto al quale tutto il resto si muove? La ri­sposta, naturalmente, è semplice: ancora una volta hai confuso il linguaggio allegorico con quello che si usa nel­la vita di tutti i giorni. Ovviamente, la Nave è possente, immobile in senso fisico. Come potrebbe muoversi l'inte­ro universo? Tuttavia, si muove senz'altro, in senso spiri­tuale. Ogni atto di devozione che facciamo ci avvicina alla meta suprema, il Disegno di Jordan.»
Hugh annuì.
«Credo di capire.»
«Naturalmente, Jordan avrebbe potuto dare al mon­do una forma diversa da quella della Nave, se fosse stata più adatta al Disegno. Quando l'umanità era giovane e poetica, i devoti facevano a gara tra loro nell'immaginare i mondi fantastici che Jordan avrebbe potuto creare. Una scuola inventò addirittura la leggenda di un mondo capo­volto, fatto di spazi infiniti e vuoti, se si eccettuano punti­ni luminosi e mostruose creature mitologiche senza cor­po. Lo chiamarono "mondo celeste" o "cielo", quasi a contrastare la possente realtà della Nave. Sembravano non stancarsi mai di speculare su questo mondo fantasti­co, arricchendolo di particolari, e di creare immagini per rappresentare qualcosa che pensavano potesse assomi­gliare a tale mondo. Probabilmente, lo facevano a mag­gior gloria di Jordan, e chi potrebbe affermare che Egli considerasse inaccettabili i loro sogni? Ma in quest'epoca moderna abbiamo cose più serie di cui occuparci.»
A Hugh non interessava l'astronomia. Perfino la sua mente incolta era stata in grado di vedere nelle sue deli­ranti speculazioni un'allegoria. Tornò quindi a problemi più concreti.
«Dato che i mutanti sono il seme del peccato, perché non facciamo alcuno sforzo per annientarli? Questo non ci avvicinerebbe al Disegno di Jordan?»
Lo scienziato meditò un attimo prima di rispondere.
«È una domanda legittima e merita una risposta since­ra. Dato che stai per diventare uno scienziato, devi cono­scere la risposta. Considera il problema da questo punto di vista: la Nave può dare da vivere a un Equipaggio limitato. Se ci moltiplicassimo all'infinito, verrebbe un giorno in cui non ci sarebbero più lauti pasti per nessuno. Non è quindi meglio che alcuni di noi periscano negli scontri con i mu­tanti, anziché arrivare al punto di doverci uccidere a vicen­da per il cibo? Le strade di Jordan sono imperscrutabili: perfino i mutanti rientrano nel suo Disegno.»
Le spiegazioni di Nelson sembravano ragionevoli, ma Hugh non riusciva a convincersene pienamente. Quando entrò in servizio attivo come scienziato subalterno addetto al funzionamento della Nave, scoprì che alcune persone la pensavano diversamente. Com'era consuetudine, fece do­manda per trascorrere un periodo in servizio presso il Con­vertitore. Non era un lavoro faticoso, si trattava soprattutto di verificare i materiali di scarto immessi da ogni villaggio, registrare gli apporti e accertarsi che nessun metallo rici­clabile fosse introdotto nelle camere di raccolta. La sua at­tività, però, lo mise in contatto con Bill Ertz, l'assistente dell'Ingegnere Capo, un uomo poco più giovane di lui.
Discusse con Ertz delle cose che aveva imparato da Nelson e fu colpito dal suo atteggiamento.
«Mettiti bene in testa una cosa, ragazzo» gli disse Ertz. «Il nostro è un lavoro pratico per uomini pratici. Scordati tutte queste sciocchezze romantiche. Il Disegno di Jordan! Roba per tenere buoni i contadini e farli resta­re al loro posto, ma tu non lasciarti imbambolare! Non c'è nessun Disegno... tranne quello di badare a noi stessi. La Nave ha bisogno di luce, calore ed energia per cucinare e irrigare. Ed è proprio per questo che siamo noi a coman­dare l'Equipaggio, perché senza queste cose non può tira­re avanti. Quanto alla stupida tolleranza verso i mutanti, vedrai che presto ci saranno dei cambiamenti. Tieni la bocca chiusa e unisciti a noi.»
Hugh si rese conto che gli scienziati più giovani, allea­tisi tra loro, si aspettavano la sua lealtà. Si trattava di un gruppo compatto formatosi in seno a un gruppo più va­sto, e ne facevano parte uomini capaci e determinati, che lavoravano duramente per ottenere il miglioramento del­le condizioni su tutta la Nave, o perlomeno quello che giudicavano tale. Tra loro non c'erano divergenze, perché un nuovo adepto che si rifiutasse di vedere le cose come loro non durava a lungo: o dimostrava di non essere all'al­tezza del suo compito, e si trovava presto ricacciato tra le fila dei contadini, o, com'era più probabile, gli capitava un incidente e andava a finire nel Convertitore.
Hoyland, d'altra parte, cominciò ad accorgersi che ave­vano ragione.
Erano realisti. La Nave era la Nave. Era un dato di fat­to che non esigeva alcuna spiegazione. Quanto a Jordan... chi Lo aveva mai visto? Chi Gli aveva mai parlato? In cosa consisteva quel Suo oscuro Disegno? Lo scopo della vita era vivere. Un uomo nasceva, viveva la sua vita, e alla fine se ne andava al Convertitore. Era semplice, non c'era nes­sun Mistero, nessun Disegno supremo e nessuna Centauri. Queste storie romantiche erano strascichi di quando la razza si trovava nella sua infanzia e gli uomini ancora non possedevano l'intelligenza e il coraggio per guardare in faccia la realtà.
Hugh smise presto di rompersi il cervello sull'astronomia e la fisica mistica e su tutta la mitologia che gli aveva­no insegnato a rispettare. Lo divertivano ancora, più o meno, i Versi del Principio e tutte le vecchie storie sulla Terra — a ogni modo, che Huff era la "Terra"? — ma adesso si rendeva conto che cose del genere potevano essere pre­se sul serio solo dai bambini e dagli stolti.
Inoltre, c'era molto lavoro da fare. I giovani, pur ricono­scendo teoricamente l'autorità degli anziani, avevano pro­getti propri, il primo dei quali era lo sterminio sistematico dei mutanti. A parte questo, non avevano ancora piani pre­cisi, ma contavano di utilizzare appieno le risorse della Na­ve, comprese quelle dei livelli superiori. I giovani potevano procedere con i loro piani senza arrivare a una rottura con gli anziani, dato che gli scienziati più vecchi non si curava­no molto dell'ordinaria amministrazione della Nave.
Il Capitano in carica era diventato così grasso che rara­mente usciva dalla sua cabina, ed era il suo giovane aiu­tante, uno dei loro, a occuparsi di tutto per lui.
Hoyland aveva visto l'Ingegnere Capo una sola volta, in occasione della cerimonia, meramente religiosa, con cui si celebrava l'armamento delle stazioni di atterraggio.
Il piano di annientamento dei mutanti esigeva frequen­ti e sistematiche ricognizioni dei livelli superiori. E fu proprio nel corso di una ricognizione che Hugh cadde nuovamente nell'imboscata di un mutante.
Questo mutante aveva una mira molto più precisa del precedente. I compagni di Hoyland, costretti a ritirarsi a causa della superiorità numerica degli avversari, lo ab­bandonarono, dandolo per morto.

Joe-Jim Gregory stava giocando a scacchi con se stes­so. Un tempo giocava a carte, ma Joe, la testa di destra, aveva avuto il sospetto che Jim, quella di sinistra, barasse. Avevano litigato, così Joe-Jim decise di rinunciare alle carte: aveva imparato molto presto, nella sua carriera di bicefalo, che due teste su un solo paio di spalle devono per forza trovare il modo di andare d'accordo.
Gli scacchi erano molto meglio: entrambe le teste riu­scivano a vedere la scacchiera e non si potevano avere di­vergenze d'opinione.
Qualcuno bussò con forza alla porta metallica della ca­bina, interrompendo la partita. Joe-Jim sguainò il coltello da lancio e lo bilanciò tra le dita, pronto a servirsene.
«Avanti!» urlò Jim.
La porta si aprì e l'individuo che aveva bussato entrò camminando all'indietro (il solo modo sicuro, come tutti sapevano, di presentarsi a Joe-Jim). Il nuovo arrivato era alto non più di un metro e venti, con una corporatura tar­chiata e una muscolatura massiccia. Su una spalla tra­sportava il corpo inanimato di un uomo, che teneva fer­mo con la mano.
Joe-Jim rinfoderò il suo coltello.
«Mettilo giù, Bobo» ordinò Jim.
«E chiudi la porta» soggiunse Joe. «Che cos'abbia­mo qui?»
Era un giovane uomo, apparentemente morto, sebbene non presentasse alcuna ferita. Bobo gli palpò una coscia.
«Mangiare?» chiese speranzoso. Un rivolo di saliva gli usciva dalle labbra socchiuse.
«Forse» temporeggiò Jim. «L'hai ucciso?»
Bobo scosse la minuscola testa.
«Bravo, Bobo» approvò Joe. «Dove lo hai colpito?»
«Bobo colpito lui qui.» Il microcefalo premette un pollice esageratamente largo contro il corpo supino, nella regione compresa tra l'ombelico e lo sterno.
«Bel colpo!» esclamò Joe. «Con un coltello non avremmo potuto fare di meglio.»
«Bel colpo» convenne il nano senza grande entusia­smo. «Volere vedere?» chiese, facendo vibrare la fion­da contento.
«Taci» rispose Joe, abbastanza gentilmente. «No, non vogliamo vedere, vogliamo farlo parlare.»
«Bobo sveglia lui» acconsentì il piccoletto, e con na­turale brutalità cominciò a perseguire il suo scopo.
Joe-Jim lo allontanò con una manata, e applicò altri metodi di rianimazione, dolorosi ma decisamente meno drastici di quelli utilizzati dal nano.
Il giovane uomo si mosse e aprì gli occhi.
«Mangiare?» ripeté Bobo.
«No» disse Joe.
«Da quanto tempo non mangi?» chiese Jim.
Bobo scrollò il capo e si sfregò lo stomaco, indicando con una chiara pantomima che non metteva niente nello stomaco da molto, troppo tempo. Joe-Jim si avvicinò a un armadietto, lo aprì e prese un pezzo di carne. Lo tenne un momento a mezz'aria. Jim lo annusò e Joe allontanò la te­sta, arricciando il naso per il disgusto. Joe-Jim lo lanciò a Bobo che, felice, lo prese al volo.
«Ora fila!» ordinò Jim.
Il nano andò via trotterellando e si chiuse la porta alle spalle. Joe-Jim si avvicinò al prigioniero e lo stuzzicò con un piede.
«Su, parla» disse Jim. «Chi Huff sei?»
Il giovane rabbrividì, si mise una mano sulla testa, poi provò a mettere a fuoco ciò che gli stava intorno, cercò di sollevarsi in piedi, muovendosi goffamente a causa del basso peso che caratterizzava quel livello, e allungò la mano per prendere il suo coltello, ma l'arma non era più nella cintura.
Joe-Jim, invece, aveva sfoderato il suo e lo brandiva. «Cerca di fare il bravo e non ti accadrà niente di male» disse. «Come ti chiamano?»
Il giovane si inumidì le labbra con la punta della lingua e i suoi occhi fecero rapidamente il giro della stanza.
«Avanti, parla!» ordinò Joe.
«Perché stare a perdere tempo con lui?» disse Jim. «Per me, è buono soltanto da mangiare. Meglio richia­mare Bobo.»
«Non c'è fretta» rispose Joe. «Voglio parlare con lui. Come ti chiami?»
Il prigioniero lanciò ancora un'occhiata al coltello e mormorò: «Hugh Hoyland.»
«Questo non ci dice molto» commentò Jim. «Che mestiere fai? Da quale villaggio vieni? E che cos'eri venu­to a fare nella zona dei mutanti?»
Ma questa volta Hoyland s'incupì. Perfino con il coltello premuto sulle costole, non fece altro che mordersi le labbra.
«Lasciamo perdere» disse Joe. «Non è che uno stu­pido colono.»
«Lo liquidiamo?»
«No, per adesso no. Rinchiudiamolo.»
Joe-Jim aprì la porta di un piccolo compartimento e vi spinse dentro Hoyland con il coltello.
Richiuse la porta, mise il chiavistello e tornò alla sua partita.
«A te la mossa, Jim.»
Il compartimento in cui avevano rinchiuso Hugh Hoy­land era buio. Tastando le paratie metalliche, il giovane constatò che non c'erano aperture, tranne la porta, mas­siccia e ben chiusa.
Alla fine, si distese sul pavimento e si abbandonò a va­ne riflessioni.
Ebbe tutto il tempo di pensare e di addormentarsi varie volte, nonché di farsi venire molta fame e moltissima sete.
Quando Joe-Jim ritrovò abbastanza interesse per il suo prigioniero da aprire la porta della cella, non vide subito Hoyland. Il giovane aveva progettato varie volte quello che avrebbe fatto quando si fosse spalancato l'uscio e fos­se arrivata la sua occasione, ma al momento opportuno giaceva senza forze in uno stato semicomatoso. Joe-Jim lo trascinò fuori.
Il trambusto lo destò un po' dal suo torpore. Si sedette e si guardò intorno.
«Sei pronto a parlare?» chiese Jim.
Hoyland aprì la bocca, ma non riuscì a pronunciare neanche una parola.
«Non vedi che ha la gola troppo secca per parlare?» disse Joe al suo gemello. Poi, rivolgendosi a Hugh: «Par­lerai se ti diamo da bere?»
Hoyland sembrò disorientato, poi annuì energica­mente.
Joe-Jim ritornò poco dopo con una brocca d'acqua. Hugh bevve con avidità, e quando fece una pausa sembrò sul punto di svenire.
Joe-Jim si riprese la brocca. «Basta così per ora» disse Joe. «Parlaci di te.»
Hugh obbedì. Di tanto in tanto, fu sollecitato a entrare nei dettagli.

Hugh accettò quella che de facto era una condizione di schiavitù senza opporre particolare resistenza né dispe­rarsi eccessivamente. La parola "schiavo" non figurava nel suo vocabolario, ma si trattava di una condizione nor­male per la sua esperienza. C'era sempre stato chi coman­dava e chi obbediva, non riusciva a immaginare un'altra condizione, un altro tipo di organizzazione sociale. Era un fatto naturale.
Nonostante questo, di tanto in tanto pensava alla fuga.
Ma pensarci fu il massimo a cui seppe arrivare. Joe-Jim intuì i suoi propositi e gli spiegò la situazione con molta chiarezza: «Non metterti in testa strane idee, gio­vanotto. Senza un coltello, non potresti scendere nemme­no tre livelli, in questa parte della Nave. E anche se riu­scissi a rubarmi un coltello, non riusciresti ugualmente a raggiungere la zona dell'alto peso. Inoltre, c'è Bobo.»
Hugh cercò per un attimo di ricordarsi chi fosse, poi chiese: «Bobo?»
Jim sorrise e rispose: «Abbiamo dato a Bobo il per­messo di macellarti, se lo desidera, nel caso in cui tu pro­vassi anche solo a mettere la testa fuori di qui senza di noi. Ora dorme vicino alla porta e trascorre lì gran parte del suo tempo.»
«Lo abbiamo fatto solo per correttezza» disse Joe. «C'è rimasto male, quando abbiamo deciso di rispar­miarti.»
«A proposito» suggerì Jim, girando la testa verso quella del fratello «che ne dici di divertirci un po'?»
Si rivolse di nuovo a Hugh: «Sai lanciare un coltello?»
«Certo» rispose il giovane.
«Facci vedere. Qui.» Joe-Jim gli porse il suo coltello. Hugh lo bilanciò tra le dita. «Prova il mio bersaglio.»
Joe-Jim aveva un tirassegno di plastica appeso alla pare­te, all'estremità opposta della stanza rispetto alla sua poltro­na preferita, da cui era solito esercitarsi. Hugh prese la mira e con un gesto del braccio troppo rapido per poter essere se­guito dallo sguardo, lanciò il coltello. Era ricorso al lancio segreto, che permetteva di raggiungere il massimo risultato con il minimo sforzo, il pollice sulla lama, le altre dita unite.
La lama si piantò vibrando nel bersaglio, proprio al centro della zona consumata dai colpi migliori di Joe-Jim.
«Bravo!» approvò Joe. «Che cos'hai in mente, Jim?»
«Diamogli un coltello e vediamo quanto lontano rie­sce ad andare.»
«No» disse Joe. «Non sono d'accordo.»
«Perché no?»
«Se vince Bobo restiamo con un servo di meno, se vince Hugh perdiamo sia lui sia Bobo. È uno spreco.»
«Va bene, se insisti.»
«Insisto. Ragazzo, vai a prendere il coltello.»
Hugh obbedì. Non gli era neanche venuto in mente di usare il coltello contro Joe-Jim. Il padrone era il padrone. Per un servo l'idea di attaccare il padrone non era sempli­cemente amorale, ma anche così delirante che non l'aveva assolutamente presa in considerazione.

Hugh si aspettava che Joe-Jim sarebbe rimasto impres­sionato dalla sua cultura di scienziato. Non andò affatto così. Joe-Jim, ma soprattutto Jim, amava discutere. In po­co tempo, prosciugò Hugh di tutto ciò che sapeva e poi, per così dire, lo mise da parte. Hoyland si sentì umiliato. Dopo tutto, non era forse uno scienziato? Uno dei pochi che sapevano leggere e scrivere?
«Smettila» gli disse Jim. «Leggere è facile. Sapevo farlo quando tuo padre non era ancora nato. Credi d'esse­re il primo scienziato che io abbia avuto al mio servizio? Gli scienziati... bah! Una manica di ignoranti!»
Per provare a ristabilire la sua credibilità intellettuale, Hugh espose le teorie dei giovani scienziati: il rigoroso at­taccamento ai fatti, lo spietato realismo che respingeva ogni interpretazione religiosa e accettava la Nave per quello che era. Si aspettava che Joe-Jim approvasse que­sto modo di vedere le cose, gli sembrava corrispondesse al suo temperamento.
Le due teste gli risero in faccia.
«Ma davvero» insistette Jim, quando smise di ridere «voi giovinastri siete così stupidi? In questo caso, siete anche peggio dei vostri vecchi!»
«Eppure, hai appena finito di dire» ribatté Hugh, ri­sentito «che le nostre convinzioni religiose sono solo fandonie! È proprio quello che pensano i miei amici. Lo­ro vogliono liberarsi di tutte quelle antiquate sciocchezze!»
Joe stava per dire qualche cosa, ma Jim lo interruppe: «Perché perdere tempo con lui? È un caso disperato.»
«Non sto perdendo tempo. Mi sto divertendo. È il pri­mo con cui parlo da non so quanto che non abbia assolu­tamente alcuna possibilità di vedere la verità. Lasciami fare... Voglio capire se quella che ha sulle spalle è una te­sta o semplicemente un posto dove appendere le orecchie.»
«E va bene, discutete pure» si rassegnò Jim «ma cercate di parlare piano. Ho voglia di farmi una dormitina.»
La testa di sinistra chiuse gli occhi e dopo qualche istante iniziò a russare. Joe e Hugh ripresero la loro di­scussione a voce bassa.
«Il guaio di voi giovani» disse Joe «è che se leggete una cosa e non vi risulta subito chiara, pensate che non possa essere vera. Con i vostri anziani, invece, il problema era che reinterpretavano qualsiasi cosa non capissero, at­tribuendole un significato diverso da quello che aveva, e poi credevano di averla capita. Nessuno di voi ha tentato di prendere le parole per come erano scritte e cercato di com­prendere il loro significato. Oh, no, siete tutti troppo intelli­genti per farlo, se non capite immediatamente una cosa, si­gnifica che non è così, che il suo significato è un altro.»
«Che vuoi dire?» chiese Hugh, sospettoso.
«Il Viaggio, per esempio. Che cosa significa per te?»
«Per me non significa niente, è solo una favoletta per tener buoni i contadini.»
«E ufficialmente qual è il suo significato?»
«Ecco... è il posto dove si va quando si muore o, per meglio dire, quello che si fa quando si muore: un Viaggio su Centauri.»
«E che cos'è Centauri?»
«Sarebbe... bada bene che io ti spiego le cose secondo la concezione ortodossa, io personalmente non credo a tutte queste stupidaggini... sarebbe la meta, il punto di ar­rivo del Viaggio, un luogo dove tutti sono felici e ci sono sempre lauti pasti.»
Joe scoppiò a ridere e Jim smise per un attimo di russa­re, aprì un occhio e si rimise a dormire con un grugnito.
«È esattamente quello che intendevo dire» riprese Joe, a voce bassa. «Voi non usate il cervello. Non ti è mai sorto il dubbio che il Viaggio potesse essere proprio quello che gli antichi libri dicevano che era... che la Nave e l'Equipaggio stiano veramente andando da qualche par­te, che si stiano muovendo?»
Hoyland ci pensò. «Non vorrai che ti prenda sul serio! Dal punto di vista fisico, questo non è possibile. La Nave non può andare in nessun posto. Essa è già in ogni luogo. Noi possiamo fare un viaggio al suo interno, ma il Viaggio deve avere per forza un significato spirituale, ammesso che ne abbia uno.»
Joe implorò l'aiuto di Jordan.
«Senti» disse. «Cerca di far entrare nella tua testa dura quello che sto per dirti. Immagina un luogo molto più grande della Nave, un luogo molto più grande con dentro la Nave, che si muove. Riesci a immaginarlo?»
Hugh tentò. Si sforzò in ogni modo. Alla fine scosse la testa.
«È assurdo» disse. «Niente può essere più grande della Nave. Non può esistere un luogo che la contenga.»
«Oh, per Jordan! Ascolta... fuori dalla Nave, capisci? Giù, oltre il livello più basso, in una direzione qualunque. Il vuoto là fuori. Mi capisci?»
«Ma non c'è niente sotto il livello più basso. Per que­sto è il livello più basso.»
«Senti, se prendi un coltello e scavi un buco nel pavi­mento del livello più basso, dove ti porta questo buco?»
«Ma non si può scavare un buco nel pavimento. È troppo duro.»
«Supponi di poterlo fare e di scavare un buco. Dove porterà questo buco? Prova a immaginarlo.»
Hugh chiuse gli occhi e provò a immaginare di scavare un buco nel pavimento dell'ultimo livello, come se il pavi­mento fosse molle, molle come il formaggio. Cominciò a intravedere qualche vaga possibilità, una possibilità che lo sconvolgeva, che gli scuoteva l'anima. Si sentì precipi­tare, sprofondare in un buco che lui stesso aveva scavato e sotto il quale non c'erano livelli. Aprì gli occhi immedia­tamente. «Ma è una cosa terribile!» esclamò. «Non posso crederci!»
Joe-Jim si alzò.
«Farò in modo che tu ci creda» disse, risoluto «a rischio di farti rompere l'osso del collo!»
Si diresse con passo deciso verso la porta e l'aprì. «Bobo!» urlò. «Bobo!»
La testa di Jim si alzò di scatto. «Cosa c'è? Che succede?»
«Stiamo per portare Hugh al non peso.»
«A quale scopo?»
«Per fargli entrare un po' di sale in zucca.»
«Un'altra volta.»
«No, ora!»
«Va bene, va bene. Non c'è bisogno di scaldarsi. Tan­to, ormai sono sveglio!»

Joe-Jim Gregory era tanto unico nella sua, o loro, capa­cità di usare il cervello quanto lo era nella sua struttura fi­sica. In qualunque circostanza sarebbe stato una perso­nalità dominante, tra i mutanti era inevitabile che egli li guidasse, li comandasse, si facesse servire.
Se fosse stato assetato di potere, probabilmente avreb­be potuto organizzare i mutanti per combattere e sopraf­fare l'Equipaggio propriamente detto.
Gli mancava, però, la pulsione a farlo. Era per tempe­ramento un intellettuale, uno spettatore, un osservatore. Lo interessavano il come e il perché delle cose, ma per soddisfare la sua volontà d'azione bastavano gli agi e le comodità.
Se fosse nato in due normali gemelli e in seno all'Equi­paggio, è quasi certo che Joe-Jim si sarebbe occupato di questioni scientifiche, come quella di trovare la più sem­plice e soddisfacente risposta al problema della vita, e avrebbe potuto trascorrere il suo tempo piacevolmente, conversando e dedicandosi all'amministrazione. Date le circostanze, non aveva mai avuto un compagno che fosse alla sua altezza dal punto di vista intellettuale e aveva tra­scorso tre generazioni a leggere e rileggere i libri che i suoi tirapiedi avevano rubato per lui.
Le due metà della sua duplice persona avevano analiz­zato e discusso quello che avevano letto, e quasi sempre erano arrivati a formulare una teoria abbastanza coeren­te della storia e del mondo fisico. L'unica eccezione era rappresentata dalla letteratura, il cui concetto era loro completamente estraneo: non facevano alcuna distinzio­ne tra i romanzi di cui la spedizione Jordan era stata for­nita, e i testi scientifici.
Questo li aveva portati a una significativa divergenza d'opinione. Jim considerava Allan Quatermain il più grande uomo mai vissuto, Joe preferiva John Henry.
Entrambi amavano pazzamente la poesia, sapevano a memoria pagine e pagine di Kipling ed erano quasi altret­tanto appassionati di Rhysling, "il cieco cantore delle rot­te spaziali".

Bobo entrò camminando all'indietro. Joe-Jim puntò il pollice verso Hugh.
«Senti» disse Joe «lui sta per uscire.»
«Ora?» chiese Bobo felice, e sorrise, con la bava alla bocca.
«Tu e il tuo stomaco!» rispose Joe, dando dei colpi con le nocche delle dita sulla zucca di Bobo. «No, non lo mangi. Tu e lui, fratelli di sangue. Hai capito?»
«No mangiare lui?»
«No. Batterti per lui. Lui si batte per te.»
«Capito.» La testa di legno si rassegnò all'inevitabile con un'alzata di spalle. «Fratelli di sangue. Bobo sa.»
«Bene. Ora noi saliamo verso il luogo dove tutti vola­no. Tu vai avanti di vedetta.»
Cominciarono ad arrampicarsi in fila indiana, con Bo­bo in testa a controllare la situazione. Hoyland lo seguiva e Joe-Jim chiudeva la fila, Joe guardava davanti, Jim tene­va d'occhio le spalle.
Salirono sempre più in alto, con il peso che, gradual­mente, li abbandonava a ogni nuovo ponte. Alla fine, rag­giunsero un livello oltre il quale non ci si poteva spingere, perché sul soffitto non c'erano aperture. Il ponte s'incurvava dolcemente, suggerendo che lo spazio in realtà aves­se la forma di un gigantesco cilindro, ma sopra di loro una lastra metallica con un'analoga curvatura oscurava la vista e non permetteva di vedere se il ponte fosse vera­mente ripiegato su se stesso.
Non c'erano vere e proprie paratie; grandi puntali, tan­to massicci da dare l'impressione di una forza eccessiva, non necessaria, si ergevano fitti intorno a loro, mettendo ancor più in risalto la distanza che separava il ponte dal soffitto.
Il peso era quasi scomparso. Se si rimaneva fermi il corpo si spostava delicatamente in giù, verso il "pavimen­to", ma "su" e "giù" erano termini del tutto privi di senso. A Hugh non piaceva; lo innervosiva. Bobo, invece, appa­rentemente ne traeva un grande godimento, sembrava abituato a quell'ambiente. Galleggiava nell'aria come un pesce nell'acqua, muovendosi a suo piacere fra i pilastri, le lastre del pavimento e il soffitto.
Joe-Jim seguì una direzione parallela all'asse comune del cilindro esterno e di quello interno, lungo un passag­gio tra due file di puntali. Lungo il passaggio erano dispo­sti dei corrimani, ed egli ne seguì uno come un ragno la sua tela. Procedeva a grande velocità, e Hugh gli stava dietro a fatica. Dopo un po' di tempo, capì che il trucco per muoversi facilmente, senza sforzo, era spingersi te­nendo le braccia all'indietro, procedendo per inerzia, fre­nati solo dall'aria, e dando ogni tanto dei colpetti al pavi­mento con le dita dei piedi o delle mani. Era decisamente troppo occupato per rendersi conto di quanta strada aves­sero percorso prima di fermarsi. Immaginò che avessero fatto chilometri, ma non poteva dirlo con certezza.
Si fermarono solo perché il passaggio era terminato. Una massiccia paratia, che si estendeva da sinistra a destra, sbarrava loro la strada. Joe-Jim prese a seguirla ver­so destra, alla ricerca di qualcosa.
Trovò quello che cercava: una porta a misura d'uomo, chiusa, la cui presenza era rivelata soltanto dalla lieve fes­sura che ne delineava il contorno e da un disegno geome­trico inciso sulla superficie. Joe-Jim studiò il disegno e si grattò la testa di destra. Le due teste bisbigliarono tra di loro. Joe-Jim alzò la mano con un gesto maldestro.
«No, no» disse Jim. Joe-Jim si bloccò. «Allora co­me?» replicò Joe. Confabularono nuovamente, Joe an­nuì e Joe-Jim sollevò un'altra volta la mano.
Seguì il disegno sulla porta senza toccarlo, muovendo l'indice nell'aria a una decina di centimetri dalla porta. L'ordine dei movimenti con cui spostava il dito lungo le li­nee del disegno appariva semplice, ma certamente non ovvio.
Quando ebbe finito, appoggiando il palmo della mano contro la paratia che aveva di fianco, si diede una spinta, tornò fluttuando alla porta e rimase in attesa.
Dopo un istante si sentì un soffio lieve, quasi impercet­tibile; la porta si scosse e si aprì verso l'interno di circa quindici centimetri, poi si fermò. Joe-Jim sembrò per­plesso. Infilò le dita nella fessura e tirò. Non successe niente. Ordinò a Bobo: «Apri!»
Bobo studiò la situazione, con un tale cipiglio che le rughe della fronte gli arrivavano quasi al cocuzzolo. Dopo di che, sistemò i piedi contro la paratia, e si tenne in equi­librio aggrappandosi con una mano alla porta. Poi afferrò con tutt'e due le mani lo spigolo della porta, trovò un soli­do appoggio per i piedi, piegò il corpo e fece forza.
Mentre tratteneva il fiato aveva il petto gonfio e la schie­na piegata, ed era ricoperto di sudore per lo sforzo. I tendi­ni che sporgevano sul collo facevano sembrare la sua testa una piramide deforme. Hugh poté sentire le giunture del nano scricchiolare. Non era difficile credere che si sarebbe ucciso per lo sforzo, era troppo stupido per rinunciare.
Ma improvvisamente l'intelaiatura metallica della por­ta cedette, con un fragore assordante. La porta, aprendosi di botto, era sfuggita dalle dita di Bobo che, venuto a mancargli il contrappeso, fu catapultato lontano dalla pa­ratia, precipitò lungo il passaggio, annaspando per cerca­re una presa. Dopo qualche istante, però, lo videro torna­re fluttuando goffamente nell'aria, mentre si massaggiava un polpaccio irrigidito da un crampo.
Joe-Jim entrò per primo, seguito a breve distanza da Hugh.
«Dove siamo?» chiese Hugh, spinto da una curiosità che ebbe il sopravvento sui suoi modi servili.
«Nella Centrale Comandi» rispose Joe.

La Centrale Comandi! Il luogo più sacro e inviolabile di tutta la Nave, la sua vera ubicazione era un mistero di­menticato! Secondo il credo dei giovani, essa non esiste­va. L'atteggiamento degli scienziati più anziani variava da un'accettazione dogmatica a una credenza mistica. Per quanto illuminato Hugh credesse di essere, il suono di quelle parole lo colmò di sacro terrore. La Centrale Co­mandi! Si diceva che lì vivesse lo spirito stesso di Jordan.
Si arrestò di colpo.
Joe-Jim si fermò a sua volta e Joe si voltò a guardarlo.
«Forza» disse. «Che cosa ti succede?»
«Ma... oh... oh...!»
«Avanti, parla!»
«Ma... questo luogo è proibito... appartiene a Jor­dan...»
«Oh, per l'amor di Jordan!» protestò Joe con pacata esasperazione. «Mi era sembrato di sentirti dire che a voi giovinastri non importava nulla di Jordan!»
«Sì, ma... ma questo è...»
«Piantala! Muoviti, se non vuoi che ti faccia trascina­re da Bobo.»
Joe-Jim si allontanò e Hugh lo seguì riluttante, con l'a­ria dell'uomo costretto a salire il patibolo.
S'inoltrarono per un passaggio abbastanza largo da per­mettere a due persone di procedere affiancate. Il passaggio formava un'ampia curva a novanta gradi, prima di aprirsi nella Centrale Comandi vera e propria. Hugh sbirciò da dietro le ampie spalle di Joe-Jim, impaurito ma curioso.
Vide una sala ben illuminata, immensa, larga non me­no di una settantina di metri. Era sferica, l'interno di un grande globo. La superficie del globo era liscia, di color argento. Nel centro geometrico di quella sfera, Hugh vide un blocco di apparecchi largo circa cinque metri. Al suo occhio inesperto quei macchinari erano del tutto incom­prensibili. Non avrebbe saputo descriverli, ma si accorse che galleggiavano immobili nell'aria, apparentemente senza nessun sostegno.
Dalla fine del passaggio alla massa che si trovava al centro del globo correva un tubo fatto di rete metallica, largo come il passaggio stesso, che rappresentava l'unica via d'uscita. Joe-Jim si voltò verso Bobo e gli ordinò di ri­manere nel passaggio, poi entrò nel tubo.
Si arrampicò aiutandosi con le mani, la rete faceva da scala. Hugh lo seguì, e spuntarono dentro la massa di macchinari che occupava il centro della sfera. Da vicino, il giovane poté osservare ogni singolo dettaglio dell'attrez­zatura della Centrale Comandi, ma questa per lui conti­nuava a non avere alcun senso. Spostò lo sguardo sulla superficie interna del globo che li circondava.
Fu un errore. La superficie interna del globo, liscia e di un color argento che abbagliava, non aveva niente che le desse prospettiva. Avrebbe potuto essere lontana decine o centinaia di metri oppure chilometri. Hugh non aveva mai visto un'altezza superiore a quella tra due ponti, né uno spazio vuoto più grande della zona comune del suo villaggio.
Fu colto dal panico, lo assalì un terrore folle, tanto più folle in quanto non sapeva che cosa temeva. Ma un'ango­scia atavica si impossessò di lui e una paura istintiva, pri­mordiale di precipitare nel vuoto gli raggelò il sangue.
Si aggrappò al blocco dei comandi, si strinse a Joe-Jim, che lo colpì violentemente sulla bocca con il palmo della mano.
«Si può sapere che cos'hai?» ringhiò Jim.
«Non lo so» riuscì a dire Hugh poco dopo. «Non lo so, ma non mi piace questo posto. Andiamo via di qua!»
Jim inarcò le sopracciglia e si girò verso Joe. Con un'a­ria disgustata gli disse: «Sarà meglio tornare. Questo bamboccio senza spina dorsale non capirà mai niente di quello che gli dirai.»
«Oh, vedrai che si abituerà» replicò Joe, chiudendo il discorso. «Hugh, arrampicati su uno di quei sedili... là, quello là.»
Intanto, lo sguardo di Hugh era caduto sul tubo attra­verso cui avevano raggiunto il cuore della Centrale Co­mandi e con gli occhi lo aveva ripercorso a ritroso. La sfe­ra, d'un tratto, gli apparve nelle sue dimensioni reali e così egli superò il momento peggiore di panico. Si atten­ne all'ordine, ancora tremante, ma in grado di obbedire.
La postazione di comando era costituita da un'intelaia­tura rigida nella quale erano inseriti sedili, o postazioni, per i vari operatori, con i relativi strumenti e indicatori montati in modo tale da trovarsi quasi sulle ginocchia de­gli operatori, affinché potessero essere tenuti sott'occhio senza ostacolare la visuale. I sedili erano dotati di alti braccioli, sui quali erano montati gli appositi dispositivi di controllo per ciascun ufficiale di guardia; ma di tutto questo Hugh non s'era ancora potuto rendere conto.
Scivolando sotto il quadro degli strumenti, raggiunse un sedile e vi si abbandonò, lieto della sua avvolgente sta­bilità. Un poggiapiedi e un poggiatesta gli permisero di si­stemarsi in posizione semi-inclinata.
Qualcosa, però, stava accadendo, sul pannello di fron­te a Joe-Jim. Hugh se ne accorse con la coda dell'occhio e si girò a guardare. Quasi in cima al quadro brillavano lettere d'un rosso vivace: "Secondo Navigatore Spaziale ai comandi". Che cosa voleva dire Secondo Navigatore Spaziale? Non lo sapeva, ma poi notò che all'estremità superiore del suo pannello c'era la scritta "Secondo Na­vigatore Spaziale", e concluse che doveva essere proprio lui, o meglio l'uomo che avrebbe dovuto trovarsi in quel posto. Per un istante si sentì a disagio, pensando che il vero Secondo Navigatore Spaziale sarebbe potuto arri­vare e trovare Joe-Jim a occupare illegittimamente il suo posto, ma se lo tolse subito dalla mente, sembrava im­probabile.
A ogni modo, chi era il Secondo Navigatore Spaziale?
Le lettere svanirono dal quadro di Joe-Jim, un punto rosso si accese sul bordo e vi rimase. Joe-Jim fece un ge­sto con la mano destra e sul quadro apparve la scritta: "Accelerazione, zero". Poi: "Motori centrali". Le ultime due lampeggiarono diverse volte, prima di essere sostitui­te da "Nessun segnale". Queste parole svanirono e un punto verde luminoso apparve vicino al margine destro del quadro.
«Attenzione» disse Joe, guardando Hugh «la luce sta per spegnersi.»
«Non vorrai spegnere la luce?» protestò Hoyland.
«Non io, tu. Da' un'occhiata al bracciolo sinistro del tuo sedile. Vedi quelle piccole luci bianche?»
Hugh guardò e, attraverso il rivestimento del bracciolo, vide otto puntini luminosi disposti in due quadrati, uno sopra l'altro.
«Ognuna controlla la luce di un quadrante» spiegò Joe. «Se le copri con la mano la luce si spegne. Avanti, provaci.»
Riluttante, ma affascinato, Hugh fece quanto gli era stato ordinato. Mise la mano sulle minuscole luci, e aspet­tò. La sfera argentea si fece di un cupo color piombo, poi la luce si affievolì ulteriormente, lasciandoli nel buio completo, a eccezione del leggero chiarore che proveniva dai pannelli degli strumenti. Hoyland si sentiva nervoso e nello stesso tempo euforico. Ritrasse la mano, ma la sfera rimase buia, mentre gli otto punti luminosi erano diven­tati blu.
«Ora» disse Joe «ti mostrerò le stelle!»
Nelle tenebre, la mano destra di Joe-Jim passò sopra un altro quadrante con otto luci.

Il creato.
Fedelmente riprodotte, splendenti, immobili e limpide sulle pareti dello stellano come lo erano quelle originali nelle oscure profondità dello spazio, le stelle lo stavano a guardare. Gioielli di luce a profusione, sparsi con magni­fica indifferenza e principesco sfarzo nel simulacro del cielo, gli infiniti soli si stendevano dinanzi a lui... sopra di lui, dietro di lui, tutt'intorno a lui. Era solo, sospeso nel centro dell'universo stellare.
«Oooooh!» L'esclamazione gli uscì involontaria dal­le labbra socchiuse, ove il respiro era rimasto sospeso. Stringeva i braccioli con tale forza da spezzarsi le unghie, ma non se ne accorse. Né in quel momento aveva paura: nel suo essere c'era posto per una sola emozione. La vita sulla Nave, a volte dura e a volte monotona, non aveva scalfito la sua innata capacità di apprezzare la bellezza; per la prima volta in vita sua conosceva l'intollerabile estasi della pura bellezza. Lo sconvolgeva e lo feriva, co­me la prima trepida rivelazione del sesso.
Dovette passare un po' di tempo prima che Hugh si ri­prendesse abbastanza dallo shock e dall'intensa preoccu­pazione che lo aveva seguito per accorgersi del riso sardo­nico di Jim e del sogghigno ironico di Joe.
«Hai visto abbastanza?» chiese Joe. Senza aspettare una risposta, Joe-Jim riaccese le luci, usando i comandi sul bracciolo sinistro della sua poltrona.
Hugh sospirò. Sentiva un dolore al petto e il cuore gli batteva forte. Si accorse improvvisamente che aveva trat­tenuto il respiro per tutto il tempo in cui le luci erano sta­te spente.
«E ora, caro il mio scienziato» domando Jim «sei convinto?»
Hugh sospirò ancora, senza sapere perché. Con le luci accese, si sentiva di nuovo sicuro e protetto, ma nel suo animo sentiva di avere subito una grave perdita. Incon­sciamente sapeva che, avendo visto le stelle, non avrebbe più potuto essere felice.
La sorda pena che sentiva nel cuore, la vaga nostalgia profondamente sepolta nel suo essere per la perduta ere­dità di spazi senza fine e stelle, non si sarebbe più sopita, anche se sapeva ancora troppo poco per esserne del tutto cosciente.
«Che cos'era?» chiese con voce sommessa.
«Era tutto» rispose Joe. «Era il mondo, l'universo. Tutto ciò che ho cercato di farti capire.»
Hugh, furioso, si sforzò di costringere il suo cervello inesperto a comprendere.
«Era quello che tu chiamavi l'esterno?» domandò. «Tutte quelle meravigliose piccole luci?»
«Certo» disse Joe «soltanto che non sono picco­le. Sono molto lontane, capisci, forse migliaia di chilo­metri.»
«Migliaia di chilometri?»
«Ma sì, certo» insistette Joe. «C'è un'enorme quan­tità di spazio, fuori di qua. Lo spazio. È immenso. Chissà, forse qualcuna di quelle stelle può essere grande come la Nave... forse più grande ancora.»
La faccia di Hugh Hoyland era straziata dall'eccessivo sforzo di immaginazione.
«Più grandi della Nave?» ripeté. «Ma... ma...»
Jim scosse la testa con impazienza e disse a Joe: «Che cosa t'avevo detto? Perdi il nostro tempo con questo zuc­cone. Non ha la minima capacità...»
«Non esagerare, Jim» disse Joe. «Non puoi preten­dere che impari a correre prima di aver imparato a stri­sciare. Anche noi abbiamo avuto bisogno di molto tempo. Mi sembra di ricordare che tu facevi un po' fatica a crede­re ai tuoi stessi occhi.»
«Non è vero» disse Jim in tono brusco. «Eri tu quello che non ci voleva credere.»
«Va bene, va bene» concedette Joe. «Sarà come di­ci tu. Ma c'è voluto molto tempo prima che tu e io impa­rassimo a vedere come stanno realmente le cose.»
Hoyland badava poco alla discussione tra i due fratelli. Le loro dispute rientravano nella norma, mentre la sua attenzione era concentrata su questioni decisamente fuori dalla norma.
«Joe» chiese a un tratto «che cosa è accaduto alla Nave quando abbiamo visto le stelle? Vedevamo forse at­traverso di essa?»
«Non esattamente» rispose Joe «non vedevi le stel­le direttamente, ma una specie di quadro che le rappre­sentava. È come... insomma, è un effetto che si ottiene tramite degli specchi, o qualcosa del genere. Ho un libro che lo spiega.»
«Ma puoi anche vederle direttamente» disse Jim, di­mentico ormai della sua arrabbiatura. «C'è un compar­timento più avanti...»
«Sì» confermò Joe «mi era sfuggito di mente, è la Veranda del Capitano. Ha un'intera parete di vetro, attra­verso la quale si può guardare fuori.»
«La Veranda del Capitano? Ma...»
«No, non si tratta dell'attuale Capitano. Lui non si è mai spinto da queste parti. Ma così è scritto sulla porta.»
«Che cos'è una veranda?»
«E chi lo sa. È solo il nome di quel luogo.»
«Vuoi condurmi fin là?»
Joe stava per acconsentire, ma Jim s'intromise: «Un'al­tra volta. Adesso voglio tornare giù... Ho fame.»
Ripercorsero il tubo, svegliarono Bobo e iniziarono la lunga discesa del ritorno.

Passò molto tempo prima che Hugh riuscisse a convin­cere Joe-Jim a condurlo di nuovo in esplorazione, ma quel periodo di tempo fu bene impiegato. Joe-Jim lo la­sciò libero di leggere la più vasta collezione di libri che Hugh avesse mai visto. Alcuni erano testi che Hugh cono­sceva già, ma, rileggendoli adesso, poté trovarvi un senso del tutto nuovo. Leggeva senza posa, affrontando di conti­nuo nuovi concetti, spesso lottando con essi, talora re­standone sopraffatto, ma altre volte riuscendo, sia pure a fatica, ad assimilarli. Trascurava il sonno, dimenticava di mangiare, fino a quando respirare gli diventava doloroso e acuti crampi alla cintola lo costringevano a occuparsi del suo corpo. Saziata la fame, tornava alle letture, finché la testa gli doleva e gli occhi si rifiutavano di mettere a fuoco.
Le esigenze di Joe-Jim erano poche. Sebbene Hugh fos­se in servizio a tempo pieno, a Joe-Jim non dava fastidio il fatto che lui leggesse, purché restasse a portata di voce, pronto ad accorrere appena chiamato. Giocare a scacchi con una delle due teste, quando l'altra non ne aveva vo­glia, era il servizio che gli portava via più tempo. Anche questo, però, non era tempo del tutto perso, perché, quando l'avversario era Joe, riusciva quasi sempre a por­tare la discussione sulla Nave, la sua storia, i suoi motori e i suoi strumenti, su chi l'aveva costruita e munita di un equipaggio per la prima volta, sulla storia di quelle perso­ne, là, sulla Terra, quell'incredibile, inimmaginabile luo­go, dove esseri umani avevano vissuto esternamente anzi­ché internamente.
Hugh si chiedeva perché non volassero via.
Affrontò la questione con Joe e alla fine acquisì alcune nozioni sulla forza di gravità. Da un punto di vista emoti­vo, non riuscì mai ad accettare veramente l'idea della gra­vitazione — era troppo inverosimile perché potesse creder­ci — ma, da un punto di vista intellettuale, se ne convinse e, molto tempo dopo, utilizzò il concetto nei suoi primi incerti tentativi di avvicinarsi alla scienza della balistica e all'arte della navigazione spaziale, oltre che per cercare di capire come si manovrava una nave. Inoltre, il tempo lo portò a interrogarsi sulla questione del peso nella Nave, un argomento che fino ad allora non gli aveva mai creato alcun problema. Il fatto che scendendo di livello il peso aumentasse, per lui, rientrava nell'ordine delle cose, e non si era mai interrogato al riguardo. Sapeva che la fion­da funzionava grazie alla forza centrifuga, ma non riusci­va assolutamente a figurarsi come facesse l'intera Nave ad avere un'analoga rotazione, né che cosa la rotazione avesse a che fare con il peso. Non credette mai veramente che la rotazione potesse generare il peso.
Joe-Jim lo condusse un'altra volta alla Centrale Co­mandi, e gli mostrò quel poco che sapeva sul funziona­mento dei comandi e sulla lettura degli strumenti di navi­gazione spaziale.
Gli ingegneri assoldati dalla Fondazione Jordan, di cui da lungo tempo si era persa la memoria, avevano ricevuto l'ordine di progettare una nave che, se anche il viaggio si fosse protratto oltre i sei anni previsti, non si sarebbe lo­gorata. Ed essi l'avevano costruita meglio di quanto cre­dessero. Nel progettare i motori principali e le macchine ausiliarie, quasi tutte automatizzate, che avrebbero reso la Nave abitabile, e nell'ideare i comandi necessari a ma­novrare le macchine non completamente automatizzate, l'idea stessa di pezzo in movimento era stata abolita. Mo­tori e macchine ausiliarie lavoravano su un piano diverso da quello meccanico, su un piano di forza pura, come i trasformatori elettrici. Invece di pulsanti, leve, manopole, pulegge e alberi motore, i comandi e le macchine che questi dirigevano erano stati concepiti in termini di equi­librio tra campi statici, valvole elettroniche, circuiti aperti e chiusi da una mano posta sopra una sorgente luminosa. Con questo sistema, l'attrito e l'usura avevano perso signi­ficato; il tempo non sortiva alcun effetto. Se anche tutto l'equipaggio fosse rimasto ucciso in un ammutinamento, la Nave avrebbe continuato il suo viaggio nello spazio, sa­rebbe rimasta illuminata, con l'aria sempre fresca e al giusto grado di umidità, i motori pronti, in attesa di esse­re messi in funzione. E così era stato. Anche se ascensori e nastri trasportatori avevano finito per guastarsi, erano caduti in disuso e la loro stessa funzione era stata dimen­ticata, i macchinari essenziali della Nave avevano conti­nuato automaticamente a servire l'ignaro carico umano, oppure, forse, aspettavano, pronti e in silenzio, qualcuno sufficientemente intelligente da scoprirne il mistero.
La costruzione della Nave era stata opera di menti ve­ramente geniali. Assolutamente troppo grande per essere assemblata sulla Terra, era stata montata pezzo per pezzo in orbita, oltre la Luna. Poi, aveva continuato a girare per quindici silenziosi anni, mentre si formulavano e si risol­vevano i problemi nati dalla decisione di dotarla di mac­chine che non temevano né il tempo né la stupidità uma­na. Nel corso di questo processo, era stato scoperto un intero campo d'azione submolare, affrontando e risolven­do i problemi a esso connessi.
Così, quando Hugh posò una mano ignorante e curiosa sulla prima spia luminosa di una fila contraddistinta dal­l'indicazione "Accelerazione positiva", ebbe una risposta immediata, anche se non in termini di accelerazione. Una luce rossa si mise a lampeggiare sul quadro del primo pi­lota e sul pannello di controllo s'accese la scritta "Motori centrali non in funzione".
«Che cosa significa?» chiese a Joe-Jim.
«Non c'è modo di saperlo» rispose Jim. «Abbiamo fatto la stessa cosa nel salone dei motori centrali» ag­giunse Joe. «Là, quando provi, appare la scritta "Centra­le Comandi non in funzione".»
Hugh rifletté un istante.
«Che cosa accadrebbe» continuò «se in tutte le po­stazioni di comando, nello stesso momento, ci fosse qual­cuno e io facessi quello che ho fatto adesso?»
«Non te lo so dire» rispose Joe. «Non ho mai potu­to sperimentarlo.»
Hugh non disse altro. Un'idea cresciuta nella sua men­te senza una forma precisa si stava ora concretizzando in una decisione. Era assorto in questo pensiero.

Prima di esporre a Joe-Jim la sua idea, Hugh aspettò che entrambe le teste fossero di buon umore. Si trovava­no nella Veranda del Capitano, quando Hoyland decise che era giunto il momento opportuno. Joe-Jim si stava ri­lassando sulla poltrona del Capitano, con lo stomaco pie­no, e attraverso lo spesso cristallo della vetrata fissava le stelle limpide. Hugh fluttuò al suo fianco. A causa della rotazione della Nave, le stelle sembravano muoversi in circoli maestosi.
«Joe-Jim» disse Hugh dopo qualche istante.
«Eh? Che c'è, ragazzo?» rispose Joe.
«È molto bello, vero?»
«Che cosa?»
«Tutto questo... le stelle.»
Con un ampio movimento della mano, Hugh indicò il cosmo oltre la vetrata, e dovette aggrapparsi al sedile per non rovesciarsi all'indietro.
«Sì, certo che lo è. Dà una sensazione di benessere.»
Stranamente, fu Jim a pronunciare queste parole.
Hugh capì che era arrivato il momento. Aspettò un istante, poi disse: «Perché non terminiamo noi l'impresa?»
Le due teste si girarono contemporaneamente, Joe spor­gendosi un po' per vedere oltre Jim: «Quale impresa?»
«Il Viaggio. Perché non avviamo i motori centrali e ci rimettiamo in navigazione? Da qualche parte là fuori» disse velocemente, prima di essere interrotto «esistono pianeti come la Terra... o almeno così credeva il Primo Equipaggio. Troviamoli noi, questi pianeti.»
Jim lo guardò e scoppiò a ridere, Joe scosse la testa.
«Ragazzo» disse serio «tu non sai quello che dici. Sei più tonto di Bobo. No» proseguì «è un capitolo chiuso. Non ci pensare più.»
«Perché un capitolo chiuso, Joe?»
«Perché... è un'impresa troppo grande. Ci vorrebbe un Equipaggio che sapesse quello che fa, addestrato a manovrare la Nave.»
«Credi che ci sarebbe bisogno di tutto questo? Da quanto ho visto, le postazioni di comando, in realtà, sono una dozzina in tutto. Non pensi che una dozzina di uomi­ni potrebbe manovrare la Nave... se avesse le tue cono­scenze?» aggiunse con furbizia.
Jim ridacchiò: «Te l'ha fatta, Joe. Ha ragione.»
Joe lo ignorò.
«Tu sopravvaluti le nostre conoscenze. Forse potremmo far funzionare la Nave, ma non arriveremmo da nessuna parte. Non sappiamo dove ci troviamo. La Nave sta andan­do alla deriva da non so quante generazioni. Non sappiamo dove siamo diretti né a quale velocità ci muoviamo.
«Ma, ascoltami» implorò Hugh «ci sono gli stru­menti, me li hai mostrati tu. Non potremmo imparare a usarli? Non saresti in grado di scoprire come funzionano, Jim, se veramente lo volessi?»
«Credo di sì» affermò Jim.
«Non darti delle arie» lo ammonì Joe.
«Non mi sto dando delle arie» sbuffò Jim. «Se una cosa non è rotta, io riesco a farla funzionare.»
«Bum!» fece Joe.
La situazione era delicata. Hugh li aveva messi l'uno contro l'altro — esattamente quel che voleva — e il meno ar­rendevole dei due era dalla sua parte. Ora, per trarne pro­fitto...
«Ho avuto un'idea, Jim» disse pronto «per procu­rarti gli uomini che lavorerebbero ai tuoi ordini, se tu fos­si in grado di addestrarli...»
«Quale sarebbe l'idea?» domandò Jim, sospettoso.
«Ascolta, ricordi quello che ti dissi su un gruppo di giovani scienziati...»
«Oh, quella massa d'idioti!»
«Sì, d'accordo... ma loro non sanno tutte le cose che voi avete scoperto. A modo loro, cercavano di essere ra­gionevoli. Se io potessi scendere da loro e informarli di quello che mi avete insegnato, potrei procurarvi gli uomi­ni che vi servono.»
Joe intervenne: «Guardaci bene, Hugh. Che cosa vedi?»
«Ma... vedo te, Joe-Jim.»
«Tu vedi un mutante» lo corresse Joe, con la voce piena di sarcasmo. «Noi siamo un mutante. Lo capisci? I tuoi giovani scienziati non lavoreranno mai con noi!»
«No, no» protestò Hugh. «Non è vero. Non sto parlando di contadini. I contadini non capirebbero, ma loro sono scienziati, si tratta degli uomini più brillanti dell'Equipaggio. Capiranno. Tutto quello che dovete fare è provvedere affinché possano attraversare incolumi la re­gione dei mutanti. Voi lo potete fare, vero?» aggiunse, portando istintivamente la discussione su un terreno più concreto.
«Certo» disse Jim.
«Scordatelo!» esclamò Joe.
«E va bene, come vuoi tu» si rassegnò Hugh, avvertendo che la sua ostinazione stava seriamente irritando Joe. «Ma sarebbe stato davvero entusiasmante...»
Si allontanò un po' dai fratelli. Sentì che Joe-Jim conti­nuava la discussione con se stesso a bassa voce. Finse d'i­gnorarli. Joe-Jim, data la sua duplice natura, aveva que­sto difetto sostanziale: essendo un comitato più che un singolo individuo, non era un uomo d'azione, in quanto tutte le sue decisioni erano frutto di discussioni e com­promessi.
Parecchio tempo dopo, Hugh sentì Joe che diceva a vo­ce alta: «E va bene, va bene, facciamo come vuoi tu!» E poi urlò: «Hugh! Vieni qua!»
Hugh si diede una spinta puntando i piedi contro una paratia che aveva di fianco e schizzò come un proiettile vicino a Joe-Jim, tanto che per frenarsi dovette afferrare con entrambe le mani la poltrona del Capitano.
«Abbiamo deciso» annunciò Joe, senza preliminari «di lasciarti tornare giù, nella zona dell'alto peso, a ven­dere la tua idea. Ma secondo me sei proprio matto» ag­giunse in tono acido.

Bobo scortò Hugh Hoyland attraverso i pericolosi livel­li popolati dai mutanti e lo lasciò in una zona disabitata, sopra l'alto peso.
«Grazie, Bobo» disse Hugh, allontanandosi. «Lau­to pasto!»
Il nano sorrise, abbassò la testa e scappò via, arrampi­candosi sulla scala da cui erano appena discesi.
Hugh si voltò e ricominciò la discesa, toccando il suo coltello. Faceva piacere sentirselo di nuovo contro il cor­po, anche se non era il suo coltello d'un tempo. Quello era stato il premio di Bobo per averlo catturato e il nano non aveva avuto modo di renderglielo, dato che lo aveva inavvertitamente lasciato conficcato nel corpo di un grosso mutante in fuga. Ma il coltello che Joe-Jim gli aveva rega­lato per sostituire quello perduto era ben bilanciato e piuttosto soddisfacente.
Bobo lo aveva condotto, su richiesta di Hugh e per ordi­ne di Joe-Jim, nella zona che si trovava esattamente sopra il Convertitore ausiliario usato dagli scienziati. Hugh vole­va trovare Bill Ertz, l'assistente dell'Ingegnere Capo e lea­der del gruppo degli scienziati più giovani, e non voleva ri­spondere a troppe domande prima di averlo raggiunto.
Si calò rapidamente attraverso gli ultimi livelli rimasti e si trovò in un passaggio principale che riconobbe. Bene! Una svolta a sinistra, una marcia di duecento metri e si trovò alla porta del compartimento che ospitava il Con­vertitore.
Un uomo dall'aria indolente stava di guardia di fronte a esso. Hugh procedette oltre, ma fu fermato.
«Ehi, tu, dove credi di andare?»
«Sto cercando Bill Ertz.»
«Vuoi dire l'Ingegnere Capo? Non è qui.»
«Capo? E l'altro che fine ha fatto?» chiese Hugh. Si pentì subito della domanda, ma ormai era troppo tardi.
«Il vecchio Ingegnere Capo? Oh, quello ha fatto il Viaggio già da un pezzo.» La sentinella lo guardò con sospetto. «Che cos'hai?»
«Niente» rispose Hugh «solo un lapsus...»
«Uno strano lapsus. L'Ingegnere Capo dev'essere nel suo ufficio, comunque.»
«Grazie. Lauto pasto!»
«Lauto pasto a te.»
Hugh fu ammesso alla presenza di Ertz dopo una breve attesa. Questi levò gli occhi dalla scrivania nell'istante in cui Hoyland entrava.
«Bene» disse «così sei tornato, e non sei morto, a quanto vedo. Questa sì che è una sorpresa. Sei stato iscritto nel registro dei decessi, come se avessi fatto il Viaggio.»
«Sì, lo immaginavo.»
«Siediti e raccontami... Non ho molto tempo da per­dere al momento. Sai che non ti avrei riconosciuto? Sei molto cambiato, tutti quei capelli grigi. Dev'essere stata dura per te...»
Capelli grigi? I suoi capelli erano grigi? Anche Ertz era cambiato parecchio, si rese conto Hugh. Aveva messo su pancia e il suo volto era coperto di rughe. Jordan! Ma quanto tempo era stato via?
Ertz tamburellò con le dita sulla scrivania e storse le labbra.
«È un problema... questo tuo improvviso ritorno. Te­mo di non poterti assegnare il tuo vecchio incarico, ades­so lo svolge Mort Tyler. Ma ti troveremo un posto adatto al tuo rango.»
Hugh si ricordava di Mort Tyler, e non troppo favore­volmente. Un giovane affettato, sempre attento a fare ciò che si conveniva ed era conforme alle regole. Dunque, Ty­ler si era effettivamente dato alla scienza e aveva preso l'antico posto di Hugh al Convertitore! Ormai non aveva importanza.
«Non preoccuparti per me» disse a Ertz. «Quello che mi premeva era parlarti...»
«Certo, c'è il problema dell'anzianità di servizio...» lo interruppe Ertz. «Forse il Consiglio dovrebbe consi­derare la questione. Non mi risulta che esistano prece­denti a cui attenersi. Abbiamo perso molti scienziati a causa dei mutanti in passato, ma tu sei il primo, a quanto ricordo, che sia riuscito a salvarsi.»
«Non importa» s'intromise Hugh. «Ci sono cose molto più urgenti di cui vorrei parlarti. Durante la mia as­senza ho avuto modo di scoprire alcune cose straordina­rie, Bill, cose che devi assolutamente sapere. Ecco perché sono venuto dritto da te. Senti, io...»
Ertz improvvisamente si fece attento.
«Lo credo bene, Hugh! Si vede proprio che sto invec­chiando! Devi avere avuto una fantastica occasione di studiare i mutanti ed esplorare il loro territorio. Su, rac­conta! Fammi il tuo resoconto!»
Hugh s'inumidì le labbra.
«Non si tratta di quello che credi» cominciò. «È infinitamente più importante di un semplice resoconto sui mutanti, sebbene li riguardi. Infatti, vedi, noi dovre­mo cambiare tutta la nostra posizione nei riguardi dei mutanti, capisci?»
«Continua, ti ascolto.»
«Bene.»
E Hoyland gli fece un racconto particolareggiato delle sue straordinarie scoperte sulla vera natura della Nave, scegliendo con cura le parole e sforzandosi di risultare convincente. Si soffermò molto brevemente sulle diffi­coltà che il tentativo di riorganizzare la Nave in relazione alle nuove scoperte avrebbe presentato, e insistette a lun­go sul prestigio e l'onore che ne sarebbero venuti all'uo­mo che avesse guidato l'impresa.
Parlando, non perdeva d'occhio l'espressione del volto di Ertz. Dopo l'iniziale sorpresa, quando Hugh aveva rive­lato la scoperta più importante, cioè che la Nave in realtà era un corpo che si muoveva in un grande spazio esterno a essa, la sua faccia era diventata impassibile e Hugh non era più riuscito a leggervi niente, tranne che sembrò rive­lare un maggiore interesse quando Hugh parlò di come Ertz fosse l'uomo più adatto al compito, per l'ascendente di cui godeva presso il gruppo degli scienziati più giovani e progressisti.
Quand'ebbe concluso, Hoyland aspettò la risposta di Ertz. All'inizio, questi non disse niente, continuò sempli­cemente con quella sua fastidiosa abitudine di tamburel­lare con le dita sul tavolo. Infine, parlò: «Queste sono cose importanti, Hoyland, terribilmente importanti, e non le si può affrontare alla leggera. Mi occorre tempo per pensarci con calma.»
«Sì, certo» convenne Hugh. «Volevo solo aggiun­gere che ho preso accordi per salire senza pericolo al non peso. Posso guidarti io, lassù, e farti vedere coi tuoi occhi come stanno le cose.»
«Sono sicuro che sia la cosa migliore da fare» rispo­se Ertz. «Bene... hai fame?»
«No.»
«Allora ci dormiremo sopra entrambi. Puoi usare il compartimento sul retro del mio ufficio. Non voglio che tu parli di questo con nessun altro, fino a quando non avrò studiato bene il problema. Rivelazioni così impor­tanti potrebbero causare disordini, se trapelassero senza un'adeguata preparazione...»
«Sì, hai ragione.»
«Benissimo, dunque...» Ertz lo guidò in un compar­timento dietro il suo ufficio che egli con tutta evidenza utilizzava come sala d'aspetto. «Buon riposo» gli disse «e a più tardi.»
«Grazie» rispose Hugh. «Lauto pasto.»
«Lauto pasto.»
Rimasto solo, Hugh sentì l'eccitazione affievolirsi a po­co a poco e si accorse di essere stanchissimo e molto as­sonnato. Si sdraiò sul divano e si addormentò.
Quando si svegliò, scoprì che la porta della cabina era stata chiusa a chiave dall'esterno e, peggio ancora, che il suo coltello era scomparso.
Dopo una lunga attesa, sentì armeggiare all'uscio.
La porta si aprì e sulla soglia comparvero due uomini robusti, con la faccia impassibile.
«Vieni con noi» disse uno di loro.
Hoyland li esaminò, notando che nessuno di loro aveva un coltello. Nessuna probabilità, quindi, di sottraine uno dalla loro cintura. Gli rimaneva la speranza, d'altra parte, di riuscire a fuggire.
Ma, alle loro spalle, a prudente distanza nel comparti­mento esterno, vide altri due uomini altrettanto atletici, ciascuno armato d'un coltello. Uno bilanciava l'arma, pronto a tirarla, l'altro ne impugnava il manico, pronto per un eventuale corpo a corpo.
Si rese conto di essere in trappola. Ogni sua possibile mossa era stata prevista.
Da molto tempo aveva imparato a rimanere calmo davanti all'inevitabile. Assunse un'espressione tranquil­la e uscì senza fretta dalla stanza. Ertz lo stava aspet­tando, chiaramente al comando del gruppo di uomini. Hugh si rivolse a lui, stando attento a parlare con voce calma: «Ciao, Bill. Vedo che hai pensato proprio a tut­to. C'è forse qualche problema?»
Ertz sembrò incerto su quello che doveva dire, poi ri­spose: «Devi presentarti al Capitano.»
«Bene!» disse Hugh. «Grazie, Bill. Ma credi che sia prudente cercare di convincere lui senza aver prima sondato le opinioni degli altri?»
Ertz fu seccato da tanta ottusità e non glielo nascose: «Tu non hai capito la situazione!» ringhiò. «Ti devi presentare al Capitano per essere processato... per eresia.»
Hugh meditò su queste parole, come se l'idea non lo avesse ancora sfiorato. Poi osservò con calma: «Sei sce­so nel passaggio sbagliato, Bill. Forse un'accusa e un pro­cesso sono la via migliore per raggiungere lo scopo, ma non sono un contadino, che si possa portare a calci dal Capitano. Io devo essere processato dal Consiglio. Sono uno scienziato.»
«Anche ora?» disse Ertz gentilmente. «Mi sono informato e ho saputo che sei stato cancellato dalle liste. Spetta al Capitano decidere che cosa sei.»
Hugh non rispose. Tutto era contro di lui, lo sapeva, e non avrebbe avuto niente da guadagnare a inimicarsi Ertz. L'Ingegnere Capo fece un segnale e i due uomini di­sarmati afferrarono Hugh per le braccia. Egli li seguì sen­za opporre resistenza.

Hugh guardò con interesse il Capitano. Il vecchio non era cambiato molto... un po' più grasso, forse.
Il Capitano si sistemò comodamente nella poltrona e prese il memorandum che aveva davanti a sé.
«Che cosa significa tutto ciò?» esordì con tono irri­tato. «Non capisco.»
C'era Mort Tyler a sostenere l'accusa contro Hoyland, una circostanza che Hugh non aveva potuto prevedere e che accentuò le sue apprensioni. Frugò tra i ricordi d'in­fanzia alla ricerca di qualche appiglio per guadagnarsi la simpatia dell'uomo, ma non ne trovò.
Tyler si schiarì la voce e cominciò: «È il processo di un certo Hugh Hoyland, Capitano, un tempo uno dei vo­stri giovani scienziati...»
«Uno scienziato? E allora, perché non se ne occupa il Consiglio?»
«Perché non è più uno scienziato, Capitano. È passato ai mutanti e ora è tornato fra noi a predicare l'eresia e a cercare di minare la vostra autorità.»
Il Capitano guardò Hugh con la pronta ostilità dell'uo­mo geloso delle proprie prerogative.
«Ah, è così?» urlò rabbiosamente. «Che cos'hai da dire in tua difesa?»
«L'accusa è completamente infondata, Capitano» ri­spose Hugh. «Tutto quello che ho detto è la conferma della verità assoluta della nostra antica sapienza. Non ho messo in dubbio le verità che regolano la nostra vita, le ho semplicemente affermate con maggior forza di quanto siamo soliti fare. Io...»
«Io continuo a non capire» lo interruppe il Capita­no, scuotendo la testa. «Sei accusato di eresia, e nello stesso tempo sostieni di credere ai Dogmi. Se non sei col­pevole si può sapere perché sei qui?»
«Forse posso chiarire io le cose» intervenne Ertz. «Hoyland...»
«Speriamo» sospirò il Capitano. «Su, avanti... Sen­tiamo che cosa hai da dire.»
Ertz fornì una versione abbastanza esatta, sebbene ten­denziosa, del ritorno di Hoyland e della sua strana storia. Il Capitano stette ad ascoltare con un'espressione che va­riava dalla perplessità alla noia.
Quando Ertz ebbe concluso, il Capitano si volse ancora a guardare Hugh: «Mah!» disse.
Hugh replicò immediatamente.
«In sostanza, Capitano, io sostengo che su, nel non peso, c'è un luogo dove si può realmente vedere che la Na­ve si muove! Dove si può realmente vedere il Disegno di Jordan in azione! Questo non significa rinnegare la fede, ma affermarla. Non c'è bisogno che vi fidiate della mia parola. Jordan stesso dimostrerà che dico la verità.»
Notando che il Capitano sembrava indeciso, Tyler in­tervenne. «Capitano, c'è una possibile spiegazione a questa incredibile situazione, una spiegazione che sento il dovere di farvi conoscere. Ci sono due interpretazioni ovvie della ridicola storia di Hoyland: o egli è semplice­mente colpevole di estrema eresia o dentro di sé è un mu­tante che ha escogitato un piano per consegnarvi nelle mani dei suoi compagni. Ma c'è anche una terza, più cari­tatevole, spiegazione, quella che in cuor mio sento essere vera. È registrato negli archivi che Hoyland rischiò di es­sere affidato al Convertitore dopo la visita di controllo che gli fu fatta alla nascita, ma la sua imperfezione fisica, la testa troppo grossa, era minima, e venne risparmiato. Ritengo che le terribili esperienze da lui subite quando era nelle mani dei mutanti possano avere alla fine avuto ragione di una mente già scossa. Il poveretto, semplice­mente, non è responsabile delle sue azioni.»
Hugh guardò Tyler con un nuovo rispetto. Assolverlo d'ogni colpa e nello stesso tempo assicurarsi che facesse il Viaggio... Che abilità!
Il Capitano fece un cenno con la mano.
«Basta, questa conversazione è durata anche troppo!» Poi, rivolgendosi a Ertz: «Che cosa suggerisce?»
«Il Convertitore, Capitano.»
«Va bene, allora. Ma veramente non capisco, Ertz» continuò irritato «perché venga a infastidirmi con que­ste inezie. Se non sbaglio, lei dovrebbe essere capace di tenere la disciplina nel suo reparto senza bisogno del mio aiuto.»
«Certo, Capitano.»
Il Capitano si allontanò dalla scrivania e si alzò in pie­di: «Suggerimento accolto. Congedati.»
Hoyland fu pervaso dalla rabbia per l'assurda ingiustizia di tutto ciò. Non avevano neppure preso in considera­zione l'idea di controllare la sola prova reale che egli ave­va in sua difesa.
Sentì una voce urlare: «Aspettate!»
Poi scoprì che quella voce era la sua.
Il Capitano rimase immobile, guardandolo.
«Aspettate un momento» proseguì Hugh, a cui le parole uscivano spontaneamente.
«Quanto vi sto per dire non farà alcuna differenza, vi­sto che siete così dannatamente sicuri di conoscere tutte le risposte da non considerare una proposta ragionevole come quella di verificare con i vostri occhi. Nondimeno, eppure... eppur si muove

Hugh ebbe tutto il tempo che voleva per pensare, diste­so nel compartimento dove lo avevano rinchiuso in attesa che il programma energetico richiedesse il suo inserimen­to nel Convertitore. Ebbe tempo di ripensare ai propri er­rori. Il primo sbaglio era stato quello di raccontare tutto a Ertz appena tornato. Avrebbe dovuto aspettare, rinsalda­re i legami con Ertz e sondarlo, invece di fare affidamento su una vecchia amicizia che non era mai stata molto profonda.
Secondo sbaglio: Mort Tyler. Quando aveva sentito pro­nunciare il suo nome da Ertz, avrebbe dovuto cercare di scoprire quanta influenza quell'individuo avesse su Bill. Conosceva Tyler da molto tempo, non avrebbe dovuto sbagliarsi in modo così grossolano sul suo conto.
Ed eccolo qui, condannato come un mutante o, forse, come un eretico. In fondo, non cambiava molto. Si do­mandò se non gli sarebbe convenuto cercare di spiegare perché esistevano i mutanti. L'aveva imparato leggendo alcuni antichi documenti posseduti da Joe-Jim. No, non sarebbe servito a niente. Come si poteva spiegare che era­no state le radiazioni provenienti dall'esterno a causare la nascita dei mutanti, quando nessuno credeva che esistes­se un esterno? No, lui aveva combinato il guaio prima di essere portato alla presenza del Capitano.
Le sue riflessioni alla fine furono interrotte dal rumore della porta che si apriva. Era troppo presto per un altro dei rari pasti che gli venivano portati, perciò credette che finalmente fossero venuti a prenderlo e rinnovò il propo­sito di vendere cara la pelle.
Ma si sbagliava. Sentì una voce flebile e piena di dignità che diceva: «Figliolo, figliolo, che cosa ti è successo?»
Era il Tenente Nelson, il suo primo maestro, che appa­riva invecchiato e fragile.
Il colloquio fu penoso per entrambi. Il vecchio, che non aveva avuto figli, aveva nutrito grandi progetti per il suo protetto, aveva addirittura sperato che un giorno potesse aspirare alla carica di Capitano, sebbene si fosse tenuto quelle ambizioni per sé, pensando che non fosse opportu­no lodare eccessivamente i giovani. Aveva profondamente sofferto quando Hugh era stato dato per morto.
Ora il giovane, divenuto un uomo, era tornato, ma di­sonorato e condannato al Convertitore.
Anche per Hugh il colloquio fu straziante. A modo suo, aveva voluto molto bene al vecchio, desiderando compia­cerlo e cercando la sua approvazione. Mentre raccontava la sua storia, però, si rese conto che Nelson la giudicava soltanto un'aberrazione della sua mente e sospettò perfi­no che egli preferisse vederlo andare incontro a una rapi­da morte nel Convertitore, con gli atomi ridotti a idroge­no e trasformati in utile e pura energia, piuttosto che saperlo vivo a farsi beffe degli antichi insegnamenti.
In questo, però, Hugh fu ingiusto con il suo vecchio maestro, perché sottovalutava il buon cuore di Nelson e gli attribuiva un'eccessiva devozione alla "scienza". In ogni caso Hugh, se in gioco ci fosse stato solo il suo be­nessere, avrebbe preferito morire pur di non spezzare il cuore al suo benefattore, essendo un uomo romantico e decisamente un po' folle.
Poco dopo il vecchio si alzò per andare, poiché la visita era divenuta intollerabile per entrambi.
«Non c'è niente che possa fare per te, figliolo? Ti nutrono a sufficienza?»
«Benissimo, grazie» mentì Hugh.
«Non hai proprio bisogno di niente?»
«No... cioè, sì, potrebbe farmi avere un po' di tabac­co? Non ne mastico da un'infinità di tempo.»
«Va bene. C'è qualcuno che desideri vedere?»
«Pensavo che non mi fosse consentito ricevere visi­te... visite di persone comuni.»
«È così, ma credo di poter ottenere che si faccia un'eccezione per te. Però, mi devi promettere di non par­lare della tua eresia» aggiunse ansioso.
Hugh rifletté velocemente. Gli si presentava una nuova possibilità. Suo zio?... No, sebbene fossero sempre andati d'accordo, vedevano le cose in modo diverso, e il loro sa­rebbe stato un saluto fra due estranei. Hugh non aveva mai fatto amicizia facilmente, ed Ertz in fondo era l'ami­co migliore che avesse mai avuto, figurarsi! A un tratto ri­cordò un suo vecchio compagno, Alan Mahoney, con cui da ragazzo giocava al villaggio. A dire la verità, pratica­mente non ne aveva più saputo niente da quando faceva l'apprendista da Nelson. Eppure...
«Alan Mahoney abita sempre nel nostro villaggio?»
«Sì.»
«Mi piacerebbe vederlo, se è disposto a venire.»
Alan arrivò, nervoso, a disagio, ma evidentemente feli­ce di rivedere Hugh e sconvolto nel saperlo condannato a fare il Viaggio. Hugh gli diede una pacca sulla spalla.
«Sei un bravo ragazzo» disse «sapevo che saresti venuto.»
«Certo che sono venuto» protestò Alan «appena l'ho saputo. Al villaggio nessuno ne era informato. Credo che nemmeno il Testimone lo sapesse.»
«A ogni modo, ora sei qui, ed è questo che conta. Dimmi di te. Ti sei sposato?»
«No, ma non perdiamo tempo a parlare di me. Co­munque, non mi succede mai niente. Come hai fatto, in nome di Jordan, a ficcarti in una situazione simile?»
«Non posso parlare di questo, Alan. Ho promesso al Tenente Nelson di tenere la bocca chiusa.»
«Bene, se si tratta di una promessa... ma che razza di promessa, comunque. Sei in un brutto guaio, amico.»
«A quanto pare!»
«Qualcuno ce l'ha con te?»
«Bah, il nostro vecchio amico Mort Tyler non mi è stato di grande aiuto. Questo credo di poterlo dire.»
Alan fece un fischio e scosse lentamente la testa.
«Questo chiarisce molte cose.»
«Che cosa vuoi dire? Sai qualcosa?»
«Forse. Tyler, dopo la tua scomparsa, ha sposato Edris Baxter.»
«Capisco... Ora mi è tutto più chiaro.»
Rimase in silenzio per qualche istante.
Subito dopo, Alan riprese: «Senti, Hugh. Non vorrai mica stare qui seduto ad aspettare? Specialmente, dopo avere scoperto che c'è di mezzo Tyler. Dobbiamo farti uscire di qua.»
«E come?»
«Non lo so. Con un atto di forza, forse. Credo di poter raccogliere un certo numero di uomini bene armati e di­sposti ad aiutarci... Tutti bravi ragazzi, ansiosi di poter usare i loro coltelli.»
«Così, alla fine, saremo tutti pronti per il Convertito­re! Tu, io e i tuoi compagni. No, Alan, non è il caso.»
«Ma dobbiamo fare qualcosa! Non possiamo restar­cene con le mani in mano ad aspettare che ti decompon­gano!»
«Lo so.» Hugh studiò la faccia di Alan. Era giusto chiedergli un favore del genere? Ma si sentì rassicurato da ciò che aveva visto. «Senti. Tu faresti qualunque co­sa, pur di tirarmi fuori di qua, non è vero?»
«Lo sai bene!» Alan sembrava offeso.
«Molto bene. C'è un nano chiamato Bobo. Ti dirò co­me devi fare per trovarlo...»

Alan salì sempre più in alto, molto più in alto di quanto si fosse mai spinto da quando erano ragazzi e Hugh lo guidava in sconsiderate spedizioni. Era più vecchio ora, più prudente, non gli piaceva farlo. Al pericolo reale di al­lontanarsi dai livelli inferiori, che ben conosceva, si ag­giungevano i timori ispiratigli dalla superstizione. Ma continuava a salire.
Doveva essere arrivato nel luogo indicatogli da Hugh, a meno che avesse sbagliato il conto dei livelli. Ma non scorgeva traccia del nano.
Fu Bobo a vederlo per primo. Un proiettile lanciato da una fionda colpì Alan in pieno stomaco, proprio mentre urlava: «Bobo! Bobo!»
Bobo entrò camminando all'indietro nella cabina di Joe-Jim e scaricò il suo fardello ai piedi del bicefalo.
«Carne fresca» annunciò orgoglioso.
«Vedo» disse Jim con indifferenza. «È tuo. Porta­lo via.»
Al nano venne l'acquolina in bocca. «È strano» dis­se. «Conosce il nome di Bobo.»
Joe alzò gli occhi dal libro che stava leggendo, una rac­colta di poesie di Browning, pubblicata dalla L-Press, New York, London, Luna City, cr. 3.50.
«Interessante. Aspetta un momento.»
Hugh aveva preparato Alan allo shock che gli avrebbe procurato la vista di Joe-Jim. Così, in un tempo ragione­volmente breve riuscì a ritrovare la presenza di spirito per dire quello che doveva. Joe-Jim lo ascoltò senza fare molti commenti, Bobo con interesse, ma senza capire granché.
Quando Alan ebbe finito, Jim osservò: «Insomma, avevi ragione tu, Joe. Non ce l'ha fatta.» E, rivolgendosi ad Alan, aggiunse: «Puoi prendere tu il posto di Hoyland. Sai giocare a scacchi?»
Alan guardò prima una testa e poi l'altra.
«Voi non capite!» esclamò. «Non intendete fare nulla per aiutarlo?»
Joe lo guardò perplesso: «Noi? Perché dovremmo?»
«Ma voi dovete farlo. Non vi rendete conto che lui ha bisogno di voi? Non c'è nessun altro a cui possa rivolger­si. Ecco perché sono venuto. Non capite?»
«Un momento» disse Jim con voce strascicata «aspet­ta un momento. Non correre. Ammettendo che fossimo di­sposti ad aiutarlo... Come potremmo fare, in nome della Na­ve di Jordan? Rispondi alla mia domanda!»
«Ma... è semplice...» si mise a balbettare Alan, di fronte a tanta stupidità. «Organizzate una squadra... e scendete a liberarlo!»
«Perché dovremmo farci uccidere in un combatti­mento per liberare il tuo amico?»
Bobo drizzò le orecchie.
«Combattimento?» chiese eccitato.
«No, Bobo» disse Joe. «Niente combattimenti. Si faceva per dire.»
«Oh» esclamò Bobo e ritornò alla sua inerzia.
Alan guardò il nano.
«Se almeno lasciaste che io e il nano...»
«No» tagliò corto Joe «è fuori discussione. Falla fi­nita con questa storia.»
Alan, preso dallo sconforto, andò a sedersi in un ango­lo, abbracciandosi le ginocchia. Se solo fosse riuscito ad andarsene di lì. Avrebbe ancora potuto cercare aiuto ai li­velli inferiori. Il nano sembrava essersi addormentato, sebbene fosse difficile accertarsene. Se solo si fosse ad­dormentato anche Joe-Jim.
Joe-Jim non sembrava affatto assonnato. Joe provava a continuare la sua lettura, ma Jim di tanto in tanto lo in­terrompeva. Alan non riusciva a sentire quello che si dice­vano.
A un tratto Joe alzò la voce.
«È questa la tua idea di divertimento?» domandò.
«Mah!» disse Jim «è sempre meglio degli scacchi!»
«Figurarsi! E se ti prendi un coltello in un occhio? Che cosa sarebbe di me?»
«Joe, stai invecchiando. Non hai più un filo di coraggio.»
«Tu sei vecchio quanto me!»
«Sì, ma le mie idee rimangono giovani!»
«Oh, mi fai venire la nausea. Comunque, d'accordo, facciamo come vuoi, ma poi non prendertela con me... Bobo!»
Il nano scattò in piedi immediatamente, pronto a en­trare in azione.
«Sì, capo!»
«Corri a cercare Mezzo Accovacciato, Lungo Braccio e Porcello.»
Joe-Jim si alzò, aprì un armadio, e cominciò a sfilare i coltelli dalle rastrelliere.

Hugh, dalla sua cella, sentì un trambusto nel passag­gio. Potevano essere le guardie che venivano a prenderlo per condurlo al Convertitore, ma gli sembrò strano che facessero tanto fracasso. A meno che non si trattasse di qualche avvenimento del tutto estraneo alla sua sorte. Oppure poteva essere...
Lo era. La porta si spalancò di colpo e Alan entrò, gri­dando e ficcandogli in mano un paio di coltelli. Fu spinto fuori dalla porta mentre si sistemava i coltelli nella cintu­ra e se ne faceva dare altri due.
Fuori vide Joe-Jim che, all'inizio, non si accorse di lui, occupato com'era a lanciare coltelli con la stessa calma metodica che aveva quando si allenava nella sua cabina. Vide anche Bobo, che, a capo chino e sogghignando con la bocca allargata da un taglio sanguinante, continuava senza fatica a caricare la fionda e a tirare proiettili. C'era­no altri tre individui, che Hugh riconobbe come sgherri di Joe-Jim, mutanti per definizione e luogo di nascita, ma senza alcuna deformità.
Il suo conteggio non includeva le forme immobili che giacevano sulle lastre del pavimento.
«Presto, andiamo!» urlò Alan. «Ne arriveranno al­tri, fra pochi istanti.»
E si lanciò correndo verso il passaggio alla loro destra.
Joe-Jim desistette e lo seguì. Hugh scagliò un'ultima la­ma contro una figura che si allontanava velocemente ver­so sinistra: era un bersaglio difficile e Hoyland non ebbe tempo di vedere se il colpo fosse andato a segno.
Si arrampicarono lungo il passaggio, Bobo chiudeva la fila, quasi gli dispiacesse lasciare il divertimento, e arriva­rono a un punto dove un passaggio secondario incrociava il passaggio principale.
Alan li guidò ancora verso destra. «Le scale di fronte!» urlò.
Ma non fecero in tempo a raggiungerle. Una porta sta­gna, utilizzata raramente, si chiuse improvvisamente da­vanti a loro, a una decina di passi dalla scala. I bravi di Joe-Jim si bloccarono e guardarono il loro capo con aria interrogativa. Bobo si spezzò le unghie spesse cercando di trovare un appiglio sulla porta.
Sentivano chiaramente i rumori degli inseguitori die­tro di loro.
«Siamo in trappola» disse Joe a bassa voce. «Spe­ro che questo ti diverta, Jim.»
Guardando verso il passaggio da cui provenivano, Hugh vide una testa che spuntava da dietro l'angolo. Lanciò un coltello, ma la distanza era troppo grande: la lama mancò il bersaglio e andò a sbattere contro la pa­ratia metallica. La testa scomparve. Lungo Braccio te­neva d'occhio l'angolo, con la fionda carica, pronto a ti­rare.
Hugh prese Bobo per una spalla: «Ascolta! Vedi quel­la luce?»
Il nano sbatté le palpebre senza capire. Hugh gli indicò il punto in cui i tubi luminosi si incrociavano, in alto, proprio sopra l'angolo formato dai passaggi.
«Quella luce. Puoi colpire i tubi là dove s'incrociano?»
Bobo misurò la distanza con lo sguardo. Sarebbe stato un colpo difficile in qualunque condizione, data la distan­za. Da dove si trovavano, stretti com'erano nel basso pas­saggio, era indispensabile che il tiro fosse dritto e veloce. Oltretutto, si trovavano in una zona in cui il peso era più alto di quello a cui era abituato.
Il nano non rispose. Hugh sentì lo spostamento d'aria, ma non fece in tempo a vedere il lancio. Ci fu un rumore di vetri infranti, e il passaggio fu avvolto dalle tenebre.
«Ora!» urlò Hugh, e li condusse via di corsa. Mentre si avvicinavano all'incrocio dei passaggi gridò: «Trattenete il respiro! Attenti al gas!» Il vapore radioattivo fuoriusciva dal tubo rotto, in alto, e riempiva i passaggi di una nebbia verdastra. Aveva preso la direzione giusta, il passaggio da­vanti a loro era buio, poiché era anch'esso servito dal tubo che Bobo aveva rotto. Intorno a sé sentiva rumore di passi, ma non avrebbe potuto dire se provenisse da amici o nemici.
Irruppero in una zona illuminata. Non si vedeva nessu­no, all'infuori di un contadino indifeso e spaventato, che corse via a gran velocità. Si passarono rapidamente in rassegna, per controllare di esserci tutti. Nessuno manca­va all'appello, ma Bobo si reggeva a fatica.
Joe lo guardò. «Deve avere respirato il gas. Dategli qualche colpo sulla schiena.»
Porcello fu ben lieto di provvedere. Bobo fece un forte rutto, ebbe un repentino conato di vomito e poi sorrise.
«Sta meglio di prima» decise Joe.
Quella breve sosta aveva permesso ad almeno uno degli inseguitori di raggiungerli. Uscì dal buio profondo, senza rendersi conto di che cosa lo aspettava, o forse non cu­randosene. Alan abbassò il braccio di Porcello, che stava per lanciare il coltello.
«Lascialo a me» disse. «Ho un vecchio conto in so­speso con lui.»
Era Tyler.
«Duello?» lo sfidò Alan, il pollice sulla lama del pu­gnale.
Gli occhi di Tyler andarono rapidi da un avversario al­l'altro e, alla fine, accettò l'invito a uno scontro individua­le, scagliandosi su Alan. Lo spazio era troppo ristretto per un duello a distanza: i due avversari si avvicinarono, cer­cando di schivare i colpi, e si afferrarono per i polsi.
Alan aveva una corporatura più massiccia ed era pro­babilmente più forte, ma Tyler si muoveva con agilità. Tentò di dare una ginocchiata al basso ventre ad Alan, che la evitò, avvinghiandosi a Tyler, ben piantato sui pie­di. I due rotolarono al suolo. Si sentì rumore di tessuti lacerati.
Un istante dopo, Alan stava pulendo la lama del coltello contro la coscia. «Andiamocene» disse. «Ho paura.»
Raggiunsero una scala e vi si arrampicarono a tutta ve­locità, con in testa Porcello e Lungo Braccio che perlu­stravano i nuovi livelli e coprivano i fianchi, mentre il ter­zo — quello che Hugh aveva sentito chiamare Mezzo Accovacciato — proteggeva loro le spalle. Gli altri proce­devano in gruppo al centro.
Hugh credeva che ormai si trovassero fuori pericolo, quando sentì delle grida e, proprio sopra la sua testa, il si­bilo d'un coltello. Raggiunse il livello superiore in tempo per essere ferito solo di striscio da una lama rimbalzata sulla paratia.
Tre uomini giacevano al suolo. Lungo Braccio aveva un coltello conficcato proprio nel braccio, ma sembrava non farci caso. La sua fionda roteava ancora. Porcello cercava di impossessarsi di un coltello rimasto sul terreno, aven­do esaurito il suo armamentario. I segni del suo lavoro, però, erano ben visibili: a qualche metro di distanza c'era un uomo in ginocchio, con il sangue che gli grondava da una ferita alla gamba.
L'uomo si appoggiò con una mano alla paratia e con l'altra si frugò nella cintura in cerca di un coltello che non aveva più; in quel mentre Hugh lo riconobbe.
Era Bill Ertz.
Ertz aveva guidato un manipolo di uomini per un'al­tra via fino a quel livello, ed era caduto in trappola. Bobo si spinse dietro a Hugh e preparò il potente braccio al tiro, ma Hugh lo fermò: «Piano, Bobo» raccomandò. «Nello stomaco, e piano.»
Il nano sembrò stupito, ma obbedì. Ertz si piegò su se stesso e cadde al suolo.
«Bel colpo» disse Jim.
«Prenditelo in spalla, Bobo» ordinò Hugh «e resta nel mezzo.» Passò in rassegna con una rapida occhiata la squadra, riunita in cima alla scala. «Pronti, ragazzi? Si riprende a salire! Tenete gli occhi bene aperti!»
Lungo Braccio e Porcello si arrampicarono sulla sca­linata successiva, mentre gli altri ripresero la forma­zione iniziale. Joe aveva l'aria seccata. In qualche modo — un modo che per il momento gli sfuggiva completa­mente — era stato esautorato dalla sua posizione di ca­po della squadra — la sua squadra! — ed era Hugh che impartiva gli ordini. Si disse tuttavia che, al momento, non c'era tempo per protestare. Rischiavano di essere uccisi tutti.
Quanto a Jim, non sembrava affatto contrariato, anzi, apparentemente si divertiva.
Salirono altri dieci livelli, senza incontrare nessuna resistenza. Hugh aveva dato ordine di non uccidere i con­tadini, se non ce ne fosse stata necessità. I tre sgherri ob­bedirono; quanto a Bobo, era troppo impegnato a traspor­tare il corpo di Ertz per creare problemi di disciplina. Solo dopo che si furono lasciati alle spalle altri trenta ponti ed ebbero raggiunto la terra di nessuno, Hugh allentò la vigilanza. Diede l'alt e tutti iniziarono ad esaminare le proprie ferite.
Le sole che meritassero di essere prese sul serio erano quella di Lungo Braccio e quella sulla faccia di Bobo. Joe-Jim le osservò con attenzione e vi applicò dei cerotti di cui s'era rifornito prima di partire per la spedizione. Hugh rifiutò di farsi medicare il piccolo taglio.
«Non sanguina più» insistette. «E poi ho troppo da fare.»
«L'unica cosa che devi fare è tornare nella nostra zo­na, e porre fine a questa follia» lo rimbeccò Joe.
«Neanche per sogno» replicò Hugh. «Tu, forse, ci tornerai, ma Alan, io e Bobo proseguiamo fin su, al non peso, e alla Veranda del Capitano.»
«Sciocchezze» disse Joe. «A fare che cosa?»
«Vieni anche tu, se ti fa piacere, e te ne renderai con­to da solo. Avanti, ragazzi. Andiamo!»
Joe stava per protestare, ma si fermò vedendo che Jim rimaneva in silenzio. Joe-Jim li seguì.
Fluttuarono dolcemente attraverso la porta della Ve­randa: Hugh, Alan, Bobo, che trasportava ancora il corpo inerte di Ertz sulle spalle, e Joe-Jim.
«Ecco» disse Hugh ad Alan, indicando le splendide stelle con un gesto della mano. «Ecco quello di cui ti ho parlato.»
Alan guardò la volta celeste e afferrò il braccio di Hugh.
«Per Jordan! Precipitiamo!» gemette, chiudendo gli occhi.
Hugh lo scosse. «Va tutto bene» lo rassicurò. «È meraviglioso. Apri gli occhi.»
Joe-Jim toccò il braccio di Hugh. «Si può sapere che cosa intendi fare? E perché hai fatto portare anche quel­lo?» chiese, indicando Ertz.
«Oh, lui?... Quando riprenderà i sensi, voglio fargli ve­dere le stelle, dimostrargli che la Nave si muove davvero.»
«E perché?»
«Perché allora potrò mandarlo giù a convincere qualcun altro.»
«Uhm!... E chi ti dice che avrà più fortuna di quanta ne abbia avuta tu?

«Mah! In questo caso...» Hugh si strinse nelle spalle «in questo caso dovremo ricominciare tutto da capo, suppongo, finché non li avremo convinti. Abbiamo il do­vere di farlo, e tu lo sai.»

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