Tra
qui e il Mar Giallo
Interstatale
10, dopo mezzanotte, diretti a ovest. El Paso, ora. Il coach Duprene
dice di poter guidare fino al mattino. Scivoliamo in avanti su un
asfalto vuoto, ma io sto guardando Amanda, raffigurandone l’aspetto
dei tempi del liceo: col seno piccolo in un’uniforme da
cheerleader, capelli castano ramato, occhi verdi, lentiggini
spolverate sul naso. La steppa lascia il posto al deserto, con colori
viola e arancione appena percettibili, allucinati. E una tale
immensità notturna su una terra piatta e monotona mi fa capire
perché certe persone possano aver paura degli spazi aperti.
«Lo
vedi?» chiede il coach.
«Cosa?»
Usa
una bottiglia di Jose Cuervo per tracciare un arco sul parabrezza.
«Tutte le stelle sono sparite. S’è fatto buio pesto».
Mi
sporgo dal finestrino, nell’aria esplosiva, e lui ha ragione.
Attorno a noi non c’è altro che oscurità e, sebbene il cielo sia
invisibile, so che sta per arrivare un temporale. «Sta per piovere».
Mi
passa la tequila. «Come fai a saperlo?»
Picchietto
la cicatrice sotto il mento. «Mascella rotta».
Il
metallo nella mandibola inferiore si contrae, cosa che succede solo
quando l’aria è satura di elettricità. Ho una X di acciaio cucita
nella mandibola perché quando avevo quattordici anni, convinto delle
mie potenzialità, cercai di entrare nella squadra di football. Fu
sette anni fa. Il coach, allora, era ancora il coach dei Port Arthur
Toreadors. Non avevo mai fatto nel passato delle audizioni, ma sono
andato a molte partite. Io ero il ragazzo seduto tranquillo, che si
intravedeva tra i padri urlanti, e che stava di fronte al campo per
guardare le cheerleader in rosso e blu che saltavano e battevano le
mani. La mia cheerleader preferita era la figlia del coach Duprene,
Amanda. Dalla pelle di miele. I suoi occhi si chiudevano quando
sorrideva. Il tipo di cheerleader che prestava attenzione, anzi si
preoccupava del punteggio. Seguiva la partita mentre il resto della
squadra agitava i capelli o discuteva di cosa indossare per la festa
seguente.
«L’hai
detto», dice il coach, e io mi chiedo se non stessi pensando ad alta
voce. Lui annuisce al parabrezza schizzato dalla pioggia. Sono
abituato a pensare ad alta voce, soprattutto quando mi sposto col
furgone. In questo periodo, lavoro ancora per la Lone Star
Environmental, a Port Arthur, e i miei giorni trascorrono guidando
per le strade con una lavagna, annotando i livelli di fosforo e
ammoniaca negli spartiacque, assicurandomi che i contadini non vadano
a spargere la merda delle galline sui loro campi. La sera mi si può
beccare al Petro Bowl o da Chili, mentre cerco di offrire da bere a
maestre delle elementari e segretarie, ma a lavoro guido da solo,
dalle cinque alle sette ore, e in quei giorni tendo a narrare i miei
pensieri, trasformando le mie osservazioni in racconti. Rilke scrisse
«Ama la tua solitudine, per la solitudine è difficile». Ricordo a
me stesso di non pensare ad alta voce.
La
pioggia diventa più intensa, e prima di raggiungere Las Cruces un
torrente straripa, nascondendo la strada sotto una coltre d’acqua.
Il metallo si contorce nell’osso della mandibola. I tergicristalli
non fanno granché, e il coach accosta, strizzando gli occhi. Prende
una pillola da una bottiglietta di plastica marrone.
«È
abbastanza tardi». Manda giù la pillola. Ci stendiamo sui sedili,
mentre la pioggia martella. Si accascia contro il finestrino e si
tira giù il cappellino da baseball. Il coach non è più un coach,
ma riceve comunque uno stipendio generoso dalla Port Arthur High, e
mantiene il titolo onorario di coordinatore sportivo, che è quello
che si ottiene nel Texas orientale con otto vittorie del campionato
di distretto e tre titoli a livello nazionale. Lo guardo respirare,
rilassato, mentre la pioggia fa sembrare i finestrini dei torrenti, e
cerco di collegare l’uomo che dorme così tranquillamente al mio
fianco con l’uomo che conoscevo un tempo, il furioso comandante dal
viso granitico sugli scalini dell’atrio, sui bordi del campo. Cerco
di capire come abbia fatto ad arrivare a questo punto. Lo faccio
perché, in questo periodo, una delle mie principali abitudini è
quella di cercare collegamenti causali, scovare delle storie, e passo
un sacco di tempo a combinarle col passato, come se le risposte
fossero lì. Sono in un periodo in cui mi muovo in tondo, e in cui do
per buone le parole dei poeti e degli uomini famosi. Ho finito il
liceo da quattro anni, vivo nella casa che mia nonna mi ha lasciato e
fino a quando il coach e io a un certo punto non raggiungeremo Los
Angeles, non smetterò di cercare risposte.
La
mia guancia riposa contro il finestrino, perché è freddo, e allevia
il pulsare della mia mascella. Il coach comincia a russare.
Ero
lì il giorno in cui lei andò via. Tagliavo i prati all’epoca, e
la domenica lavoravo nel giardino accanto alla casa del coach
Duprene. Una Chevrolet Blezer rossa parcheggiata sul loro vialetto di
casa. In quel pick-up c’erano quattro ragazzi della scuola che
conoscevo. Il cassone finì con l’abbassarsi per via di scatoloni e
borse, e una tavola da surf. Il liceo era finito, e loro si stavano
tutti trasferendo in California. Il coach Duprene stava a osservare
dal portico, e non salutò con la mano quando il pick-up scivolò
via.
Qualcuno,
ora possiamo dirlo, avrebbe dovuto fermare quella Chevrolet. Non è
un segreto. Lei gira dei film sotto il nome di Mandy LeRock. Ne ho
visto solo uno.
Lampi
di luce sulla pianura illuminano il mio riflesso sul finestrino
piovoso, e mi rendo conto che non sto raccontando tutta la storia. Ci
sono due storie qui. Nella prima ci sono io seduto accanto al coach
Duprene nel suo pick-up. Stiamo guidando verso Los Angeles per rapire
sua figlia.
Nella
seconda storia, il riflesso sul vetro, sono un adolescente di nome
Bobby che vive con due donne di generazioni diverse, una madre e sua
madre, in una vuota landa di pascoli. Quel ragazzo dorme in una
stanza senza aria condizionata e taglia i prati per avere una
paghetta. È uno studente e un atleta, ma segue solo le lezioni. I
suoi voti sono buoni e, nel suo taccuino, disegna sempre lo stesso
disegno da ogni prospettiva: un cacciatorpediniere della marina
militare mentre subisce il contrattacco a largo della costa del
Vietnam del Sud.
Ciò
che unisce le storie, il loro collegamento causale, è Amanda
Duprene. Eravamo compagni di laboratorio al primo anno. L’ora di
biologia è dopo pranzo. Non posso reggere gli esercizi di
dissezione, così Amanda si occupa del taglio. Trovo rifugio
dall’ammoniaca e dalla formaldeide nel profumo dei suoi capelli e
del suo corpo: shampoo, creme, sudore. Il venerdì indossa la sua
uniforme da cheerleader. Gran parte di questi lunghi giorni sono
alleviati dalla vista del sole che si muove sulla parte posteriore
delle gambe di Amanda, da l’una fino alle due del pomeriggio.
Questa è la ragazza che sto cercando.
Dopo
si verificherà una seconda ricerca.
Sarà
compiuta una volta tornati a casa, tramite un’agenzia investigativa
di Huston la cui specialità è rintracciare la gente. Si chiama
Reunions, Inc.; mi costa 300 dollari e si prende due mesi per dare
risultati. Il loro rapporto mi viene inviato via posta in una busta
da lettera bianca con stampato sopra il logo della compagnia: due
palmi che sorreggono tre persone che si tengono per mano sotto un
sole giallo scintillante.
Per
ora, dunque, fuori da Las Cruces, sembra che siamo parcheggiati sotto
una cascata. Il coach russa. Avrei dovuto portare qualcosa da
leggere. Questo è l’accogliente e familiare isolamento che provo a
lavoro, quando mangio il mio pranzo nella cabina di un furgone, e
leggo, diciamo, un libro di Saint-Exupéry sui piloti nel deserto.
Dopo guido il furgone della compagnia per strade sporche che si
allungano per miglia e miglia senza incontrare un’abitazione,
nebbiosi campi di sparti dorati e grano maturo che si estendono fino
all’orizzonte; controllando nelle falde acquifere i picchi di
ammoniaca e la fioritura di alghe; girandomi verso il posto vacante
accanto al mio a raccontare storie.
La
campagna s’increspa con colori incandescenti. Le superfici danno
l’impressione di esser state ripulite con degli esplosivi. Ci siamo
dati una rinfrescata in un’area di sosta per camion a Tucson, e sto
classificando le cose che vedo grazie alle brochure che abbiamo preso
lì. Cactus cholla e piante grasse del deserto. Artemisie. Atreplici.
Tutte le nuvole sono accatastate su una cima in particolare delle
montagne della contea di Manicopa, come un ritratto di un vulcano. A
Theba decidiamo di pescare la nostra cena. È pomeriggio inoltrato;
una sottile diramazione del fiume Gila divide un campo di alte
sterpaglie.
Il
coach incomincia a immergersi in una pila di incerata e arnesi nel
retro del suo pick-up. «Sai fare un lancio a bobina aperta?» mi
chiede.
«No.
Non so niente di pesca».
«Davvero?».
«No».
«Bene.
Cosa sai?».
«Niente».
«Credo
di avere una bobina chiusa qui. Come è possibile che tu sia
cresciuto a Port Arthur senza imparare a pescare?»
Sollevo
le spalle e lascio che il coach scuota la testa mentre scava in cerca
di una canna da pesca. Come dovrei rispondergli? Dovrei raccontargli
delle storie su cosa significa crescere ascoltando i ragazzi che
raccontano storie di pesca? I termini che usavano erano per me come
segrete parole d’ordine: i leader, lo streamer, lo spinning. L’erba
è alta e soffice. Il torrente fa un rumore acquoso e raccoglie la
luce.
Il
coach trova una canna da pesca e dice «Preparerò la lenza per te».
Mi
mostra come applicare un peso fatto di pietra. Mi spiega il miglior
modo per mettere una salamandra brillante ed elastica sull’amo. Il
lancio col mulinello rotante è semplice. Do uno scatto col polso e
la salamandra vola, tracciando un filamento luccicante. Ed eccoci
qui, il coach Andre Duprene e Robert Corresi che pescano –
illegalmente, credo – tra gli alberi di Yucca e pietre colorate.
Guardo i polsi dell’allenatore, il modo con cui le sue mani
richiamano la lenza non appena è stata lanciata, e imito i suoi
movimenti.
Qualsiasi
coach dirà che l’imitazione e la ripetizione sono delle tecniche
di apprendimento fondamentali. Ma cosa potresti imitare se fossi un
ragazzo che per diciassette anni si è svegliato in stanze soffocate
da profumi e cipria? Diciamo, per esempio, ogni volta che i tuoi
vestiti venivano stesi su un filo, erano attorniati da reggiseni e
mutandine rigonfie – quelle di tua madre, striminzite e di pizzo;
quelle della nonna allargate e grandi quanto vele. Diciamo che certe
cose erano sempre alla periferia dei tuoi sensi: l’odore di calze
da donna bagnate, il rosso dei rossetti, le confezioni dei tamponi.
Ti sei scottato un’infinità di volte su arricciacapelli
dimenticati in giro.
Un
sacco di volte eri nervoso e non sapevi perché. L’ora di biologia
è il momento più importante dei tuoi giorni. Ore ad aspettare
l’autobus dopo la scuola, le cheerleader a guardare gli atleti,
quei bei fusti pieni di grazia nei movimenti in campi bruciati dal
sole.
Nella
primavera dei tuoi 14 anni, due settimane dopo aver letto In
our time,
fai un’audizione per la squadra di football, e Eric Dempsey ti
rompe la mandibola. L’autunno seguente, la mamma di Amanda muore.
Sono
così perso in queste fantasticherie che la canna quasi mi schizza
dalla mano. «Ehi, Ehi», dico, e l’allenatore mi dice di
sollevare, tirare la canna e riavvolgere la bobina. La lenza
lampeggia, muove l’acqua, si ferma. Si allenta e risale, e la
salamandra è stata strappata via. Il coach tiene su l’amo.
«Ha
una cosa che ti appartiene. Quando senti strattonare, tira, fai in
modo che abbocchi all’amo. Dopo lavoratelo un po’. Lascialo
divincolarsi, e fai in modo che l’amo scavi fino in fondo». Il
coach mette un’altra salamandra sull’amo e ritorna al suo posto,
circa 50 piedi più in là. Quello strattone alla lenza mi rallegra.
Per il resto della sera tengo la canna tra le mani, sorridendo come
un idiota. Il coach prende due trote, io ne perdo altre due.
Le
cuciniamo su un fuoco che il coach ha acceso in una radura. Trova
delle salse piccanti sotto alcuni vestiti nel suo pick-up. Il sole è
quasi sparito. Ora sono le nove. Sfumature di blu.
«Ha
un buon odore» dico.
«Sono
buone». L’allenatore ha un’altra pinta di Jose Cuervo. Il pesce
scoppietta e crepita. «Bene», dice, «credo sia meglio mettere le
cose in chiaro su come abbiamo intenzione di farlo».
Annuisco.
Il fuoco rende i nostri visi arancioni e tremolanti.
Ci
salta in mente di individuare l’indirizzo preso dalla videocassetta
che posseggo. L’indirizzo appartiene all’American XXXtasy, la
produzione dei film di Amanda. Incominciamo da lì. Trovarla. Il
coach ha rubato il cloroformio dal laboratorio di chimica. Dopo,
dice, assumerà qualcuno per la deprogrammazione. A quanto pare,
negli anni ‘70 si è dovuto deprogrammare molte persone, e il coach
ripone molta fiducia in questa idea.
Ci
sediamo intorno al fuoco che si affievolisce, dividendoci la seconda
pinta di Jose Cuervo della notte. Non sono abituato a bere roba
forte. Di solito si tratta solo di una Heineken, mentre cerco di
parlare con le segretarie al Petro Bowl, tra il martellante fracasso
dei birilli. «Da dove continuano a venir fuori queste bottiglie?»
«Sono
andato a comprarle prima di partire». Si accende una sigaretta. Il
coach indossa dei buoni stivali da cowboy, in pelle d’anguilla
bordeaux, e una camicia di jeans che aveva da quando era più magro.
Ha conservato una testa piena di capelli rossicci e grigi, ancora
tenuti nel suo taglio militare. Mi passa la bottiglia. «Mi hai detto
che tuo padre era un militare?»
«Della
marina», tracanno la tequila.
«Ero
un pilota di jet, sai».
«Lo
so».
Fa
un lungo tiro alla sigaretta. «E cosa gli è successo?»
«L’USS Mullinix.
Si è beccato il contrattacco mentre ricatturavano Quang Tri. Mio
padre era sottoufficiale. Non l’ho mai conosciuto». Questa è la
storia a cui ho creduto per gran parte della mia vita, e mi sento
ancora a mio agio nel raccontarla. «Travis Corresi era uno dei
cinque uomini dispersi».
«Maledizione»,
dice l’allenatore con malinconia, sollevando la bottiglia.
Solo
cinque mesi fa, morendo di cancro al pancreas, mia nonna mi ha detto
che Travis Corresi non ha mai servito sull’USS Mullinix.
Era solo un marinaio mercantile fermatosi a Port Arthur per una
settimana nel 1973, quando mia madre aveva quindici anni. Sono usciti
insieme solo una volta.
Il
coach cicca la cenere nel fuoco. I suoi occhi brillano tra una
ragnatela di rughe, e io riesco a immaginare un evento per ogni linea
disegnata: volare in Vietnam, allenare i Port Arthur Toreadors per
quindici anni, perdere una moglie di nome Marguerite di encefalite,
perdere nello stato della California l’unica figlia. La pelle
attorno ai suoi occhi è un catalogo di delusioni cesellate nella
pelle. Prende il Vicodin ogni due ore. Penso che le cose sarebbero
state meglio per lui se avesse avuto un figlio.
Cambiamo
discorso per parlare del giorno in cui mi sono rotto la mandibola.
«Me
lo ricordo», dice. «Eri tu?», fa un gran sorriso. «Accidenti
ragazzo, Dempsey ti ha sistemato bene, eh?»
Riporto
la conversazione su Amanda. Incominciamo a bere più velocemente.
La
sigaretta trema tra le sue labbra. «Sai, Aveva in sé della gioia
pura. Maggie diceva» – fa un lungo tiro ed espira – «quella è
una ragazza felice».
Annuisco.
«Era sempre allegra».
«Beh».
Corruga il viso. «Ma aveva un carattere. Le cose dovevano andare per
forza così».
Il coach fa un gesto affettato con le dita. Il nostro fuoco arde
sotto le ceneri, il bagliore rosso sta morendo. Rimaniamo in silenzio
finché non butta fuori il fumo e parla espirando con evidente
sforzo. «Non verremo condannati da nessun tribunale».
«Assolutamente».
Ricordo di aver detto la stessa cosa due notti fa, durante la
conversazione da cui tutto questo ha avuto inizio. Stavamo entrambi
bevendo da soli al Petro Bowl, e ho visto un ragazzo alto con una
giacca da baseball lasciare un gruppo di adolescenti e avvicinarsi al
coach alla fine del bar. Quei ragazzini sghignazzavano mentre
guardavano il loro amico porre una domanda al coach. Il coach ha
preso per la gola il ragazzo e l’ha lanciato su un tavolo. Ho
tirato via il coach, e lui ha continuato a divincolarsi nella mia
stretta finché non gli ho detto in un orecchio «Coach, coach.
Anche io l’amavo» Abbiamo finito col prendere una bottiglia e
sederci nel suo pick-up, a ricordarla ad alta voce.
La
testa del coach si abbassa. Le sue mani gli cadono sulla pancia e
sospira. «Quando hai detto che siete usciti insieme?»
«Non
siamo usciti. Eravamo solo amici»
Annuisce
e si solleva mantenendosi su un copertone. Apre il portellone
posteriore e sale nel cassone; il metallo cigola, e il resto della
roba sferraglia. Grida, «ehi – è lo stesso un rapimento anche se
non si chiede un riscatto?»
«Sì»
Ancora
sferragliamenti, e, dopo, il fisso raspare di quando russa. Mescolo
le braci con un legnetto. Voglio credere che stiamo facendo la cosa
giusta – che quella ragazza là a ovest sia la stessa che ho
conosciuto al liceo, e tutto ciò di cui lei ha bisogno è ricordare
chi sia. Rilke ha detto di «innalzare le sensazioni sommerse
dell’ampio passato», ma dopo comprenderò che questo è un
consiglio elusivo, perché la memoria non è interpretativa. Dopo mi
renderò conto del fatto che le aree di sinapsi in cui risiede il
ricordo sono le stesse in cui risiedono brama e desiderio, e a volte
la memoria è solo un veicolo per questi due.
Ma
persino ora, accanto alla brace del nostro fuoco che si smorza, non
credo nelle mie motivazioni. Questo è uno dei miei tratti
fondamentali, e quasi affonda le sue radici nella mia mascella rotta
– il piccolo pezzo di metallo che attraversa il mio mento mi
ricorda che ciò che voglio e ciò che sono autorizzato a fare sono
generalmente due cose separate. Per comprende quello che intendo,
bisogna immaginarmi a quattordici anni: uno e settanta di altezza, 58
chili, in una imbottitura per le spalle troppo larga e un caschetto
che potevo rimuovere senza doverlo aprire.
Il
sole di aprile soffoca il campo. Le cheerleader siedono sugli spalti,
a giudicare il mondo e nascondere sigarette. Mastico il mio paradenti
compulsivamente. Ho passato molto tempo a leggere di Nick Adam,
dell’andare in guerra, dell’essere sparato. Incontro sguardi di
derisione, che sanno della mia etica, che immaginano teorie riguardo
al dolore e all’onore. Quando ci muoviamo per fare una difesa a
campo libero, sono il primo volontario.
Il
coach Duprene mi mette contro Eric Dempsey, un ragazzo dell’ultimo
anno, alto più di uno e ottanta, che è della seconda linea
difensiva. È abbastanza crudele. Ma in quel momento, penso «Mi sta
prendendo sul serio. Mi sta dando una possibilità».
Quando
il fischietto squilla, il coach lancia la palla a Eric. Non esito.
Tengo il baricentro basso e allungo la schiena affondando la testa
nelle spalle e guardando in alto. Non lo schivo e non punto alle sue
ginocchia.
Una
ventata improvvisa, e in realtà sento di essermi spezzato. Dolore
rosso, agghiacciante. Mi rotolo per terra, il sole mi pugnala gli
occhi, l’erba in bocca, gusto di rame caldo, sporco. Prima di
spegnermi, do un’occhiata alle ragazze sugli spalti, piccoli punti
di colore tutti su una riga.
Così,
a 21 anni, credo che la lezione di vita più importante sia che
bisogna ridurre i desideri, o questi potrebbero infiammarsi fino a
far rompere una mascella. Quella croce di sutura in metallo ha tinto
le mie aspettative di paura. I miei occhi guizzano nell’oscurità.
Un tronco, una luna, il rumore del vento sulle rocce. Il coach
sonnecchia. Suoni immaginati echeggiano nelle mie orecchie: il
clangore dei birilli da bowling che cadono, l’artiglieria che
scoppia sulla prua di un cacciatorpediniere. La mia mascella dorme.
Niente pioggia.
I
pali del telefono sembrano croci nel sole. Un grande cartello verde
dice BENVENUTI IN CALIFORNIA. La testa dell’allenatore si piega e
si rialza. Penso stia prendendo più Vicodin.
«È
la prima volta che mi spingo così tanto a ovest» dico.
Il
coach guarda la strada in silenzio e con gli occhi annebbiati.
Giocherella con la radio e trova una stazione in cui Merle Haggard
canta Mama
tried.
Il giorno in cui sua madre morì, l’interfono chiese ad Amanda di
uscire dalla classe di storia. Dal modo in cui raccolse i suoi libri
capii che se lo aspettava. La guardai andar via desiderando di
raggiungerla attraverso la finestra, mentre lei camminava sul
sentiero di cemento. La sua tristezza era così concreta per me, così
vicina.
A
San Diego prendiamo l’autostrada 15, direzione nord. Più tardi
saliamo in uno spazio elevato di segnali: slogan e scritte in
grassetto dai colori primari. Le macchine si accalcano attorno a noi.
Mi chiedo se mia madre sia mai venuta così lontano. La sua prima
cartolina veniva dal Nevada. Ci sono cinque cartoline tutte insieme,
conservate in una scatola di scarpe alla base del mio armadio. Metti
che un giorno verso la fine dell’ultimo anno di scuola torni a casa
e tua madre non c’è più. Tua nonna ti dice che tua madre vuole
star via per un po’. Una nota criptica che comincia con «Ora che
hai diciassette anni», e parla del fatto che ogni persona ha bisogno
di «seguire il proprio cuore». Le chiamate arrivano una volta alla
settimana per due mesi.
Non
guardo più le cartoline. La scatola di scarpe rimane chiusa.
Le
macchine ci spingono e noi ne veniamo fuori, salendo più in alto sul
pendio di cemento. Sotto di noi ci sono parcheggi ovunque, come se
noi stessimo volando su una città fatta solo di parcheggi. L’aria
diventa una coltre radiosa, una nebbia sbiancata. Enormi costruzioni
svaniscono in questa foschia. Qualcosa sta bruciando – il tanfo è
quello tipico di qualcosa di stantio, in decomposizione.
Il
coach aggrotta il viso. «C’è un odore terribile». Biascica le
parole. Una Volvo ci suona quando giriamo nella corsia sbagliata. Nel
febbraio del mio ultimo anno di scuola raccontarono una storia nello
spogliatoio della mio gruppo di atletica leggera. Dicevano che Amanda
si era data alla pazza gioia. Tornando da una partita di basket
sull’autobus della squadra, era accaduto qualcosa di folle. Ululati
e risa. Mi vestii in fretta, cercando di non crederci.
Il
pick-up stride sopra le nostre spalle. Il coach chiude la macchina
sbattendo il portellone in un parcheggio. «Dobbiamo capire dove
diavolo siamo». Le sue pupille ondeggiano in un’oscurità
sanguigna. «Tu... devi guidare tu».
Sprofondo
nel posto del guidatore. Il motore rimbomba e il coach crolla sul
finestrino. Con le mani sul volante, mi sento nuovo e utile. Questo è
quello che vediamo: serbatoi secchi di cemento, asfalto ovunque, aria
distorta dal caldo. Messicani. Gente che indossa occhiali da sole
assomigliante a insetti. Minimarket e cartelloni – immagini di
carne muscolosa e abbronzata, scollature. Do uno sguardo ai miei
bicipiti magri e pallidi.
Una
volta vidi Amanda attraversare un campo da football inondato,
calciando l’acqua a piedi nudi, e io escogitai un programma per
diventare muscoloso in un anno. Gli appunti sull’auto-miglioramento
si accumulano ancora per casa: «un frammento di sacro dovere ti
salva dalla grande paura». «Ogni dolore è il risultato del
desiderio». «Le persone sono generalmente tanto felici quanto
decidono di esserlo». Ma un po’ di tempo dopo Los Angeles, me ne
sbarazzo. Le carte scricchiolano quando le colpisco, e i miei passi
rimbombano sui pavimenti di legno per tutta la casa.
A
una stazione di benzina il coach aspetta nel pick-up mentre un
iraniano mi aiuta con la mappa. Dice che il codice postale 91411 è
«a valle». Dobbiamo andare ancora più a ovest. Il coach butta giù
due pillole di Vicodin. Le strade e i marciapiedi irradiano calore
come una padella.
L’American
XXXstasy è una parte della schiera di negozi nella San Fernando
Valley. L’insegna è un affare di lettere rosse su porte di vetro
grigio, colorate per non permettere di vedere l’interno. Poche
macchine nel parcheggio. Tramonto. Una collinetta si alza in
lontananza alla fine dell’area di negozi, e sulla cima si trova il
T.G.I. Friday’s. Il coach sta ancora guardando fuori dal
finestrino. Picchietta con le unghie contro il portellone, e
accarezza la bottiglia marrone di cloroformio. Non ha detto una
parola da quando ci siamo fermati per chiedere indicazioni.
«Perché
non rimani qui?» dico. «Fammi andare a vedere cosa riesco a
scoprire».
Fa
un passo incerto verso fuori, la testa piegata. «Verrò con te».
«Ascolta,
Coach. Fammi parlare con loro... mi inventerò qualcosa. Credimi, ho
una specie di piano». Gli chiedo di darmi la sua patente e gli
ripeto di fidarsi di me. Lo lascio appoggiato alla macchina.
L’ufficio
ha una moquette di un verde color lime, pestata e chiazzata di
bruciature di sigaretta. Ha un vago odore di disinfettante e
vasellina. Una porta dietro la scrivania all’entrata è chiusa. I
muri sono decorati da vari poster: La
madrina parte II, Vengo
nel futuro e
uno con Mandy LeRock con un impermeabile trasparente sotto un
ombrello – La
donna della pioggia 5: l’occhio del ciclone.
Questo non è il suo seno. Una segretaria mi accoglie, una donna più
vecchia con un pelle bruciata – arancione, sottile come carta.
Indossa occhiali da vista svasati.
«Posso
aiutarla?»
Sorridendo,
le mostro le nostre patenti. «Siamo entrambi di Port Arthur, Texas.
Abbiamo fatto una lunga, lunga strada».
«Cosa
vuole?»
«Lo
vede quell’uomo laggiù?» oltre la vetrina il coach sta
afflosciato contro il cassone, sbuffando soffi di fumo. «Sua figlia
è un’attrice». Indico il poster di Rainwoman.
«Il suo vero nome è Amanda Duprene. È del Texas. La stiamo
cercando».
«Mi
dispiace, ma non abbiamo il permesso di...»
«Signora.
Non vogliamo causare problemi. Ma è che – la questione è che...
lui sta per morire. Sta per morire e vuole solo vedere la sua unica
figlia prima di andarsene».
Lei
osserva fuori dalla vetrata, superando con lo sguardo le mie spalle,.
Nel parcheggio il coach sembra ripiegato su se stesso. La sua schiena
è curva, e tossisce in una mano, il fumo lo ricopre e si dissolve
nella luce del tramonto. Sembra veramente malato.
«Stiamo
cercando di rintracciarla. Questo è tutto. Non daremo problemi a
nessuno».
Per
qualche motivo sospira. «Cos’è?»
«Come?»
«Cos’ha?»
«Cancro
al pancreas»
«Oh,
Signore» mette le mani sulle labbra. «Solo un minuto. Okay? Torno
in un attimo». Prende le nostre patenti e va nella stanza sul retro,
aprendo la porta solo quel tanto che basta per passarci. Un momento
dopo riappare. «Signore, può entrare». Il mio cuore sobbalza, ma
oltre la porta c’è solo un’altra scrivania con dietro un ragazzo
magro. Da un sacchetto di McDonald’s si spargono per la scrivania
delle patatine fritte.
Il
suo volto è segnato dalle cicatrici dell’acne. Controlla le nostre
patenti. «Siete veramente voi?» dice, mentre succhia i suoi
polpastrelli. La segretaria ferma con le mani la porta d’ingresso.
Racconto
la storia del cancro del coach mentre osservo le pile di
videocassette sul tavolo, spiegando quanto sia stato difficile
accompagnare quell’uomo anziano da Port Arthur a qui. L’uomo
mastica le patatine mentre parlo. Alla fine mi dice di dargli un
numero di telefono e che il massimo che può fare è passarlo ad
Amanda. È spiacente, ma non può dare l’indirizzo, soprattutto alla
famiglia.
La
donna mi ferma davanti la porta d’uscita. Mi passa un pezzettino di
carta gialla. «Tu non sai da dove salta fuori questa cosa», dice, e
mi dà un colpetto sul braccio. Sul foglio c’è un indirizzo.
Il
coach annuisce e cade sul suo posto. Tornati in strada, guarda il
cloroformio e dice, «Non so. Non so se usarlo».
Ci
mettiamo altre due ore per trovare l’indirizzo.
Una
casa stile ranch in Van Nuys. Palme nane e felci, palme increspate e
senza fogliame. Una Corvette gialla sul vialetto. Dalla struttura di
una finestra a golfo, una luce color limone è adagiata su tre
rettangoli di prato verde ben curato. Attorno ci sono case simili,
aria calda e accogliente. Parcheggiamo in strada e spegniamo le luci.
«Quindi
cosa vuoi fare?»
La
sua testa, reclinata, si gira lentamente. «Vattene a casa».
«Andiamo.
Ci avviciniamo alla porta? Aspettiamo che esca lei?»
I
suoi occhi sono punti smaltati, assorbiti da rughe e pieghe.
«Coach?»
Chiude
gli occhi. Respiri affaticati. «Va’ a vedere»
«Io?»
«Va’
a vedere». Stringe il cloroformio in un gesto di rassicurazione.
La
luce del portico è spenta, e un bagliore soffuso color rosa viene
emesso dal campanello. Cammino verso di quello, attraverso l’oscurità
tra le finestre, il campanello come la fine di un tunnel.
Vorrei
guardare i suoi occhi verdi, il sorriso che li ha sempre fatti
chiudere. Ricordo il suo viso illuminato da una fiamma tremolante del
becco di Bunsen, la sua risata che scoppiava come coriandoli. Una
volta, l’ho vista allontanare con uno schiaffo la mano di Wendell,
uno studente al terzo anno di liceo, dalla sua gonna, e ho sentito il
travaglio di un’adolescente. Il modo in cui la sua mente era piena
di desideri – un nodo di emozioni che saliva costantemente in
superficie, che la inondava, la trasportava attraverso i campi
tormentati della periferia, superati i centri commerciali e lunghi
acri di erbacce, dritto nei sedili posteriori delle macchine, nei
cassoni dei pick-up.
Busso.
Di nuovo. «Chi è?» arriva da dietro la pesante porta di legno.
«Amanda
Duprene?»
«Chi
è?» ripete la voce.
«Ehm,
Robert Corresi? Da Port Arthur?». La lampada del portico s’illumina
e la luce mi acceca. Il film che ho io si chiama Il
garage del Diavolo,
e ha la piatta, falsa trama di qualcosa girato in un video. La
protagonista della storia ha bisogno di far riparare la macchina, ma
non ha abbastanza soldi. La porta si apre per la lunghezza di una
catenella di sicurezza, e il muso di un cane nero spunta annusando in
quello spazio. Un paio di occhi castani, femminili e iniettati di
sangue, scivolano su di me. La porta si chiude, e sento lo scorrere
del metallo.
In
quel secondo in cui la porta si apre scivolando, prendo coscienza del
mio aspetto, anche se mi ricordo di non avere più l’acne e che il
mio taglio di capelli è migliore di quello che avevo al liceo. Lei
ha la pelle scura, e i suoi capelli rossicci sono stati tinti di
nero. Trattiene un Rottweiler marrone e robusto per il collare. La
luce all’interno le scolpisce le forme, rendendo la sua vestaglia
di un blu quasi traslucido. La sua voce è quella di sempre ma più
cruda, profonda. «Io ti conosco».
Si
manifesta nella luce, diventando concreta, come se si stesse
spostando dal posto dove io l’ho conservata nella mia mente, dritto
verso di me. Le sue sopracciglia sono rifinite in onde perfette; le
sue guance e il suo petto brillano di creme. Lei mi guarda, gli occhi
screziati di rosso, e inclina il capo. «Io ti conosco».
«Robert.
Liceo. Eravamo compagni di laboratorio».
Il
cane mugola, e lei si accovaccia per grattargli le orecchie.
«Silenzio, Pete». Guarda in Alto. «Bobby? Bobby Corresi?».
«Robert.
Nessuno mi chiama più Bobby».
«Che
ci fai qui?».
«Volevo
vederti. Abbiamo guidato a lungo».
Lancia
uno sguardo superando le mie spalle «Noi chi?».
«Io
e tuo padre. Tuo padre è qui. Abbiamo guidato fin qui per
vederti...».
«Cosa?»
Amanda si muove e mi supera, e io vedo il coach fermo nell’oscurità
dietro il suo pick-up, solo pochi tratti ne sono visibili. Lei lo
indica con rabbia. «Perché l’hai portato qui? Cosa vuoi? Portalo
via!».
Prima
di poter ribattere, un uomo fa un passo nel portico. È quasi del mio
peso, ma con muscoli scolpiti e una pelle tostata. Indossa una
canottiera bianca, pantaloni da jogging, e un sacco di orecchini. I
suoi capelli corti e gelatinati rimangono dritti. Mette un braccio
attorno alla vita di Amanda e mi guarda. «Cosa sta succedendo,
piccola?».
A
mala pena gli dà retta. «Niente». Ritorna su di me, e mi chiede,
«perché l’hai portato qui?». Grida guardando oltre le mie
spalle. «Rimani lì! Tu non ti avvicini a questa casa!». Il suo
cane continua a saltellare, scattare, soffocarsi col suo stesso
collare, e ad abbaiare per via della foga nella voce di Amanda.
L’uomo accanto a lei muove gli occhi da me al coach, e poi di nuovo
su di me. In tutto questo, mi accorgo con severa chiarezza di quanto
sia dolce il suo profumo.
Mi
guarda con fare accusatorio. «Quindi?».
«Amanda.
Posso parlarti? Per favore... solo per un secondo. Abbiamo fatto
davvero una lunga strada. Voglio solo parlarti».
I
suoi occhi si socchiudono sospettosi, e il suo cane mi annusa la
patta dei pantaloni.
«Per
favore».
Sbuffa
rumorosamente. «Aspetta qui». E sbatte la porta e mi lascia qui, in
un cono di luce sul suo porticato. Mormorii arrivano dall’interno
della casa. Il fumo delle sigarette del coach s’increspa nella
forma di un tulipano spettrale nel lato opposto del suo pick-up.
Quando
la porta si apre di nuovo, Amanda punta oltre le mie spalle. «Lui
non può entrare. Rimane fuori». L’uomo che le sta vicino cammina
fuori dal porticato e urta con forza la mia spalla mentre passa.
«Anche Tony resterà qui fuori». Si posiziona dietro di me con le
braccia incrociate.
Lei
e il cane fanno un passo indietro, e io entro prima in un atrio con
una composizione di fiori secchi su un tavolo di marmo niente male, e
dopo in una luce soffusa e l’aroma di incenso – al gelsomino,
probabilmente – un blu tremolante di una tv in un salotto, con un
arredamento di cuscini spessi e marroni. Pareti bordeaux, immagini di
paesaggi, un tanfo che arriva dalla cucina. Amanda ammutolisce la tv.
Mi
fa cenno di sedermi sul divano, e piega le gambe sotto di lei,
coprendole con la vestaglia. Il cane Pete si è steso fra di noi su
un cuscino. Sento il mio petto stringersi. Le sue labbra sembrano
punte da un’ape, e immagino sia collagene o qualcosa del genere. I
suoi respiri sono troppo ritmati e fermi sotto la vestaglia. I suoi
occhi sono castani.
«Okay»,
mi dice «ti do cinque minuti».
«Noi
ecco... cioè, io sono venuto per aiutarti, credo. Vogliamo
riportarti a casa».
Fa
roteare gli occhi e ride. «Bene. Vabbè. Perfetto».
«Senti...».
«No, tu senti.
Cosa credi... mi stai giudicando? Tu prendi mio padre là fuori, e, e
cosa...» si strofina il naso e parla velocemente. Sebbene qui l’aria
sia fresca, sono comparse sul suo sopracciglio delle gocce di sudore.
«Voglio dire, cosa sai tu? Noi siamo, cosa, compagni di laboratorio
al primo anno di liceo? Così tu mi conosci, o che altro?». Ha delle
occhiaie di un grigio marcato. Non posso reggere il suo sguardo.
«Indossi
lenti a contatto ora?»
«No».
La domanda la confonde. «Ascolta», fa un gesto che comprende tutta
la stanza. «Do l’impressione di una che ha bisogno d’aiuto?»
Accarezza il cane con forza. «Voglio dire, non prendo droghe da
quasi un anno». Fissa le unghie dei piedi tinte di viola. Sulla sua
caviglia c’è un tatuaggio cuneiforme. «Non faccio un film da
quattro mesi. Voglio dire, non penso neanche di farne altri.
Probabilmente. Ho ricevuto delle offerte tipo, dalla tv e cose del
genere». Si ravvia i capelli, e spazzola via qualcosa dal cuscino
del divano. Ricordo quel suo modo di ravviarsi i capelli. Ha sempre
fatto quel gesto. Riconosco così poche cose in lei.
«Ma
non sei felice. Meriti di più di questo...».
Getta
le mani in aria. «Visto? Questo è quello di cui sto parlando. Tu
vieni qui e, cosa, perché non ti piace il modo in cui vivo?»
«Dai...».
«No, dai tu.
Sul serio, Bobby. Ho una notizia per te. Il mondo è molto più
grande di Port Arthur, Texas. Okay? Molto più grande. Il dannato
modo in cui vivo non sono affari tuoi, come non lo sono di
quell’altro coglione là fuori».
«Tony?»
Si
acciglia con sarcasmo. «Mio padre». Si strofina il naso. «Questa è
la mia vita. La mia. Devi preoccuparti della tua di vita, va bene? Io
ti vengo a dire come vivere la tua vita? Cosa fai, comunque?»
Esito
per un attimo. «Lavoro per la Lone Star Environmental. Supervisiono
le falde acquifere».
Applaude.
«Wow. Fantastico. Non hai mai lasciato la città, giusto? Non sei
mai andato al college, giusto?»
«Non
lo so, non ancora, ma...».
Posa
la testa su una mano e ride. «Non posso credere che tu sia venuto
davvero fin qui. Non posso credere che hai portato qui mio padre ».
Mi fissa intensamente. «Hai fegato».
Guardo
le immagini alle pareti, quadri con paesaggi calmi e spiagge
solitarie, e tutto quello che riesco a pensare è di provare a
convincerla di quello in cui ancora credo. «Ti ho vista una volta.
Era al secondo anno. All’inizio del secondo anno. Credo che non
avessi l’ottava ora quel giorno, ma aveva appena piovuto, e io
stavo aspettando che suonasse la campanella, sai? Annoiato, il cielo
di quel grigio strano, luminoso ma non blu, e volevo solo andare a
casa».
Si
tira l’unghia del pollice.
Mantengo
lo sguardo fisso sui paesaggi nei quadri mentre parlo. «E ho
guardato fuori dalla finestra, e ti ho vista. Stavi camminando per il
campo da football con la tua uniforme, ti eri tolta le scarpe... e
con tutta calma calciavi l’acqua con i piedi. Potevo vederne gli
schizzi. Ti rigiravi ogni tanto. Stavi guardando in alto nel cielo, e
ti ho persa nel sole attraverso il vetro. Sai? In quel punto dove la
luce del sole si infiammava nel vetro. E hai fatto un passo fuori da
quel fascio di luce, calciando l’acqua, con la tua gonna, guardando
con molta distrazione. Non si trattava solo del fatto che fossi bella
– lo eri, ma non era quello». Tutti gli anni conservati nella mia
memoria si condensano nel linguaggio, e credo che questo non sia
ancora abbastanza per rivendicarla. «Ricordo che pensavo di sapere
cosa ti distraesse. Sai? Sebbene non sapessi come chiamarlo, o
metterlo a parole, avevo questa sensazione, un sentimento veramente
calmo, e io ero sempre nervoso, credo, ma un sentimento... come se il
mondo fosse un posto buono, perché potevo vederlo attraverso i tuoi
occhi».
Il
cane cerca la mia gamba e si lamenta lentamente, con un pianto
soffocato. Un telegiornale riporta una storia silenziosa in tv.
Chiude
un po’ la sua vestaglia e tocca la mia guancia. «Bobby. Ascolta,
sei un tesoro. Davvero». Fa sparire i suoi occhi con un sorriso
tenue che quasi echeggia quello che ricordavo. «Però sono sicura
che fossi fatta. Prendevo un sacco di acidi all’epoca».
Le
sue dita seguono la mia mascella, fermandosi sul mento. «Sei dolce.
Ma devi pensare alla tua vita».
Dato
che non posso guardare nulla se non lei, chiudo gli occhi.
Qui
è dove tutte le mie storie convergono. Ogni momento perduto fra
l’esperienza e la memoria s’incontra a un incrocio: la X di
metallo nella mia mandibola, dove le sue dita sono puntate come la
canna di una pistola.
«Posso
avere altri cinque minuti?»
«No».
Qualcuno
lancia un grido, e io apro gli occhi.
Ci
spostiamo fuori, da dove viene l’urlo. Qui vicino, appena fuori il
porticato, il coach è seduto sul prato e si regge il viso fra le
mani. Tony incombe su di lui, i pugni serrati.
Tony
fa sporgere la mandibola. «Ha detto che aveva intenzione di entrare.
Gli ho detto di no».
È
difficile non provare pena per il coach, sgretolato sul prato in quel
modo, a dibattersi con un palmo sugli occhi, eppure ci riesco. Vado
verso di lui, Tony si ferma davanti a me. «Ne vuoi un po’ anche
tu?»
«Tony»,
Amanda lo chiama alle mie spalle. «Forza. È tutto a posto. Vieni
dentro».
Il
coach si allunga verso i miei piedi, tenendo il cloroformio in mano
come un’offerta impotente. La porta sbatte.
Dico
al coach di salire in macchina.
Nel
posto del guidatore, lancio il cloroformio fuori dal finestrino. Lui
sbatte di nuovo il suo portellone con un livido sull’occhio
sinistro. «Ha funzionato alla grande», sbotta.
Lo
studio, seguendo le linee del suo viso con gli occhi, e continuo a
guardarlo dopo che i nostri sguardi si incontrano. Guarda verso il
finestrino, e lo osservo ancora per qualche secondo prima di girare
la chiave.
Il
motore si accende, sussultando, e ci muoviamo.
Ci
sarà una seconda ricerca. A Port Arthur vedo una pubblicità per la
Reunion, Inc. Perché c’è un’altra domanda a cui rispondere, un
pezzo di inconsapevolezza che non continuerò a sopportare. Li
chiamo. Per i due mesi successivi continuo a lavorare per la Lone
Star Environmental, lasciando che gli insulsi campi e gli estesi
cieli limpidi passino come cornici di una pellicola sovraesposta,
senza raccontare storie, e prendendo campioni di terreno e testando
l’aria col naso in cerca di contaminazioni. Solo occasionalmente in
questo periodo penso sul serio al coach Duprene.
Abbiamo
fatto il viaggio di ritorno in silenzio. Io guidavo, e il coach
teneva la sua faccia sul finestrino. Altopiani color argilla e
orizzonti viola. Una mezza idea di montagne nella foschia distante.
Il suo rimorso tanto tangibile quanto la strada sotto le nostre
ruote.
Non
ci rivedremo più.
La
Reunion, Inc mi manda il rapporto che mi è costato 300 dollari. La
busta sta sul tavolo della mia cucina per un giorno intero. Il logo
della compagnia sembra che stia provando a intimidirmi. Dopo cinque
birre apro la busta e prendo due fogli di carta. Questo è quello che
dicono:
Travis
Corresi è un disperso. L’ultima volta che lo si è visto era un
ufficiale in seconda sul SS
Mary Charles,
una nave mercantile che è affondata nel Mar Giallo nel 1989. Ma,
questo, l’ho sempre saputo. Per tutta la mia vita mio padre è
sempre stato un morto nel mare.
Tirando
ogni stralcio di filosofia, ogni massima nella casa, getto le note,
facendo un unico mucchio, e decido che tutto quello che è successo
in precedenza è un’unica storia, la stessa e lunga storia, e se
questa non finisce, i prossimi dieci anni potrebbero essere come gli
ultimi dieci, un periodo di ansiosa immobilità che ti ha visto
piegato, nervoso, come un topo nell’angolo, che ti ha lasciato a
piangere una vita che non hai mai avuto veramente.
Quella
vita è frammentata in scene che a malapena ricordi, il loro
significato dovuto solo alla loro incapacità di imporsi l’uno
sull’altro, finché questa vita, questi momenti, diventano come un
paio di occhi verdi che sei convinto di aver visto una volta, che
occhieggiano verso di te nel cielo di una lunga notte errante, mentre
ti domandi perché stai guidando a quell’ora, e come sei riuscito a
renderlo a te familiare. Anni che non puoi ricordare, perché sei
troppo impegnato a mascherare della vera tristezza con una falsa
nostalgia.
Così
la casa è messa in vendita. L’altra notte hai deciso di non
impacchettare nulla, e di passare il tuo tempo a guardare la lunga
prateria recintata lungo la strada.
Ora
potresti immaginare la tua prossima storia, la tua seconda storia, ma
non essere troppo preciso, non avere una visione a cui aggrapparti,
non creare un’idea in cui perderti. Non guardare una mappa e non
meditare sulla profondità del Mar Giallo; non immaginare la forma
delle sue onde. Non ruminare su genitori perduti, o ragazze perdute.
Resisti alla necessità di spiegare le loro storie, perché forse non
hai afferrato che una risposta non è una soluzione, e che una storia
a volte è solo una scusa.
Se
proprio devi, concediti di immaginare l’umore generale della
storia, i luoghi in cui potrebbe accadere, come sarebbe il clima. Dì
a te stesso che sarà quantomeno un mondo in cui ti senti meno
abbandonato, e dove sei sostenuto da più di una illusione. Se
proprio devi.
Va
via prima di cambiare idea.