Questo che vi presenterò oggi è un racconti di Larry Niven del 1966 che, l'anno dopo, vinse il famigerato premio Hugo come miglior racconto.
Stella di Neutroni di Larry Niven
I
Lo
Skydiver uscì dall’iperspazio a un milione di miglia esatte dalla
stella di neutroni. Mi occorse un minuto per orientarmi di nuovo
sullo sfondo stellato e un altro per trovare la distorsione cui aveva
accennato Sonya Laskin prima di morire. Si trovava sulla mia
sinistra, ed era un’area che aveva le dimensioni apparenti della
Luna della Terra. Feci virare la nave, per volgerla in quella
direzione.
Stelle
quagliate, stelle impasticciate, stelle che erano state rimescolate
con un cucchiaio.
La
stella di neutroni era al centro, naturalmente, sebbene non potessi
vederla, e non avessi neppure previsto di poterla vedere. Aveva un
diametro di undici miglia soltanto, ed era freddina. Era trascorso un
miliardo di anni, da quando la BVS-1 aveva smesso di bruciare del
fuoco della fusione. E milioni d’anni, a dir poco, dalle due
settimane catastrofiche durante le quali la BVS-1 era stata una
stella ai raggi X, e aveva bruciato alla temperatura di cinque
miliardi di gradi Kelvin. Adesso risultava solo grazie alla sua
massa.
La
nave cominciò a rigirarsi da sola. Sentivo la pressione del motore a
fusione. Senza collaborazione da parte mia, il mio fedele cane da
guardia metallico mi stava inserendo in un’orbita iperbolica che mi
avrebbe portato a meno di un miglio dalla superficie della stella di
neutroni. Ventiquattro ore per scendere, ventiquattro ore per
risalire… e in quell’intervallo, qualcosa avrebbe cercato di
uccidermi. Come qualcosa aveva ucciso i Laskin.
Era
stato lo stesso tipo di pilota automatico, con lo stesso programma, a
scegliere l’orbita dei Laskin. Non aveva causato la collisione tra
la loro astronave e la stella. Potevo fidarmi del pilota automatico.
Potevo persino cambiarne il programma.
E
avrei dovuto farlo.
Come
avevo fatto a cacciarmi in quella situazione?
Il
motore si spense dopo dieci minuti di manovre. La mia orbita era
stabilita, e in più di un senso. Sapevo cosa sarebbe accaduto, se
avessi cercato di tirarmi indietro a questo punto.
E
tutto quello che avevo fatto era stato entrare in un drugstore e
comprare una pila nuova per il mio accendino!
Proprio
al centro del magazzino, circondato da tre piani di banchi di
vendita, c’era il nuovo yacht intersistema 2603 Sinclair. Ero
andato per comprare una pila, ma mi fermai ad ammirarlo. Era
bellissimo, piccolo e agile e affusolato e clamorosamente diverso da
tutto ciò che era stato costruito in precedenza. Non avrei voluto
volarci per niente al mondo, ma dovevo riconoscere che era carino.
Infilai la testa all’interno per dare un’occhiata al quadro dei
comandi. Mai visti tanti quadranti. Quando tirai fuori la testa,
tutti i clienti guardavano nella stessa direzione. Era sceso un
silenzio impressionante.
Non
posso dar loro torto, se guardavano. Nel magazzino c’erano parecchi
alieni, venuti lì quasi tutti per comprare souvenir, ma anche
loro guardavano sbalorditi. Un burattinaio è unico. Immaginate un
centauro senza testa e con tre gambe, che porta tra le braccia due
burattini di Cecil, il Serpente di Mare con il Mal di Mare, e ve ne
farete un’idea. Ma le braccia sono colli flessibili, e i burattini
sono teste vere, piatte e prive di cervello, con ampie labbra
flessibili. Il cervello è alloggiato sotto una gobba ossea situata
alla base dei colli. Il burattinaio portava addosso solo il suo vello
di pelo marrone, con una criniera che si estendeva lungo tutta la
spina dorsale, e formava un fitto intrico sopra il cervello. Mi hanno
detto che il modo in cui portano la criniera indica la loro posizione
sociale, ma per me quello poteva essere qualunque cosa, uno
scaricatore di porto o un gioielliere o il presidente della General
Products.
Restai
a guardarlo, come tutti gli altri, mentre veniva avanti, non perché
non avessi mai visto un burattinaio, ma perché c’è una certa
bellezza nel modo elegante in cui si muovono su quelle zampe sottili,
dagli zoccoli minuscoli. Lo guardai venire diritto verso di me,
sempre più vicino. Si fermò a un passo di distanza, mi squadrò e
disse: — Lei è Beowulf Shaeffer, già capo pilota delle Linee
Nakamura.
La
voce era bellissima, da contralto, e senz’ombra di accento. Le
bocche di un burattinaio non costituiscono soltanto l’organo vocale
più flessibile che vi sia in circolazione, ma anche le mani più
sensibili. Le lingue sono bifide e appuntite, le labbra larghe e
carnose hanno piccole appendici digitali lungo i bordi. Immaginate un
fabbricante d’orologi con il senso del gusto sui polpastrelli.
Mi
schiarii la gola. — Infatti.
Mi
scrutò da due direzioni. — Le interesserebbe un lavoro ben
retribuito?
— Un
lavoro ben retribuito mi affascina.
— Io
sono il nostro equivalente del presidente regionale della General
Products. Venga con me, la prego, e proseguiremo la nostra
discussione altrove.
Lo
seguii in una cabina di traslazione. Molti occhi mi seguirono lungo
l’intero tragitto. Era molto imbarazzante, venire abbordato in un
drugstore da un mostro bicipite. Forse il burattinaio lo sapeva.
Forse mi metteva alla prova, per vedere fino a che punto avevo
bisogno di danaro.
Ne
avevo un gran bisogno. Erano trascorsi otto mesi da quando le Linee
Nakamura avevano chiuso baracca. Prima che questo accadesse, per
diverso tempo ero vissuto da signore, sapendo che i miei stipendi
arretrati avrebbero coperto i debiti. Gli stipendi arretrati non li
vidi mai. Fu un grosso crollo, quello delle Linee Nakamura.
Rispettabili uomini d’affari di mezza età presero a lasciare le
finestre dei loro alberghi senza salvagente. Io continuai a spendere.
Se mi fossi messo a vivere frugalmente, i miei creditori sarebbero
andati a controllare… e io sarei finito in prigione per debiti.
Il
burattinaio fece tredici numeri in fretta, con la lingua. Un attimo
dopo, eravamo altrove. L’aria uscì con uno sbuffo, quando aprii lo
sportello della cabina, e io deglutii per stapparmi le orecchie.
— Siamo
sul tetto del palazzo della General Products. — La profonda
voce di contralto mi faceva il solletico ai nervi, e dovevo
ricordarmi continuamente che mi stava parlando un alieno, non una
bella donna. — Lei deve esaminare quest’astronave, mentre
discutiamo del suo incarico.
Uscii
abbastanza cautamente: ma non era la stagione dei venti. Il tetto era
al livello del terreno. È così che costruiamo su We Made It. Forse
è per via dei venti che spirano a millecinquecento miglia orarie in
estate e in inverno, quando l’asse di rotazione del pianeta risulta
trasversale a quello del suo sole, Procione. I venti costituiscono
l’unica attrazione turistica del nostro pianeta, e sarebbe una
vergogna rallentarli costruendo grattacieli sul loro cammino. Il
tetto di cemento, nudo e squadrato, era circondato da interminabili
miglia quadrate di deserto, che non è simile ai deserti di altri
mondi abitati, ma una distesa totalmente priva di vita, formata da
sabbia finissima che implora di venir piantata a cactus ornamentali.
Ci abbiamo provato. Il vento strappa via le piante.
L’astronave
stava sulla sabbia, a qualche distanza dal tetto. Era uno scafo tipo
2 della General Products: un cilindro lungo cento metri e con sei
metri di diametro, appuntito alle due estremità, con una leggera
strozzatura a vitino di vespa presso la coda. Era inclinata sul
fianco, con gli ammortizzatori da atterraggio ripiegati nella coda.
Avete
mai notato che le astronavi cominciano a somigliarsi tutte? Un buon
novanta per cento delle navi spaziali odierne viene costruito
partendo da uno dei quattro scafi base della General Products. È più
facile e più sicuro farle così, ma finiscono tutte come sono
incominciate: tutte eguali, tutte prodotte in massa.
Gli
scafi vengono consegnati trasparenti, e voi ci mettete la vernice
dove preferite. Quello scafo era stato lasciato quasi tutto
trasparente. Solo il muso era stato dipinto, intorno al sistema di
supporto. Non c’era un motore a reazione centrale. Una serie di
reattori d’assetto retrattili era stata montata lungo i fianchi, e
lo scafo era crivellato di fori più piccoli, quadrati e rotondi, per
gli strumenti d’osservazione. Potevo vederli, tutti luccicanti,
attraverso l’involucro.
Il
burattinaio si stava avviando verso il muso, ma qualcosa mi spinse a
voltarmi verso la poppa, per dare un’occhiata più attenta agli
ammortizzatori da atterraggio.
Erano
piegati. Dietro i pannelli curvi e trasparenti dello scafo, una
pressione tremenda aveva fatto scorrere il metallo come cera sciolta,
forzandolo a rientrare nella poppa appuntita.
— Che
cos’è stato? — domandai.
— Non
lo sappiamo. Ci terremmo moltissimo a scoprirlo.
— Come
sarebbe a dire?
— Ha
sentito parlare della stella di neutroni BVS-1?
Dovetti
riflettere un momento. — La prima stella di neutroni che sia
stata trovata, e finora anche l’unica. Qualcuno l’individuò due
anni fa, mediante lo spostamento stellare.
— La
BVS-1 fu scoperta dall’Istituto della Conoscenza, su Jinx. Venimmo
a sapere, da un intermediario, che l’Istituto teneva a esplorare la
stella. Per farlo, aveva bisogno di un’astronave. Non aveva tutto
il danaro necessario. Noi ci offrimmo di fornire uno scafo, con le
solite garanzie, purché l’Istituto ci inoltrasse tutti i dati
acquisiti grazie alla nostra nave.
— Mi
sembra abbastanza equo. — Non chiesi perché non erano andati
a esplorare loro stessi. Come quasi tutti i vegetariani senzienti, i
burattinai considerano la discrezione la cosa più importante.
— Due
umani, Peter Laskin e Sonya Laskin, volevano usare la nave.
Intendevano portarsi a meno d’un miglio dalla superficie, in
un’orbita iperbolica. A un certo punto, durante il viaggio, una
forza sconosciuta è penetrata apparentemente attraverso lo scafo, e
ha ridotto così gli ammortizzatori di atterraggio. E sembra che la
forza sconosciuta abbia anche ucciso i piloti.
— Ma
è impossibile. Non è così?
— Lei
ha afferrato l’essenziale. Venga con me. — Il burattinaio
trotterellò verso prua.
Avevo
afferrato l’essenziale, infatti. Niente, ma proprio niente, può
passare attraverso uno scafo della General Products. Nessun genere di
energia elettromagnetica, a eccezione della luce visibile. Nessun
tipo di materia, dalla più piccola particella subatomica fino alla
meteorite più veloce. È quanto sostiene la pubblicità
dell’azienda, e la garanzia lo conferma. Non ne ho mai dubitato, e
non ho mai sentito che uno scafo della General Products sia stato
danneggiato da un’arma o da qualunque altra cosa.
Però
uno scafo della General Products è brutto quanto è funzionale.
L’azienda del burattinaio avrebbe potuto andarci di mezzo, se in
giro si fosse risaputo che qualcosa poteva passare
attraverso uno dei suoi scafi. Ma non capivo che cosa c’entravo io.
Salimmo
la scaletta mobile che ci portò nel muso.
Il
sistema di supporto era diviso in due compartimenti. Lì i Laskin
avevano usato vernice termorepellente. Nella cabina di comando, che
era conica, lo scafo era stato diviso in finestrini. La stanza da
riposo, che stava subito dietro, era verniciata d’argento
riflettente, e non aveva finestre. Dalla parete di fondo di questa
stanza partiva un cunicolo che portava a poppa, e che permetteva di
accedere a vari strumenti e ai motori dell’hyperdrive.
Nella
cabina di comando c’erano due cuccette antiaccelerazione. Entrambe
erano state strappate dai supporti e incastrate nel muso come se
fossero di cartavelina, e avevano schiacciato il quadro dei comandi.
Le spalliere delle cuccette accartocciate erano chiazzate di bruno
ruggine. Piccole macchie dello stesso colore erano sparse ovunque,
sulle pareti, sui finestrini, sui videoschermi. Sembrava che qualcosa
avesse colpito le cuccette da tergo: qualcosa come una dozzina di
palloncini pieni di colore, che avessero urtato con una forza
tremenda.
— È
sangue — dissi io.
— Infatti.
Liquido del sistema circolatorio umano.
II
Ventiquattro
ore per scendere.
Passai
gran parte delle prime dodici nella stanza da riposo, tentando di
leggere. Non succedeva niente di significativo; solo, talvolta vedevo
il fenomeno di cui aveva parlato Sonya Laskin nel suo ultimo
rapporto. Quando una stella passava direttamente dietro l’invisibile
BVS-1 si formava un alone. La BVS-1 era abbastanza pesante per
incurvare la luce intorno a sé, spostando quasi tutte le stelle che
apparivano ai lati: ma quando una passava direttamente dietro la
stella di neutroni, la sua luce veniva spostata da tutte le parti
nello stesso istante. Risultato: un minuscolo cerchio lampeggiava per
un attimo e poi spariva, quasi prima ancora che l’occhio potesse
percepirlo.
Non
avevo mai saputo quasi niente sulle stelle di neutroni, fino al
giorno in cui mi aveva pescato il burattinaio. Adesso ero un esperto.
Ma ancora non avevo idea di quel che mi aspettava quando sarei sceso
laggiù.
Tutta
la materia che verosimilmente vi capiterà d’incontrare è materia
normale, composta da un nucleo di protoni e neutroni, circondato da
elettroni in stato di energia di quanti. Nel cuore di ogni stella c’è
una seconda specie di materia: lì, infatti, la pressione enorme è
sufficiente per frantumare il guscio degli elettroni. Il risultato è
la materia degenerata: nuclei spinti l’uno contro l’altro dalla
pressione e dalla gravità, ma tenuti separati dalla reciproca
repulsione del «gas» di elettroni, più o meno continuo, che li
circonda. Particolari circostanze possono creare un terzo tipo di
materia.
Prendiamo:
una nana bianca esaurita, con una massa superiore a 1,44 volte quella
del Sole: il Limite di Chandrasekhar, dal nome di un astronomo
indoamericano del millenovecento. In una massa simile, la pressione
degli elettroni non basterebbe, da sola, a tenere gli elettroni
stessi lontani dal nucleo. Verrebbero spinti a forza contro i
protoni… e formerebbero neutroni. In un’esplosione sfolgorante,
gran parte della stella si trasformerebbe, da una massa compressa di
materia degenerata, in un grumo compattissimo di neutroni: il
neutronio, in teoria la materia più densa possibile in questo
universo. Quasi tutta la materia rimanente, normale e degenerata,
verrebbe scagliata lontano dal calore che si libererebbe.
Per
due settimane, la stella irradierebbe raggi X, mentre la temperatura
del suo nucleo scenderebbe da cinque miliardi di gradi Kelvin a
cinquecento milioni. Poi sarebbe un corpo luminoso, del diametro di
dieci-dodici miglia: poco meno che invisibile, insomma. Non era
strano che la BVS-1 fosse la prima stella di neutroni mai scoperta.
E
non è neppure strano che l’istituto della Conoscenza, su Jinx,
avesse impiegato tanto tempo e tanta fatica per cercarla. Fino a che
la BVS-1 non era stata scoperta, il neutronio e le stelle di neutroni
erano soltanto teorie. L’esame di una vera stella di neutroni
poteva essere d’importanza enorme. Le stelle di neutroni potevano
offrirci la chiave per il vero controllo della gravità.
Massa
di BVS-1: 1,3 volte la massa di Sol, approssimativamente.
Diametro
di BVS-1 (stimato): undici miglia di neutronio, coperte da mezzo
miglio di materia degenerata, coperto da circa quattro metri di
materia normale.
Velocità
di fuga: 130.000 miglia al secondo, approssimativamente.
Non
si era saputo nient’altro della minuscola stella nera, fino a
quando i Laskin andarono a vederla. Adesso l’Istituto sapeva una
cosa di più. La stella ruotava.
— Una
massa così enorme può distorcere lo spazio, con la sua rotazione —
disse il burattinaio. — L’iperbole proiettata dall’astronave
dell’Istituto era contorta su se stessa in modo che ci permette di
dedurre che il periodo di rotazione della stella è di due minuti e
ventisette secondi.
Il
bar era da qualche parte, nel palazzo della General Products. Non so
esattamente dove, e con le cabine di traslazione non ha importanza.
Io continuavo a fissare il burattinaio barista. Naturalmente, solo un
burattinaio poteva accettare di farsi servire da un barista
burattinaio; qualunque bipede si indignerebbe all’idea che qualcuno
gli prepari da bere con la bocca. Io avevo già deciso di andare a
cena altrove.
— Capisco
il suo problema — dissi. — Le vendite ne risentiranno,
se si viene a sapere che qualcosa può penetrare in uno dei vostri
scafi, sfracellando l’equipaggio e riducendolo a chiazze di sangue.
Ma io che c’entro?
— Vogliamo
ripetere l’esperimento di Sonya Laskin e Peter Laskin. Dobbiamo
scoprire…
— Servendovi
di me?
— Sì.
Dobbiamo scoprire cos’è che i nostri scafi non possono arrestare.
Naturalmente lei può…
— Ma
non lo farò.
— Siamo
disposti a offrirle un milione di stars.
Mi
sentii tentato, ma solo per un momento. — Lasci perdere.
— Naturalmente,
verrà autorizzato a costruirsi la nave a modo suo, partendo da uno
scafo numero 2 della General Products.
— Grazie,
ci tengo a continuare a vivere.
— Ma
non ci terrebbe a finire in gattabuia. Mi risulta che We Made It ha
istituito nuovamente le prigioni per debitori. Se la General Products
rendesse pubblico il suo bilancio…
— Ehi,
un mo…
Lei
ha debiti nell’ordine di cinquecentomila stars. Pagheremo
i suoi creditori prima che lei parta. Se ritornerà… —
Dovetti ammirare la sua sincerità: non aveva detto quando. —
Se ritornerà, pagheremo il resto a lei. Potrà venire invitato a
parlare del viaggio dai commentatori dei notiziari, nel qual caso
guadagnerà altre stars.
— Dice
che posso costruire la nave a modo mio?
— Naturalmente.
Questo non è un viaggio d’esplorazione. Ci teniamo che lei torni
sano e salvo.
— Ci
sto — dissi.
Dopotutto,
il burattinaio aveva cercato di ricattarmi. Qualunque cosa fosse
accaduta dopo, sarebbe stata colpa sua.
Costruirono
la mìa astronave in due settimane esatte. Partirono da uno scafo n.
2 della General Products, proprio come quello della nave
dell’Istituto della Conoscenza, e il sistema di supporto era
praticamente un duplicato di quello dei Laskin. Ma lì finivano le
rassomiglianze. C’era invece un motore a fusione abbastanza grosso
per una corazzata di Jinx. Nella mia nave, che chiamai Skydiver, il
motore poteva produrre trenta g al limite di sicurezza.
C’era un cannone laser abbastanza potente da fare un buco
attraverso la luna di We Made It. Il burattinaio voleva che mi
sentissi al sicuro, e adesso mi sentivo davvero così, perché potevo
combattere e potevo scappare. Scappare, soprattutto.
Ascoltai
e riascoltai una mezza dozzina di volte l’ultima comunicazione dei
Laskin. La loro nave senza nome era piombata fuori dall’iperspazio
a un milione di miglia dalla BVS-1. Mentre il marito strisciava lungo
il tubo d’accesso per controllare gli strumenti, Sonya Laskin aveva
chiamato l’Istituto della Conoscenza. — …ancora non
possiamo vederla a occhio nudo. Ma possiamo vedere dov’è. Ogni
volta che una stella le passa dietro, si scorge un piccolo cerchio di
luce. Un minuto. Peter è pronto a usare il telescopio…
Poi
la massa della stella aveva interrotto il collegamento iperspaziale.
Era previsto, e nessuno si era preoccupato… allora. Più tardi, lo
stesso effetto doveva aver impedito loro di fuggire nell’iperspazio
per sottrarsi a ciò che li attaccava.
Quando
i soccorritori avevano trovato l’astronave, solo il radar e le
cineprese funzionavano ancora. Non ci dicevano molto. Non c’erano
cineprese nella cabina. Ma la cinepresa di prua ci mostrò, per un
istante, la visione della stella di neutroni, resa confusa dalla
velocità. Era un disco che aveva il colore arancione della
carbonella del barbecue, se conoscete qualcuno che possa prendersi il
lusso di bruciare legna. Quell’oggetto celeste era una stella di
neutroni ormai da molto tempo.
— Non
sarà necessario dipingere la nave — dissi al presidente.
— Non
dovrebbe fare un viaggio simile con le pareti trasparenti.
Diventerebbe pazzo.
— Non
sono un terragnolo. La visione sconvolgente dello spazio mi riempie
di un blando, ma evanescente interesse. Voglio vedere se c’è
qualcosa che mi arriva furtivamente alle spalle.
Il
giorno prima della partenza, ero seduto tutto solo nel bar della
General Products, e lasciavo che il burattinaio barista mi preparasse
da bere con la bocca. Lo faceva benissimo. C’erano burattinai
sparsi nella sala, a gruppetti di due o tre, con un paio d’uomini
tanto per apportare un po’ di varietà. Ma non era ancora arrivata
l’ora di bere. Il locale mi sembrava vuoto.
Ero
soddisfatto di me stesso. I miei debiti erano stati tutti pagati,
anche se questo non avrebbe avuto molta importanza, nel posto dove
sarei andato. Sarei partito senza neppure un minicredito intestato a
mio nome: non avevo altro che la nave…
Tutto
sommato, m’ero tirato fuori da una situazione fastidiosa. Speravo
che mi sarebbe piaciuto fare il ricco esule.
Sussultai,
quando il nuovo arrivato sedette di fronte a me. Era uno sconosciuto:
un uomo di mezza età con un costosissimo abito nero-notte e con una
nivea barba asimmetrica. Mi congelai e feci per alzarmi.
— Si
sieda, Mr. Shaeffer.
— Perché?
Me
lo disse mostrandomi un disco azzurro. Un distintivo del governo
della Terra. Lo esaminai per dimostrare che ero un tipo sveglio, non
perché fossi in grado di distinguerne uno vero da uno falso.
— Mi
chiamo Sigmund Ausfaller — disse il funzionario governativo. —
Vorrei scambiare quattro chiacchiere con lei a proposito della sua
missione per conto della General Products.
Annuii,
senza dir niente.
— Per
ordinaria amministrazione, ci è stata inoltrata una registrazione
del suo contratto verbale. Ho notato diversi particolari curiosi. Mr.
Shaeffer, veramente lei accetta un rischio simile per sole
cinquecentomila stars?
— Me
ne danno il doppio.
— Ma
a lei resta solo la metà. Il resto se ne va per pagare i debiti. Poi
ci sono le tasse. Ma lasciamo perdere. Quel che ho pensato, è che
un’astronave è un’astronave, e la sua è ben armata e ha buone
gambe. Una nave da combattimento ammirevole, se fosse disposto a
venderla.
— Ma
non è mia.
— C’è
gente che non starebbe a chiederlo. Su Canyon, per esempio, oppure il
partito isolazionista di Wonderland.
Non
dissi nulla.
— Oppure,
lei potrebbe avere intenzione di darsi alla pirateria. Una
professione rischiosa, la pirateria, e non prendo sul serio l’idea.
Non
avevo neppure pensato alla pirateria. Ma non potevo dire altrettanto
di Wonderland…
— Ecco
quel che volevo dirle, Mr. Shaeffer. Un individuo, se è abbastanza
disonesto, può rovinare la reputazione di tutti gli esseri umani,
dovunque. Molte specie ritengono necessario vegliare sulla morale dei
propri membri, e noi non facciamo eccezione. Ho pensato che lei
potrebbe anche non portare affatto la sua nave alla stella di
neutroni; che potrebbe portarla altrove e venderla. I burattinai non
fabbricano navi da guerra invulnerabili. Sono pacifisti. Il suo
Skydiver è unico.
«Perciò
ho chiesto alla General Products di autorizzarmi a installare una
bomba telecomandata a bordo dello Skydiver. Poiché è situata
all’interno dello scafo, lo scafo non può proteggerla. L’ho
fatta installare questo pomeriggio.
«E
adesso, badi! Se lei non avrà dato notizie entro una settimana, io
farò detonare la bomba. Vi sono parecchi mondi a meno d’una
settimana di volo nell’iperspazio, ma tutti riconoscono l’autorità
della Terra. Se lei fugge, dovrà abbandonare la nave entro una
settimana, quindi credo che difficilmente atterrerà su un mondo
inabitabile. Chiaro?»
— Chiaro.
— Se
mi sbaglio, lei potrà sottoporsi alla macchina della verità e
dimostrarlo. Allora potrà prendermi a pugni sul naso, e sarò ancora
io a farle le mie scuse.
Scossi
il capo. Lui si alzò, s’inchinò e mi lasciò lì seduto
agghiacciato.
Le
cineprese dei Laskin avevano girato quattro filmati. Nel tempo che mi
restava, li rividi parecchie volte, senza notare niente di strano. Se
la nave si fosse imbattuta in una nube di gas, l’impatto avrebbe
potuto uccidere i Laskin. Al perielio si muovevano a una velocità
superiore alla metà di quella della luce. Ma ci sarebbe dovuto
essere l’attrito, e nelle pellicole non vedevo segno di
riscaldamento. Se erano stati attaccati da un essere vivente, era
invisibile al radar e a un’enorme gamma di frequenze della luce. Se
i reattori d’assetto si erano accesi incidentalmente (mi aggrappavo
proprio alle pagliuzze), la luce non si vedeva in nessuno dei
filmati.
Dovevano
esserci forze magnetiche furibonde, nei pressi della BVS-1 ma questo
non poteva aver causato danni. Nessuna forza del genere poteva
penetrare uno scafo della General Products. Non poteva farlo neppure
il calore, escluse certe bande speciali di luce irradiata, visibili
almeno a uno dei clienti stranieri dei burattinai. Ho molte riserve
sullo scafo della General Products, ma riguardano tutte la scialba
anonimità della linea. Oppure, può seccarmi il fatto che la General
Products detenga un monopolio quasi assoluto sugli scafi per
astronavi, e non sia di proprietà di esseri umani. Ma se avessi
dovuto affidare la mia vita, diciamo, allo yacht Sinclair che avevo
visto al drugstore, avrei preferito andare in galera.
La
galera era una delle mie possibili scelte. Ma ci sarei rimasto a
vita. A questo avrebbe pensato Ausfaller.
Oppure
potevo scappare con lo Skydiver. Ma nessun mondo a portata di mano mi
avrebbe accettato, ecco. Certo, se fossi riuscito a trovare un mondo
di tipo terrestre non ancora scoperto, a meno di una settimana da We
Made It…
Inverosimile.
Preferivo la BVS-1.
III
Mi
sembrava che il cerchio lampeggiante di luce diventasse più grande,
ma balenava così di rado che non potevo esserne certo. La BVS-1 non
si vedeva neppure al telescopio. Rinunciai a cercarla e mi adattai
all’attesa.
E
mentre attendevo, ricordai una lontana estate che avevo trascorso su
Jinx. C’erano giorni in cui, non potendo uscire perché la carenza
di nubi aveva inondato la zona della cruda luce biancazzurra del
sole, ci divertivamo a riempire dei palloncini con l’acqua del
rubinetto e a lasciarli cadere dal terzo piano sul marciapiede.
Facevano chiazze bellissime… che si asciugavano troppo presto.
Perciò mettemmo un po’ d’inchiostro in ogni palloncino, prima di
riempirlo. Così le chiazze restavano.
Sonya
Laskin era sul suo sedile, quando i sedili si erano sfasciati. I
campioni di sangue dimostravano che era stato Peter a investirli da
tergo, come un palloncino pieno d’acqua lasciato cadere da una
grande altezza.
Che
cosa poteva penetrare in uno scafo della General Products?
Ancora
dieci ore di discesa.
Slacciai
la rete di sicurezza e andai a fare un giro d’ispezione. Il tubo
d’accesso era largo un metro, quanto bastava per muovercisi in
condizioni d’imponderabilità. Sotto di me, nel senso della
lunghezza, c’era il tubo di fusione; a sinistra il cannone laser; a
destra, una serie di tubi curvi laterali che portavano ai punti
d’ispezione dei giroscopi, delle batterie e del generatore,
dell’impianto di rigenerazione dell’aria, e dei motori da
iperspazio. Era tutto a posto… tranne me. Ero impacciato. I miei
balzi erano sempre troppo corti o troppo lunghi. A poppa,
all’estremità, non c’era spazio per girarsi, perciò dovetti
tornare indietro a ritroso per quindici metri, fino a raggiungere un
tubo laterale.
Mancavano
soltanto sei ore, e io non ero ancora riuscito a trovare la stella di
neutroni. Probabilmente l’avrei vista solo per un istante,
passandole davanti a una velocità superiore alla metà di quella
della luce. La mia velocità doveva essere già enorme.
Le
stelle si stavano colorando d’azzurro?
Mancavano
due ore: ero sicuro che stessero diventando azzurre. La mia velocità
era troppo elevata? Allora le stelle dietro di me dovevano essere
rosse. I macchinari mi bloccavano la visuale posteriore, perciò misi
in azione i giroscopi. L’astronave si girò torpidamente. E le
stelle dietro di me erano azzurre, non rosse. Tutto intorno c’erano
stelle biancazzurre.
Immaginate
la luce che precipita in un pozzo gravitazionale tremendamente
ripido. Non accelera. La luce non può superare la velocità della
luce. Ma può guadagnare energia e frequenza. La luce mi cadeva
addosso, sempre più potente via via che scendevo.
Lo
dissi al dittafono. Quel dittafono era probabilmente lo strumento
meglio protetto di tutta la nave. Avevo già deciso di guadagnarmi la
paga servendomene, proprio come se prevedessi di poter incassare il
mio compenso. Personalmente, mi chiedevo fino a che punto la luce
sarebbe diventata intensa.
Lo
Skydiver era ritornato sulla verticale, e il suo asse attraversava la
stella di neutroni, ma adesso era rivolto con la prua verso lo
spazio. Avevo creduto di aver fermato la nave in posizione
orizzontale. Un’altra goffaggine. Attivai i giroscopi. La nave
tornò a girarsi torpidamente, fino a quando arrivò a metà della
rotazione. Poi sembrò mettersi a posto automaticamente. Sembrava che
lo Skydiver preferisse tenere l’asse puntato verso la stella di
neutroni.
E
questo non mi piaceva per niente.
Riprovai
la manovra, e lo Skydiver oppose ancora resistenza. Ma questa volta
c’era anche qualcosa d’altro. C’era qualcosa che mi tirava.
Allora
slacciai la rete di sicurezza, e precipitai a capofitto nel muso
della nave.
L’attrazione
era leggera, circa un decimo di g. Più che cadere, ebbi la
sensazione di affondare nella melassa. Mi arrampicai di nuovo sul
sedile, mi legai con la rete: e poi, sospeso a faccia in giù, accesi
il dittafono. Raccontai l’episodio con meticolosa precisione, in
modo che i miei ipotetici ascoltatori non potessero dubitare della
mia sanità mentale. — Credo sia accaduto proprio questo, ai
Laskin — conclusi. — Se l’attrazione aumenta, tornerò
indietro.
Se
lo credevo? Non ne avevo mai dubitato. Quella strana, dolce
attrazione era inspiegabile. Qualcosa d’inspiegabile aveva ucciso
Peter e Sonya Laskin. Come volevasi dimostrare.
Intorno
al punto in cui doveva trovarsi la stella di neutroni, le stelle
sembravano punti sbavati di colore a olio, sbavati radialmente. Mi
guardavano rabbiose, con una luce che feriva gli occhi. Appeso nella
rete a faccia in giù, mi sforzai di riflettere.
Passò
un’ora, prima che ne fossi sicuro. L’attrazione cresceva. E la
discesa doveva durare ancora un’ora.
C’era
qualcosa che tirava me, ma non l’astronave.
No,
era assurdo. Che cosa poteva raggiungermi, attraverso uno scafo della
General Products? Doveva essere vero il contrario. Qualcosa spingeva
la nave, la spingeva fuori rotta.
Se
la situazione fosse peggiorata, avrei potuto usare il motore per
compensarla. Intanto, l’astronave veniva spinta lontano dalla
BVS-1, e per me andava benissimo.
Ma
se mi sbagliavo, se la nave non veniva spinta chissà come lontano
dalla BVS-1, il reattore avrebbe lanciato lo Skydiver direttamente in
quelle undici miglia di neutronio.
E
perché il reattore non si era già acceso? Se la nave veniva deviata
dalla rotta, il pilota automatico doveva opporre resistenza.
L’accelerometro funzionava perfettamente. Mi era sembrato a posto,
quando avevo fatto il giro d’ispezione nel tubo d’accesso.
Era
possibile che qualcosa premesse sulla nave e sull’accelerometro,
ma non su di me?
Era
sempre la solita impossibilità: qualcosa che poteva penetrare in uno
scafo della General Products.
All’inferno,
la teoria, mi dissi. Me ne vado. Dissi al dittafono: —
L’attrazione è cresciuta in misura pericolosa. Cercherò di
modificare l’orbita.
Naturalmente,
quando avessi fatto girare la nave con la prua verso lo spazio e
avessi attivato il reattore, avrei assommato la mia accelerazione
alla forza incognita. Sarebbe stata una forte tensione, ma per un po’
ce l’avrei fatta a sopportarla. Se fossi arrivato a meno d’un
miglio dalla BVS-1 avrei fatto la fine di Sonya Laskin.
Lei
doveva aver atteso, sospesa a faccia in giù dentro una rete come la
mia, senza accendere il motore: aveva atteso fino a quando la
pressione era salita e la rete le era affondata nella carne, fino a
che la rete s’era spezzata e l’aveva lasciata cadere nel muso
della nave, dove lei era rimasta, schiacciata e stritolata, fino a
che la forza incognita aveva strappato anche i sedili e glieli aveva
scagliati addosso.
Accesi
i giroscopi.
I
giroscopi non avevano la forza sufficiente per farmi ruotare.
Riprovai per tre volte. Ogni volta, l’astronave ruotava di circa
cinquanta gradi e restava lì, immobile, mentre il ronzio dei
giroscopi diventava sempre più acuto. Appena mollavo, la nave
immediatamente scattava di nuovo in posizione. Stavo a muso in giù
rispetto alla stella di neutroni, e così sarei rimasto.
Mezz’ora
di discesa, e la forza incognita era superiore a un g. I
miei seni nasali erano in tormento. I miei occhi erano maturi, pronti
a cader fuori. Non so se sarei riuscito a sopportare una sigaretta,
ma non ebbi la possibilità di fare la prova. Il pacchetto di
Fortunados mi era caduto dalla tasca, quando ero piombato nel muso
dell’astronave. Adesso era là, a un metro e venti dalla portata
delle mie dita, a dimostrare che la forza incognita agiva su altri
oggetti, oltre me. Affascinante.
Non
resistetti più. Se mi faceva precipitare nella stella di neutroni,
dovevo accendere il motore. E l’accesi. Aumentai la spinta fino a
che mi trovai approssimativamente in condizioni d’imponderabilità.
Il sangue che si era accumulato nelle mie estremità tornò dove
doveva stare. L’indicatore di gravità registrava uno virgola due
g. Bestemmiando, l’accusai di essere un robot bugiardo.
Il
pacchetto di sigarette ballonzolava qua e là nel muso della nave, e
mi venne in mente che un’altra spintarella sulla leva lo avrebbe
portato da me. Ci provai. Il pacchetto fluttuò nella mia direzione,
io allungai il braccio e quello, come un essere senziente, accelerò
per evitare la mano protesa ad afferrarlo. Riprovai ad agguantarlo
mentre mi passava accanto all’orecchio, ma anche stavolta fu troppo
svelto. Quel pacchetto se ne stava andando davvero troppo in fretta,
considerando che io ero praticamente in condizioni d’imponderabilità.
Piombò attraverso la porta della stanza di riposo, continuando ad
accelerare, e sparì nel tubo d’accesso. Dopo qualche secondo, udii
un tonfo secco.
Ma
era pazzesco. La forza incognita già mi attirava il sangue
alla faccia. Estrassi l’accendino, allungai il braccio e lasciai la
presa. Cadde dolcemente nel muso della nave. Ma il pacchetto di
Fortunados era andato a sbattere con violenza, come se io l’avessi
lasciato cadere dall’alto di un palazzo.
Magnifico.
Diedi
un’altra spinta alla leva. Il borbottio dell’idrogeno in fusione
mi ricordò che, se avessi tentato di continuare così, avrei
sottoposto lo scafo della General Products al collaudo più severo
della sua storia: mandarlo a sbattere contro una stella di neutroni a
una velocità pari alla metà di quella della luce. Tirai indietro la
leva. La perdita d’energia mi scagliò violentemente in avanti, ma
io tenni la faccia girata. L’accendino rallentò ed esitò,
all’entrata del tubo di accesso. Poi decise di passare. Tesi
l’orecchio per captare il tonfo, e poi sussultai, quando tutta la
nave echeggiò come un gong.
E
l’accelerometro era esattamente al centro della massa
dell’astronave. Altrimenti, la massa stessa avrebbe sbilanciato
l’ago. I burattinai erano famosi per la loro precisione fino al
decimo decimale.
Onorai
il dittafono di alcuni commenti frettolosi, poi mi misi all’opera
per riprogrammare il pilota automatico. Per fortuna, quel che volevo
era semplice. La forza incognita continuava a essere una forza
incognita, ma adesso sapevo come si comportava. Forse ce l’avrei
fatta a uscirne vivo.
Le
stelle erano rabbiosamente azzurre, deformate in linee striate, nei
pressi di quel punto particolare. Mi sembrava di poterlo vedere,
adesso, piccolissimo, rosso e fioco; ma forse erano uno scherzo
dell’immaginazione. Tra venti minuti, sarei girato intorno alla
stella di neutroni. Dietro di me, il motore brontolava. In effettive
condizioni d’imponderabilità, slacciai la rete di sicurezza e mi
spinsi via dal sedile.
Una
spinta delicata verso prua, e mani fantasma mi afferrarono le gambe.
Cinque chili di peso mi pendevano dalle dita, dalla spalliera del
sedile. La pressione sarebbe dovuta scendere in fretta. Avevo
programmato il pilota automatico perché riducesse la spinta da due g
a zero entro due minuti. Dovevo soltanto trovarmi al centro della
massa, nel tubo di accesso, quando la spinta fosse caduta a zero.
Qualcosa
stringeva la nave attraverso uno scafo della General Products. Una
forma di vita psicocinetica, sperduta su un sole dal diametro di
dodici miglia? Ma come poteva resistere a una simile gravità, un
essere vivente?
Poteva
essere qualcosa sperduto in orbita. Nello spazio c’è vita:
gli outsiders e i semi-a-vela e forse anche altri che non
abbiamo ancora scoperto. Per quel che ne sapevo, poteva essere viva
anche la BVS-1. Non aveva importanza. Sapevo cosa cercava di fare la
forza incognita. Cercava di fare a pezzi la nave.
Non
sentivo nessuna attrazione sulle dita. Mi spinsi verso poppa e andai
a finire contro la parete di fondo, con le gambe piegate. Mi
inginocchiai sopra la porta, guardando giù, verso poppa. Quando
arrivò l’imponderabilità, mi trascinai oltre e mi trovai nella
stanza di riposo, a guardare in basso, verso il muso.
La
gravità cambiava molto più in fretta di quanto mi andasse a genio.
La forza incognita cresceva con l’avvicinarsi dell’ora zero,
mentre la spinta compensatrice del reattore diminuiva. La forza
incognita tendeva a fare a pezzi l’astronave: era due g in
avanti nel muso, due g all’indietro nella coda, e
diminuiva fino a zero al centro della massa. Almeno, così speravo
io. Il pacchetto di sigarette e l’accendino si erano comportati
come se la forza che li tirava crescesse a ogni centimetro, mentre si
spostavano verso poppa.
Il
dittafono era quindici metri più in basso, assolutamente
irraggiungibile. Se avevo altro da dire alla General Products, avrei
dovuto dirlo personalmente. Forse avrei potuto farlo. Perché sapevo
qual era la forza che cercava di fare a pezzi la nave.
Era
la marea.
Il
motore si era spento, e io mi trovavo nel punto centrale della nave.
Cominciavo a sentirmi scomodo, in quella posizione, a braccia e gambe
aperte. Tra quattro minuti avrei raggiunto il perielio.
Qualcosa
scricchiolò nella cabina, sotto di me. Non potevo vedere cosa fosse,
ma potevo vedere chiaramente un punto rosso che brillava tra linee
radiali azzurre, conte una lanterna in fondo a un pozzo. Ai lati, tra
il tubo di fusione e i serbatoi e il resto del macchinario, le stelle
azzurre mi fissavano sfolgorando d’una luce quasi violetta. Non
osavo guardarle troppo a lungo. Ero convinto che avrebbero potuto
accecarmi.
Dovevano
esservi centinaia di gravità, nella cabina. Sentivo addirittura il
cambiamento della pressione. L’aria era rarefatta, a quell’altezza,
cinquanta metri al di sopra della cabina di comando.
E
poi, quasi da un momento all’altro, il punto rosso diventò
qualcosa più di un punto. Il mio tempo era scaduto. Un disco rosso
balzò verso di me; l’astronave mi girò intorno; e io soffocai un
gemito e chiusi gli occhi. Mani gigantesche mi afferrarono le braccia
e le gambe e la testa, delicatamente ma con immensa fermezza, e
cercarono di schiantarmi in due. In quel momento pensai che Peter
Laskin era morto così. Aveva avuto le mie stesse intuizioni, e aveva
cercato di nascondersi nel tubo d’accesso. Ma era scivolato. Come
stavo scivolando io.
Quando
riaprii gli occhi, il punto rosso stava scomparendo.
IV
Il
burattinaio presidente insistette perché mi facessi ricoverare in
ospedale, in osservazione. Non mi opposi. Avevo la faccia e le mani
rosse, infiammate, piene di vesciche, ed ero indolenzito come se mi
avessero bastonato. Riposo e cure premurose, ecco di cosa avevo
bisogno.
Fluttuavo
in mezzo a due lastre-letto, orrendamente scomodo, quando
l’infermiera venne ad annunciarmi una visita. Dalla sua
espressione, capii di chi si trattava.
— Cosa
può passare attraverso uno scafo della General Products? —
gli chiesi.
— Speravo
che fosse in grado di dirmelo lei. — Il presidente si appoggiò
sull’unica gamba posteriore, impugnando un bastoncino che irradiava
un fumo verde, odoroso d’incenso.
— Posso
dirglielo, infatti. La gravità.
— Non
mi prenda in giro, Beowulf Shaeffer. È una faccenda d’importanza
vitale.
— Non
la prendo in giro. Il suo mondo ha una luna?
— È
un’informazione riservata. — I burattinai sono fifoni.
Nessuno sa da dove vengano, ed è molto improbabile che qualcuno
riesca a scoprirlo.
— Sa
cosa succede quando una luna si avvicina troppo al suo primario?
— Va
a pezzi.
— Perché?
— Non
lo so.
— Le
maree.
— Cos’è
una marea?
Ohoh,
mi dissi. — Cercherò di spiegarglielo. La luna della Terra ha
un diametro di circa duemila miglia, e volge sempre la stessa faccia
al pianeta. Ora, voglio che lei scelga due pietre sulla Luna, una nel
punto più vicino alla Terra, una nel punto più lontano.
— Benissimo.
— Dunque,
non è ovvio che se quelle pietre fossero abbandonate a se stesse
cadrebbero lontane l’una dall’altra? Si trovano su due orbite
diverse, badi bene: orbite concentriche, una delle quali è esterna
rispetto all’altra di circa duemila miglia. Eppure le due pietre
sono costrette a muoversi alla stessa velocità orbitale.
— Quella
esterna si muove più velocemente.
— Giustissimo.
Quindi c’è una forza che cerca di fare a pezzi la Luna.
La gravità la tiene insieme. Avvicini la Luna alla Terra quanto
basta, e le due pietre si allontaneranno fluttuando.
— Capisco.
Allora la marea ha cercato di fare a pezzi la sua nave. Era
abbastanza potente per strappare i sedili dai supporti nell’abitacolo
della nave dell’Istituto.
— E
per schiacciare un essere umano. Provi a immaginarlo. Il muso della
nave era a sole sette miglia dal centro della BVS-1. La coda era
cento metri più lontana. Abbandonate a se stesse, sarebbero andate
in direzioni completamente diverse. La mia testa e i miei piedi hanno
cercato di fare la stessa cosa, quando sono arrivato abbastanza
vicino.
— Capisco.
Lei è in muda?
— Cosa?
— Ho
notato che in certi punti sta perdendo il tegumento esterno.
— Oh,
già. Ho preso una brutta bruciatura, causata dalla luce delle
stelle.
Per
un batter d’occhio le due teste si fissarono. Una scrollata di
spalle? Il burattinaio disse: — Abbiamo depositato il resto
del suo compenso presso la Banca di We Made It. Un tale Sigmund
Ausfaller, umano, ha bloccato il suo acconto in attesa che vengano
calcolate le tasse.
— Logico.
— Se
adesso è disposto a parlare con i cronisti, spiegando quanto era
accaduto all’astronave dell’Istituto, le pagheremo
diecimila stars. Pagheremo per contanti, in modo che lei
potrà usare immediatamente il danaro. È urgente. Sono corse certe
voci.
— Li
faccia entrare. — Poi, come ripensandoci, aggiunsi: —
Potrò dir loro, anche, che il suo mondo non ha lune. Per qualcuno
potrebbe essere interessante.
— Non
capisco. — Ma i due lunghi colli si erano tirati all’indietro,
e il burattinaio mi scrutava come una coppia di pitoni.
— Se
aveste una luna, lei avrebbe saputo cos’era una marea. Non poteva
ignorarlo.
— Le
interesserebbe…
— …un
milione di stars? Ne sarei affascinato. Firmerei addirittura un
contratto, se include quello che teniamo nascosto. Che cosa
prova, lei, a venir ricattato?
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