LA
CASA EVITATA
A
volte l’ironia è presente persino nei più terribili orrori.
Può
inserirsi direttamente negli avvenimenti, oppure essere dovuta al
caso che ha collegato questi alle persone ed ai posti.
Questo
secondo genere di ironia trova uno stupendo esempio in un fatto
accaduto nell’antica cittadina di Providence.
Quarant’anni
fa, a Providence si recava spesso Edgar Allan Poe, per corteggiare
senza successo Sarah Helen Whitman, la bellissima poetessa di cui si
era invaghito.
Lo
scrittore soggiornava quasi sempre alla pensione Manson in Benefit
Street – che anticamente, ai tempi in cui ospitava uomini come
Washington, Jefferson e Lafayette, si chiamava “La Locanda della
Palla d’Oro” – e faceva le sue passeggiate preferite in
direzione nord, prendendo la medesima strada in cui abitava la
signora Whitman.
Lungo
il versante della collina, si vedeva il cimitero di St. John che, con
tutta una serie nascosta di lapidi del Settecento, esercitava
su di lui un fascino particolare.
L’ironia
sta in questo.
Nel
corso delle sue solite passeggiate, il più grande genio mondiale
dell’Orrido e del Bizzarro era costretto puntualmente a passare
davanti ad una casa molto singolare che si trovava sul lato est della
strada.
Era
una costruzione desolata e tutta diroccata, abbarbicata sul fianco
più ripido della collina, con un ampio giardino abbandonato tipico
dei tempi in cui quella zona era ancora in massima parte aperta
campagna.
Per
quel che ne sappiamo Poe non ne ha mai scritto né parlato, e nulla
ci dice che l’avesse almeno notata.
Ma
per due persone che sono a parte di alcune informazioni, quella casa
è paragonabile – se non superiore nei suoi aspetti orrifici –
alla fantasia più perversa del maestro del Terrore che vi passava
davanti, ignaro, tutte le volte, ed assurge a simbolo beffardo di
tutto ciò che è repellente e mostruoso.
Quella
casa era – e continua ad essere – di quel genere che attira
l’attenzione dei curiosi.
In
origine era una fattoria, o semplicemente un casale, nel classico
stile architettonico coloniale della seconda metà dell’Ottocento
che si vede nel New England, con il suo tipico tetto aguzzo,
l’entrata georgiana, e l’interno rivestito in legno, secondo il
gusto dell’epoca.
Era
rivolta a sud, e le finestre del piano di sotto sul versante est
della collina erano a filo del terreno; la facciata posteriore,
invece, dava sulla strada.
Era
stata costruita, più di un secolo e mezzo fa, dopo il livellamento e
lo spianamento della strada, in quanto inizialmente Benefit Street –
prima chiamata Back Street – era un ripido viottolo che serpeggiava
intorno al cimitero dei primi coloni, e fu allargato soltanto quando
divenne necessario spianare una strada che passasse senza commettere
sacrilegio attraverso le singole proprietà per trasferire le salme
dei defunti nel cimitero di North Burial Ground.
Inizialmente
la parete ad ovest si ergeva su un terreno distante circa sette
metri dal livello stradale, ma l’allargamento di Benefit Street,
avvenuto all’epoca della Rivoluzione, rubò alla casa quasi tutto
il cortile, tanto che, davanti alla cantina, non rimase che un
quadratino di spazio.
Le
fondamenta furono messe a nudo e, per proteggerle, si dovette erigere
un muro di mattoni.
La
porta e le finestre dell’abitazione si ritrovarono perciò sul
suolo stradale, molto vicine alla nuova linea di trasporti.
Quando
venne edificato il marciapiede, circa un secolo fa, venne inghiottito
anche il poco spazio rimasto, e probabilmente Poe, durante le sue
passeggiate, poteva vedere solamente un viottolo di mattonelle grigie
che costeggiava il marciapiede, al termine del quale, ad una distanza
di circa tre metri dalla strada, si ergeva il nucleo originario della
casa.
I
campi coltivati, raggiungendo la collina, si estendevano quasi fino a
Whalton Street.
Lo
spazio rimanente a sud dell’edificio, confinante con Benefit
Street, era in dislivello con il marciapiede, e veniva a costituire
in tal modo un perimetro rialzato che era protetto da un alto muro di
cinta incrostato di muschio.
Nel
muro c’era una scaletta di gradini che portava all’interno della
recinzione, in un prato dissestato dagli improvvisi affossamenti, tra
muriccioli grondanti umidità e giardinetti abbandonati, le cui urne
di cemento ormai crollate ed i cui vasi di ferro arrugginito
giacevano tristemente ai piedi di una porta battuta dal vento, con
una lanterna rotta, quattro colonne ioniche traballanti ed un
frontone triangolare vacillante.
Da
bambino avevo sentito dire che il numero di gente morta in quella
casa era davvero sconcertante.
Per
questo, mi spiegarono, i proprietari l’avevano abbandonata
vent’anni dopo averla edificata.
Era
un luogo insalubre, probabilmente per via del muschio e delle muffe
cresciuti in cantina, o forse per il suo odore di putredine, o anche
per i corridoi gelidi, oppure a causa dell’acqua del pozzo.
Ognuno
mi dava una spiegazione diversa.
Fu
solo attraverso il diario di mio zio, il dottor Elihu Whipple,
appassionato di storia locale, che venni in seguito a conoscenza
delle ipotesi più truculente e spaventose congetturate dall’antica
servitù e dal popolino superstizioso.
Delle
ipotesi che però non trovarono conferma, e che nessuno ricordava più
quando la popolazione di Providence cominciò a crescere ed il paese
divenne una cittadina.
Il
motivo è che non si pensava che quella casa fosse “infestata dagli
spettri”; non era nata alcuna leggenda di catene cigolanti,
misteriosi soffi d’aria gelida, luci smorzate o facce incollate
alle finestre.
I
più superstiziosi sostenevano a volte che era “sfortunata”, ma
questo era il commento più azzardato.
Il
fatto inquietante che stava all’origine dell’avversione della
gente per quella casa, era il numero esorbitante di persone che
morivano lì, o meglio, che “erano morte” lì, visto che
l’abitazione, dopo certi fatti accaduti più di sessant’anni
prima, era stata abbandonata per mancanza di affittuari.
Le
vittime non erano morte all’improvviso o per una stessa causa, ad
esempio una malattia fulminante: la loro salute, invece, diventava
inspiegabilmente precaria poco prima della morte.
Quelli
che non morivano diventavano sofferenti, in diversa misura, di una
sorta di anemia o deperimento, oppure perdevano la ragione.
Tutta
una serie di circostanze che non deponevano di certo a favore della
salubrità della casa.
E
c’è da dire, inoltre, che le abitazioni confinanti non
presentavano una simile malsanità.
Questo
era tutto quello che ero riuscito a sapere, prima di convincere mio
zio, con la mia pressante insistenza, a mostrarmi quel suo diario che
alla fine ci indusse ad addentrarci in un’orribile ricerca.
Quando
io ero piccolo, la casa abbandonata era rimasta vuota, con i suoi
alberi grotteschi, il suo prato dissestato e sbiadito, e la sua
sterpaglia dalle forme d’incubo che aveva soffocato tutta la
terrazza, sulla quale non si vedeva mai neppure un uccello.
Noi
ragazzi giocavamo spesso là intorno, e ricordo ancora la paura
infantile che mi incuteva non solo la stranezza inquietante della
vegetazione grottesca, ma anche, e specialmente, l’odore e
l’atmosfera lugubre che aleggiavano sull’edificio in rovina,
nella cui porta principale, che era rimasta aperta, ci intrufolavamo
spesso in cerca del brivido.
Le
finestre a pannello si erano rotte quasi completamente, e su tutto
l’interno incombeva un’aria di decadenza: sulle imposte
scardinate, sulla carta da parati lacera, sull’intonaco cadente,
sulle scale pencolanti e sui pochi pezzi di mobilio smangiucchiato
che stavano ancora in piedi.
Polvere
e ragnatele davano un ultimo tocco a quel quadro orrendo, ed era
ritenuto davvero coraggioso quel ragazzo che fosse salito
volontariamente in soffitta, una grande stanza dall’alta architrave
illuminata unicamente dalla luce che filtrava dalle finestre
dell’abbaino, ingombra da un incredibile ammasso di sedie, casse
sfondate e filatoi, deformati, da tutti quegli anni di abbandono, in
sagome spaventose e sinistre.
Ciononostante,
la soffitta, in fondo, non era la zona più paurosa della casa.
Era
la cantina, invece, tutta umida e muffita, ad incuterci più
spavento, anche se si trovava sul livello stradale, separata dalla
confusione del marciapiede da una porta leggera e da un muro di
mattoni costruito davanti alla finestra.
Non
riuscivamo a deciderci tra l’andare lì dentro a giocare ai
fantasmi, o lo scappare via di corsa per tutelare lo spirito e la
ragione: sia perché il putridume laggiù era più fetido, sia perché
ci spaventavano le escrescenze fungose che d’estate, quando
pioveva, spuntavano biancastre sul pavimento di terra.
Quelle
muffe, dalle forme fantastiche come la vegetazione del prato, erano
davvero ripugnanti; somigliavano a grottesche imitazioni di funghi
velenosi e di pipe indiane, e si vedevano solo lì.
Marcivano
in fretta e, quando arrivavano ad una fase precisa di decomposizione,
assumevano una leggera fosforescenza.
Era
a causa loro che chi passava da quelle parti di notte mormorava che,
dietro i vetri rotti di quelle finestre, brillavano i fuochi fatui
delle streghe.
Noi
ragazzi non entravamo mai nella cantina di notte, neanche se avevamo
una voglia matta di giocare ad Halloween; di giorno, però,
riuscivamo spesso a vedere la fosforescenza delle muffe, soprattutto
durante le giornate cupe ed umide.
E
poi ci affascinava una certa cosa, una cosa parecchio curiosa e,
nonostante la sua stranezza, decisamente emozionante.
Mi
riferisco ad una chiazza biancastra che si imprimeva sulla terra del
pavimento, un piccolo deposito viscido di muffa o di salnitro, che
spesso credevamo di individuare tra le fungosità che si sviluppavano
nella cucina intorno all’enorme camino.
Una
volta ci parve disegnasse i contorni di una figura umana piegata in
due.
Ma
la chiazza non si formava regolarmente; certe volte non la si vedeva
affatto.
Un
pomeriggio – pioveva, e l’illusione sembrava preternaturalmente
reale – mi era sembrato di scorgere una specie di vapore
giallognolo, molto gassoso ed evanescente, sollevarsi dal deposito di
salnitro ed infilarsi nella bocca spalancata del camino.
Così
mi era venuto in mente di raccontarlo a mio zio.
A
sentire quest’idea assurda, mio zio aveva sorriso, ma io notai che
sul suo viso passava un’ombra.
Successivamente
venni a sapere che in alcune superstizioni popolari c’erano
allusioni del genere: si parlava di forme ferme e demoniache che
venivano risucchiate dal grande camino, e delle radici di certi
alberi che camminavano fino alla cantina allungandosi per le
fondamenta vuote.
2.
Mio
zio mi permise di leggere tutti gli appunti e le notizie riguardanti
la casa abbandonata presi da lui solamente quando divenni grande.
Il
dottor Whipple era un uomo di vecchio stampo, molto metodico e
sensato; la sua curiosità verso quella casa non era dovuta a
convinzioni superstiziose.
La
sua ipotesi si basava, infatti, sulle condizioni ambientali
particolarmente malsane del posto, e non aveva alcuna relazione con
il Soprannaturale.
Egli
sapeva, però, che quegli stessi aspetti bizzarri della faccenda che
avevano destato vivamente il suo interesse, potevano creare nella
mente di un ragazzo fantasie morbose.
Il
dottore, che non si era mai sposato, era un gentiluomo all’antica
dai capelli bianchi e la barba perfettamente accorciata, ma i cui
commenti sul folklore locale indignavano spesso gli irriducibili
custodi della tradizione come Sidney S.
Rider
o Thomas W. Bicknell.
Abitava
con un unico domestico in una villetta georgiana abbarbicata,
sfidando la legge dell’equilibrio, sulla ripidissima stradina di
North Court Street, che sorgeva vicino alla casa coloniale dove suo
nonno – cugino del famigerato pirata Capitan Whipple, autore
della messa a fuoco del Gaspee, la goletta dell’Armata Navale di
Sua Maestà, nel 1772 aveva votato, il 4 maggio 1776, in favore
dell’indipendenza della colonia del Rhode Island.
Nella
sua umida biblioteca dagli scaffali bianchi e tarlati e dal soffitto
basso, raccolta intorno al caminetto scolpito e con i vetri coperti
dall’edera, serpeggiavano i ricordi e fermentavano i suoi pensieri
sulla casa di Benefit Street.
Quell’insalubre
dimora era piuttosto vicina al dottore, in quanto Benefit Street
partiva proprio dal colle di fronte a casa sua, quel colle scosceso
che aveva attirato i primi coloni.
Quando
divenni uomo, e gli chiesi nuovamente con insistenza di raccontarmi
tutte le superstizioni popolari sorte intorno alla casa abbandonata,
mio zio mi mostrò una curiosa cronaca.
Era
molto lunga, zeppa di cifre e dati genealogici, e vi si trovavano
continui riferimenti a fatti inesplicabili ricorrenti, ed allusioni
ad una malvagità soprannaturale che mi sconcertavano più di quanto
impressionassero mio zio.
Eventi
che all’apparenza non avevano alcun nesso, trovavano un’improvvisa
correlazione, e particolari a prima vista insignificanti aprivano
invece possibilità incredibili.
Il
mio interesse divenne quasi morboso, se paragonato alla mia ingenua
curiosità infantile.
La
rivelazione che avevo tanto atteso mi catapultò in una ricerca
febbrile, ed alla fine mi portò ad una fissazione vera e propria per
il Brivido, la quale condusse sia me che mio zio ad un epilogo
rovinoso.
Perché
lui insistette ad accompagnarmi, ed al termine di quella notte non
fece più ritorno.
Adesso,
privato della guida di quell’animo nobile, che aveva dedicato tutta
la vita al bene, alla comprensione, alla sensibilità ed al sapere,
mi sento solo.
In
suo ricordo ho fatto edificare un urna di marmo nel cimitero di St.
John
– il posto tanto caro a Poe – quel piccolo bosco di ombrosi
salici dove lapidi e tombe giacciono serenamente tra la chiesetta
grigia e le abitazioni di Benefit Street.
Iniziando
con un numero incredibile di date, la storia della casa abbandonata
seguitava oltre senza rivelare nulla di strano né riguardo alla sua
edificazione, né riguardo alla famiglia operosa e benestante che
l’aveva fatta costruire.
Fin
dall’inizio, però, incombeva su di essa un senso di minaccia che
poi si verificò molto presto.
Le
dettagliate notizie di mio zio cominciavano con il racconto della sua
costruzione, avvenuta nel 1763, la quale veniva descritta in
minuziosi particolari.
Sembrava
che nella casa avessero abitato, da principio, William Harris,
la moglie Rhoby Dexter con i figli: Elkanah, nato nel 1755, Abigail,
nata nel 1759, e Ruth, nata nel 1761.
Harris
faceva il marinaio, e si era arricchito avviando un florido commercio
con l’India, in particolare con una società le cui azioni
appartenevano alla Compagnia di Obadiah Brown e Nipoti.
Nel
1761, alla morte di Brown, la nuova Compagnia di Nicholas Brown &
Co.
lo
nominò comandante del Prudence un brigantino di 120 tonnellate
costruito a Providence, permettendogli così di costruirsi la casa
che aveva sempre sognato da quando aveva messo su famiglia.
La
zona scelta da Harris – il nuovo quartiere residenziale di Back
Street, sorto dopo il recente spianamento di un fianco della collina
a ridosso dell’allegra Cheapside – era il massimo consentitogli
dai suoi mezzi, e la casa corrispondeva perfettamente al sito.
Le
limitate finanze non gli consentivano altro, perciò Harris si
trasferì velocemente nella sua nuova dimora prima che nascesse il
quinto bambino.
Il
piccolo nacque in dicembre ma, purtroppo, già morto.
Per
più di un secolo e mezzo, quella casa non avrebbe mai assistito alla
nascita di un bimbo vivo.
Nell’aprile
successivo tutti i suoi figli si ammalarono, ed Abigail e Ruth
morirono entro la fine del mese.
Il
dottor Job Ives stabilì che la causa era stata una febbre infantile,
nonostante altri medici attribuissero il decesso ad un deperimento
organico.
Qualunque
fosse, comunque, quella malattia doveva essere contagiosa, visto che
Hannah Bower, la domestica, sì ammalò e ne morì il giugno
seguente.
Inoltre
l’altro servitore, Eli Liddeason, si lamentò di una persistente
debolezza tanto che, se non si fosse improvvisamente innamorato della
nuova cameriera, Mehitabel Pierce, sarebbe partito subito per la casa
paterna a Rehoboth.
L’uomo
morì l’anno dopo.
E
quella fu davvero un’annata disgraziata, visto che segnò anche la
morte di William Harris, fiaccato, poveretto, da lunghi e ripetuti
soggiorni al clima della Martinica, dove aveva fatto la spola per
dieci anni per via dei suoi commercì.
La
vedova, Rhoby Harris, non si riprese più dal dolore, e l’ulteriore
trauma della morte del primogenito Elkanah, verificatasi due anni
dopo, fu il colpo di grazia per il suo cervello già turbato.
Nel
1768, infatti, la leggera forma di pazzia di cui fu preda costrinse i
familiari a confinarla al piano di sopra.
La
signorina Mercy Dexter, sorella maggiore della povera donna, si era
trasferita nella casa per occuparsi degli altri.
Era
una donna pratica e molto energica ma, immediatamente dopo il suo
arrivo, cominciò a mancarle la salute.
Mercy
voleva molto bene alla sua sventurata sorella, ed in particolare era
affezionata all’unico nipote rimastole, William, il quale,
nonostante fosse sempre stato un bimbo sano e forte, adesso che era
cresciuto era diventato gracile e malaticcio.
In
quello stesso anno morì la cameriera, Mehitabel, e l’altra
domestica, Preserved Smith, lasciò l’occupazione senza nessuna
spiegazione, o meglio, a causa di certe dicerie, mettendo la scusa
che l’odore di quella casa non gli piaceva.
Mercy
ebbe difficoltà a trovare nuovi domestici per diverso tempo, poiché
i sette decessi, insieme all’ultimo caso di pazzia, si erano
verificati nel breve giro di cinque anni, e la gente aveva cominciato
a fare delle chiacchiere, chiacchiere che in breve si erano
trasformate in credenze superstiziose.
Fortunatamente,
alla fine riuscì ad assumere due domestici di fuori città: Ann
White, una donna scontrosa di North Kingstone, nella contea di
Exeter, ed un valido cameriere di Boston, Zenas Low.
Ann
White fu la prima persona a dare una forma precisa alle dicerie del
popolino.
Mercy
avrebbe dovuto riflettere bene, prima di prendere a servizio una
contadina di Nooseneck Hill, perché in quella zona, com’è
risaputo, circolavano e circolano le peggiori superstizioni.
Nel
non lontano 1892, una congregazione di Exeter ha riesumato un
cadavere e lo ha trafitto al cuore per mettere fine a certe presunte
“visite” nocive alla tranquillità e alla salute dei cittadini.
è
facile immaginare, quindi, quale fosse il clima in quella contea nel
1786 .
Ann
aveva la lingua troppo lunga, cosicché Mercy, dopo pochi mesi
soltanto, si vide costretta a licenziarla, e al suo posto assunse una
ragazza dolce ed affezionata che veniva da Newport, una certa
Maria Robbins.
La
povera Rhoby Harris, frattanto, nei suoi attacchi di follia,
farneticava di sogni e fantasie raccapriccianti.
In
certi momenti, i suoi urli erano veramente insopportabili e, quando
la prese poi la continua ossessione di orrori segreti, il figlio
dovette trasferirsi per un po’ dal cugino, Peleg Harris, il quale
abitava in Presbiterian Lane, vicino alla nuova scuola.
Adesso
che il ragazzo era lontano da casa, la sua salute sembrava migliorata
e, se Mercy avesse avuto del buon senso, lo avrebbe lasciato da
Peleg.
La
cronaca non specifica bene quello che diceva la signora Harris
durante le crisi isteriche, o almeno riporta delle frasi talmente
assurde da non essere minimamente attendibili.
Certo,
è inspiegabile che una persona che conosceva appena il francese
gridasse spesso per ore in quella lingua parole volgari e disgustose,
o che quella stessa donna, sorvegliata in continuazione e mai sola,
urlasse che c’era un essere dagli occhi spiritati che la fissava e
la mordeva continuamente.
Nel
1772 morì il cameriere Zenas, e la signora Harris, quando venne a
conoscenza del fatto, cominciò a ridere in maniera talmente
scomposta da non sembrare più la stessa persona.
L’anno
seguente spirò anche lei, e venne seppellita nel cimitero di North
Burial Ground accanto al marito.
Quando
scoppiò la guerra con la Gran Bretagna nel 1775, sebbene avesse solo
sedici anni e soffrisse di salute, William Harris si arruolò nel
Corpo Segnalatori sotto il generale Greene, e da quel momento in poi
fu perfettamente sano e si coprì di medaglie.
Nel
1780, quando era già diventato capitano del battaglione del Rhode
Island, al comando del colonello Angell, si innamorò di una certa
Phoebe Hetfield di Elizabethtown, la sposò e l’anno
seguente, dopo essersi congedato, la condusse a Providence.
Furono
tutti molto felici del ritorno del giovane soldato, ma ci furono
anche delle ombre.
La
sua casa era ancora la stessa, e Back Street era stata allargata e
aveva cambiato nome in Benefit Street.
Ma
l’energica Mercy Dexter era diventata una povera vecchia dalla
voce roca e dal colorito esangue… esattamente la stessa
trasformazione dell’unica cameriera superstite, Maria.
Nell’autunno
del 1782, a Phoebe Harris nacque una bambina già morta, ed il 15
maggio Mercy Dexter si accomiatò da una vita virtuosa, onesta e
dedita al dovere.
William
Harris, che ormai era certo dell’insalubrità della casa, prese la
risoluzione di andarsene e chiuderla per sempre.
Dopo
aver preso temporaneamente una camera per lui e la moglie alla
“Locanda della Palla d’Oro”, riaperta da poco, fece costruire
una casa più salutare in Westminster Street, dall’altra parte del
Great Bridge, in una zona sorta da poco.
Fu
lì che venne alla luce suo figlio Dutee, e la famiglia vi restò
finché l’espansione commerciale non la costrinse a tornare sulla
collina dall’altra parte del fiume, dove sorgeva Angell Street, nel
recentissimo quartiere residenziale di East Side.
Ed
in quello stesso quartiere l’ultimo degli Harris, tale Archer,
costruì una lussuosa abitazione, pur se di pessimo gusto, con il
tetto alla francese.
William
e Phoebe morirono nello stesso anno, vittime dell’epidemia di
febbre gialla del ’97, e Dutee venne allevato dal cugino Rathbone,
il figlio di Peleg Harris.
Rathbone,
essendo un tipo molto pratico, nonostante William avesse manifestato
chiaramente il desiderio che rimanesse abbandonata, affittò la casa
di Benefit Street.
Egli
sentiva come un obbligo verso il proprio figlioccio investire i suoi
beni, pertanto non si curava minimamente dei decessi e delle malattie
che si verificavano di continuo nella casa, obbligandolo a trovare
nuovi affittuari, né tantomeno della ripugnanza che l’abitazione
cominciava ad ispirare nella gente.
Probabilmente
non ebbe alcun problema quando il Consiglio Comunale, nel 1804, gli
ingiunse di disinfettare la casa con canfora, zolfo e catrame in
seguito alla misteriosa morte di quattro persone, che sembrava fosse
dovuta a febbri epidemiche nonostante in quell’epoca fossero
già scomparse.
Si
pensava che nella casa aleggiasse il fetore caratteristico di
tali febbri.
Anche
Dutee non si occupò molto della proprietà, dal momento che era
stato cresciuto come un marinaio ed aveva servito con onore il
capitano Cahoone, a bordo del Vigilant, nella guerra del ’12.
Una
volta tornato a casa, nel 1814 prese moglie, ed ella gli diede un
figlio in quella storica notte del 23 settembre 1815, in cui un
terribile uragano sommerse più di mezza città, sollevando onde
talmente alte su Westminster Street, da inondare tutte le finestre
della casa degli Harris, in una specie di battesimo del mare per il
neonato Welcome, figlio d’un marinaio.
Welcome
non sopravvisse al padre, ma morì con onore nella battaglia di
Fredericksburgh del 1862.
Sia
lui che il figlio Archer, riguardo alla proprietà di famiglia
abbandonata, sapevano soltanto che non si trovavano affittuari, forse
per via dell’umidità e dell’aria stagnante dovute a tutti quegli
anni di abbandono.
Ed
infatti, dopo i decessi avvenuti al suo interno nel 1861, e passati
inosservati per il fermento della guerra, la casa non ebbe più
inquilini.
Carrington,
l’ultimo degli Harris, era a conoscenza del fatto che era deserta,
e che intorno vi erano state costruite diverse leggende ma, finché
io non gli raccontai la mia esperienza, non sapeva altro.
Era
stata sua intenzione demolirla e costruirvi vicino una nuova
palazzina: dopo aver sentito la mia storia, però, decise di
lasciarla in piedi, cambiare le tubature, ed affittarla.
In
quegli anni gli orrori erano stati dimenticati, e non ha mai avuto
difficoltà a trovare inquilini.
3.
Non
ci vuole molto ad intuire quanto rimanessi impressionato dalle
vicende degli Harris.
Sembrava
che dietro quegli avvenimenti si celasse una forza malefica
soprannaturale; una malvagità, ovviamente, intrinseca alla
casa, e non ricollegabile alla famiglia.
Questa
mia sensazione, veniva confermata dalle vaghe notizie raccolte da mio
zio nel corso degli anni tramite chiacchiere di domestici, ritagli di
giornale e le copie di alcuni certificati di morte ottenuti da altri
suoi colleghi: tutte queste informazioni risultavano in qualche modo
collegate.
Non
pretendo che suddetto materiale sia ritenuto una prova attendibile
solo perché mio zio amava il passato ed aveva sempre messo la casa
al centro del suo interesse; tuttavia posso mettere in rilievo dei
particolari frequentemente ricorrenti in numerose e disparate
testimonianze.
I
domestici, ad esempio, ponevano al centro delle loro chiacchiere gli
influssi malefici, le muffe e la fetida cantina della casa.
Alcuni
servitori – specie Ann White – si erano rifiutati di utilizzare
la cucina nel seminterrato, e c’erano per lo meno tre
leggende molto particolareggiate che parlavano delle forme
demoniache e semiumane assunte dalle radici degli alberi, e
delle strane fungosità biancastre che si sviluppavano intorno alla
cantina.
Questi
ultimi particolari mi interessavano in special modo, dal momento che
si riallacciavano a quello che avevo visto da bambino, ma ero certo
che il vero significato dell’intera vicenda era stato deformato
dalle superstizioni locali, le quali si basavano essenzialmente su
leggende di fantasmi.
Ann
White, con la sua tradizione folkloristica di Exeter, aveva messo in
circolazione la storia più bizzarra ed al tempo stesso più
affascinante, sostenendo che sotto la casa era stato sepolto con ogni
probabilità un vampiro – uno di quei morti che mantengono intatto
il proprio corpo succhiando il sangue e il respiro dei vivi – e che
quello, di notte, vagava con la sua ombra ed il suo spirito rapace.
L’unico
modo per distruggere un vampiro era, a detta delle nonne, riesumarlo
dalla tomba e bruciargli il cuore, o almeno trapassargli il petto con
un paletto.
L’insistenza
continua di Ann perché si facessero ricerche sotto la cantina, era
stato il motivo principale del suo licenziamento.
Ma
i racconti della donna fecero presa su molta gente, poiché offrivano
una spiegazione più plausibile rispetto alle altre storie, visto che
la casa era stata costruita su un antico cimitero.
Non
era tale circostanza, invece, a suscitare il mio interesse: era il
modo perfetto in cui essa combaciava con altri fatti.
Con
le lamentele della cameriera precedente, ad esempio, Preserved Smith,
che non aveva mai potuto conoscere Ann: secondo lei, qualcosa, di
notte, veniva a “succhiarle il fiato”; con l’inspiegabile
anemia che aveva causato il decesso delle quattro vittime delle
febbri del 1804, anemia certificata dal dottor Chad Hopkins; e
con le misteriose parole, infine, della povera Rhoby Harris, che
farneticava nel delirio di un essere seminvisibile dalle zanne
affilate e dagli occhi spiritati.
Nonostante
non creda alle superstizioni che non abbiano un fondamento di verità
scientifica, la conoscenza di questi particolari mi mise addosso una
sensazione sgradevole, che poi divenne più acuta quando lessi due
ritagli di giornale, molto lontani nel tempo, che parlavano dei
decessi avvenuti nella casa abbandonata.
Uno
era del Providence Gazette and Country-Journal del giorno 12
aprile 1815, e l’altro del giornale Daily Transcript and Chronicle,
del giorno 27 ottobre 1845: in entrambi veniva enfatizzato
l’inesplicabile ripetersi di una circostanza orrifica e molto
macabra.
Nei
due casi di morte che i giornali riportavano, sembrava che entrambe
le persone, poco prima di morire – nel 1815 un’anziana e mite
signorina di nome Stratford, e nel 1845 un’insegnante di mezz’età
di nome Eleazar Durfee – avessero fatto una cosa ripugnante: con
gli occhi sbarrati tutte e due, avevano cercato di mordere al collo
il medico.
Fatto
ancor più inspiegabile, però, erano diverse morti per anemia, tutte
precedute da un’improvvisa follia, nel raptus della quale i malati
avevano morso i familiari sul collo o ai polsi.
Morti
in seguito alle quali nessuno aveva voluto più affittare quella
casa.
Sto
parlando degli anni 1860-61, quando mio zio iniziava la professione
medica.
Prima
di partire per la guerra, egli aveva sentito alcuni colleghi più
anziani che discutevano della cosa.
Il
particolare decisamente inspiegabile, era che le povere vittime
persone ignoranti, visto che solo a quelle si riusciva ad affittare
la casa – avevano pronunciato delle bestemmie in francese, cosa
assurda per chi non l’aveva studiato.
E
lo stesso era accaduto con la sventurata Roby Harris, cent’anni
prima.
A
mio zio era venuta la mania di raccogliere tutte quelle informazioni
una volta tornato dal fronte, quando il dottor Chase ed il dottor
Whitmarsh gli avevano parlato direttamente del caso.
Compresi
che aveva ripensato continuamente alla vicenda, e notai che un
analogo interesse dimostrato da parte mia gli faceva piacere; che
anzi, il vedermi così ben disposto e incuriosito, lo invitava ad
espormi le sue opinioni come con altri non avrebbe mai osato fare.
Non
era andato avanti con l’immaginazione quanto me, ma anche lui era
sicuro che in quella casa ci fosse qualcosa di decisamente anormale,
o per meglio dire di molto afferente al macabro e al grottesco.
Per
conto mio, ero determinato ad andare in fondo alla faccenda, e
cominciai subito a darmi da fare, non solo ricontrollando tutte le
prove acquisite, ma anche raccogliendone delle altre.
Ebbi
diversi colloqui con il vecchio Archer Harris, proprietario della
casa, prima che morisse nel 1916, e da questo e dalla sorella nubile
superstite, Alice, ottenni un’autentica miniera di
particolari.
Ma
quando chiesi loro che relazione potesse sussistere tra la Francia, o
il francese, e la casa abbandonata, mi risposero che ne sapevano
quanto me.
Archer,
anzi, non ne sapeva proprio niente, e la signorina Harris poteva
dirmi soltanto che, forse, suo nonno, Dutee Harris, poteva essere a
conoscenza di qualcosa.
Il
vecchio marinaio, sopravvissuto al figlio Welcome morto in guerra da
due anni, non conosceva direttamente la storia, però ricordava che
Maria Robbins, la sua prima balia, credeva che nei deliri in francese
di Rhoby Harris – alla quale era rimasta accanto soprattutto negli
ultimi giorni – si nascondesse un significato soprannaturale.
Maria
aveva lavorato nella casa dal 1769 al 1783, anno in cui la famiglia
aveva cambiato abitazione, ed era presente quand’era morta
Mercy Dexter.
Una
volta gli aveva parlato di una cosa strana relativa agli ultimi
istanti di vita di Mercy, ma lui non ricordava più niente, oltre il
fatto che era accaduto qualcosa di strano.
Anche
sua nipote ricordava vagamente la circostanza, ma lei ed il fratello
avevano scarso interesse per la casa; chi se ne occupava era
Carrington, figlio di Archer e attuale proprietario.
Con
Carrington andai a parlare dopo la mia esperienza.
Dopo
aver ottenuto tutte le informazioni possibili dagli Harris, andai a
spulciare nei registri cittadini con una meticolosità anche più
zelante di quella dimostrata da mio zio.
Volevo
conoscere la storia di quella casa fin dal primo insediamento di
coloni nella regione, nel 1636; se era necessario, e se il loro
folklore poteva tornare in qualche modo utile, ero anche disposto a
risalire ai tempi degli indiani di Narragansett.
Dapprincipio
scoprii che il terreno faceva parte del lungo e stretto appezzamento
di John Throckmorton, che come altre simili concessioni si snodava, a
striscia, da Town Street lungo il fiume ed arrivava fino ad una linea
di demarcazione corrispondente all’incirca all’odierna Hope
Street.
La
terra appartenente a Throckmorton, successivamente era stata
suddivisa in diversi lotti, ed io mi recai diverse volte a
controllare i confini precisi del terreno dove sarebbe passata la
futura Benefit Street.
Alcune
leggende dicevano che i Throckmorton seppellivano i loro estinti in
quel terreno; dopo aver esaminato meglio le registrazioni catastali,
però, seppi che le salme in seguito erano state trasferite nel
cimitero di North Burial Ground, che si trova sulla Pawtucket West
Road.
Ma
all’improvviso trovai qualcosa che mi mise in grande eccitazione;
qualcosa che scovai per pura fortuna, dal momento che poteva
facilmente sfuggire visto che stava insieme ad altri documenti.
Era
la registrazione del lascito di un piccolo terreno donato nel 1677 ad
Etienne Roulet e consorte.
Alla
fine l’elemento francese era spuntato fuori… ma accompagnato
dall’oscuro presagio di un nuovo orrore risvegliato da quel
nome nella mia memoria satura di eterogenee letture fantastiche.
Cominciai
a studiare febbrilmente l’assetto del terreno tra il 1747 ed il
1759, prima, cioè, che venisse spianata Back Street, e che la strada
venisse raddrizzata.
E
scoprii quello che presentivo: che i Roulet, cioè, avevano
seppellito i propri defunti proprio nella zona in cui era stata
costruita in seguito la casa, e che in nessun documento si parlava di
un trasferimento postumo delle salme.
La
registrazione da me trovata, anzi, terminava in modo poco chiaro, e
dovetti prendere d’assalto sia l’Associazione Storica del Rhode
Island, sia la biblioteca Shepley, prima di trovare finalmente
la porta che era stata aperta dal nome di Etienne Roulet.
Al
termine delle mie ricerche, scovai certe informazioni piuttosto vaghe
– ed orribili – che andai immediatamente a verificare recandomi
ad esaminare la cantina della casa abbandonata con rinnovata
minuziosità.
A
quanto sembrava, i Roulet erano arrivati da East Greenwich nel
1696, seguendo la costa ovest di Narragansett’s Bay.
Erano
degli ugonotti di Caude, e il consiglio degli abitanti di Providence
aveva fatto una feroce opposizione prima di consentire loro di
stabilirsi in città.
Dopo
la revoca dell’Editto di Nantes, erano stati costretti a
trasferirsi ad East Greenwich, ma già lì avevano incontrato una
certa impopolarità, e le superstizioni locali dicevano che le vere
ragioni di tale impopolarità non erano da ricercarsi nei pregiudizi
razziali e nazionalistici, e neanche nelle lotte tra coloni francesi
ed insediati inglesi – lotte che neppure il governatore Andros era
riuscito ad appianare.
Alla
fine, però, il loro acceso protestantesimo – troppo acceso, a
detta di alcuni – e le difficili condizioni in cui vivevano dopo
essere stati allontanati dal paese ed essere stati costretti a
discendere la baia, avevano commosso il Consiglio di Providence, che
aveva concesso loro asilo.
E
il cupo Etienne Roulet, che se la cavava decisamente meglio a leggere
strani libri e a disegnare diagrammi incomprensibili che con la
zappa, dovette accettare un lavoro nel magazzino del molo gestito da
Pardon Tillinghast, in Town Street, una zona della città molto a
sud.
Diverso
tempo dopo, tuttavia – all’incirca quarant’anni dalla morte di
Etienne – era scoppiata una specie di sommossa popolare, al termine
della quale non si sentì più parlare dei Roulet.
Dopo
un secolo, la gente si ricordava ancora benissimo di loro, e
raccontava le vicende dei Roulet come qualcosa di molto importante
che aveva sconvolto la vita tranquilla di quella cittadina portuale
del New England.
Paul,
il figlio di Etienne, era il soggetto preferito delle chiacchiere;
era un tizio scorbutico ed eccentrico, e probabilmente era stato il
suo strano comportamento a far scoppiare la sommossa durante la
quale la sua famiglia era stata cacciata dalla città.
Ed
anche se a Providence non si era mai creato quel clima di caccia alle
streghe che caratterizzava i vicini centri puritani, le vecchie più
pettegole avevano stabilito che le sue preghiere non erano né dette
al momento giusto, né indirizzate alla persona giusta.
Probabilmente
era questo il palinsesto sul quale era stata ricamata la leggenda
conosciuta dall’anziana Maria Robbins.
Solo
uno slancio di fantasia, o una rivelazione successiva, avrebbero
potuto spiegarmi che cosa c’entravano i Roulet con i vaneggiamenti
in francese di Rhoby Harris e delle altre vittime della casa
abbandonata.
Mi
domandai quante persone, tra coloro che conoscevano la leggenda,
avessero notato l’ulteriore collegamento che c’era tra questa ed
i fatti spaventosi rivelatimi dalle mie ricerche inquietanti, e più
esattamente dalla lettura della raccapricciante storia, registrata
negli annali cittadini, di “Jacques Roulet, di Caude”, la cui
vicenda rappresentava uno dei punti più oscuri negli annali
dell’orrore.
Costui
era stato condannato al rogo nel 1598 come servitore del demonio, ma
salvato successivamente dal Parlamento di Parigi e confinato in
manicomio.
Lo
avevano trovato nel bosco, completamente coperto di sangue e di
brandelli di carne umana, dopo la morte di un ragazzo che era stato
assalito e poi smembrato da due lupi.
Una
delle due bestie era stata vista andarsene via tranquilla .
Quella
sì che era una storia sensazionale, corredata addirittura di precisi
riferimenti al nome ed al posto, ma ero certo che le pettegole di
Providence ne fossero all’oscuro.
Se
ne fossero venute a conoscenza, la coincidenza del nome “Jacques
Roulet” con quello di “Etienne Roulet”, sarebbe bastata a
scatenare il panico e la violenza.
Non
erano state le loro maldicenze a far precipitare gli eventi e a
provocare quella sommossa culminante nella cacciata dei Roulet dalla
città.
Tuttavia,
non era possibile che una debole eco di quelle lontane vicende fosse
arrivata all’orecchio dei miei concittadini, contribuendo a
determinare l’episodio di violenza? A quel punto cominciai a far
visite sempre più frequenti alla casa abbandonata, scrutando
meticolosamente tutti i muri, osservando attentamente la grottesca
vegetazione del prato, ed esaminando ogni più piccolo millimetro del
pavimento di terra della cantina.
Alla
fine, con il permesso di Carrington Harris, rimediai una chiave per
aprire la porta cigolante della cantina che dava direttamente su
Benefit Street, visto che mi premeva di avere una rapida via di
uscita, anziché essere costretto a percorrere tutte le scale buie ed
il salotto a pianterreno, prima di infilare la porta principale.
Ed
in cantina, dove gli influssi malefici erano maggiori, passai interi
pomeriggi a rovistare in ogni angolo, mentre vedevo il sole che
trapelava dalle finestre coperte di ragnatele che davano sulla
strada.
Sapere
che a pochi passi da me, solo una porta aperta mi separava dal mondo
esterno, mi dava un senso di sicurezza.
Tuttavia
i miei sforzi non vennero premiati da nessuna scoperta: non
trovai che noiosa umidità, qualche leggera esalazione dannosa, e
leggere tracce di salnitro sul pavimento.
Mi
venne in mente che molti passanti dovevano avermi visto trafficare lì
dentro dalle persiane rotte.
Alla
fine, accettando un suggerimento di mio zio, decisi di introdurmi
nella casa di sera, e così, in una notte da lupi, entrai nella
cantina per osservare con una torcia elettrica le fungosità
fosforescenti, ripugnanti e grottesche, sviluppatesi per terra.
Quella
notte trovavo la casa più lugubre che mai, e non fu del tutto una
sorpresa quando scorsi – o credetti di scorgere – tra i depositi
albini di muffe, la stessa “figura”, una sagoma umana
rannicchiata, che avevo visto diverse volte da bambino.
Ma
non era mai stata così definita come quella sera e, mentre la
osservavo, mi parve di vedere di nuovo il medesimo vapore giallastro
che mi aveva tanto atterrito quel pomeriggio piovoso di tanti anni
prima.
Era
proprio accanto al camino, sopra la chiazza antropomorfa, che
si sollevò quella cosa: un’esalazione leggera, miasmatica,
leggermente luccicante che, mentre tremolava nell’aria umida,
pareva disegnare forme imprecise ed inquietanti che evaporavano
progressivamente in una sorta di nebulosità, e si infilavano poi su
per la cappa del camino lasciando un lezzo tremendo.
Era
uno spettacolo davvero orrendo, specie per me che sapevo della
chiazza.
Eppure
mi feci coraggio e restai là, a guardare come un ebete il
vapore che svaniva nel camino.
E,
mentre guardavo, ebbi l’impressione che quella cosa si girasse e mi
fissasse, con occhi più immaginari che reali.
Quando
mio zio seppe dell’accaduto, si allarmò e, dopo averci pensato su
per più di un’ora, prese una risoluzione.
Valutando
l’importanza di quel fenomeno e che significato aveva per il nostro
lavoro, decise che era necessario andare insieme in quella casa per
scoprire – e si augurava anche distruggere – l’orrore che
vi si nascondeva.
Mi
propose dunque di fare una notte, o più, di continua vigilanza in
quella cantina putrida e muffita.
4.
Giovedì
25 giugno 1919, dopo aver messo a parte della nostra decisione
Carrington Harris – al quale nascondemmo, però, i nostri veri
sospetti – io e mio zio portammo nella casa due sedie, una branda
da campeggio, e certe apparecchiature scientifiche piuttosto pesanti
e complicate.
Lasciammo
tutto in cantina, quindi coprimmo le finestre con dei lenzuoli e ci
accordammo che saremmo tornati quella notte stessa a fare la nostra
prima veglia.
La
porta che conduceva al pianterreno l’avevamo chiusa accuratamente
e, una volta accertato di avere con noi la chiave della cantina,
eravamo disposti a lasciare lì le nostre costose
apparecchiature – ottenute in segreto e ad una cifra da capogiro –
ignorando per quanto tempo avrebbero dovuto rimanervi.
Intendevamo
restare alzati fino a tardi, e quindi fare dei turni di riposo di due
ore, prima mio zio e dopo io; per dormire avremmo usato la branda.
La
rapidità con la quale mio zio ottenne dalla Brown University e
dall’armeria di Cranston Street tutto l’occorrente, e la
naturalezza con la quale capeggiò la nostra azione, testimoniano
quante energie avesse quell’incredibile e vitalissimo vecchio di
ottantun anni.
Elihu
Whipple si era attenuto per tutta la vita alle norme generali che
raccomandava ai suoi pazienti come medico e, se non fosse stato per
via di quello che successe, oggi sarebbe ancora vivo ed in perfetta
salute.
Le
uniche persone che sospettino la verità sull’accaduto siamo
soltanto io e Carrington Harris.
Fui
costretto a raccontarglielo, perché Harris, come proprietario della
casa, aveva diritto di sapere da che cosa l’avevamo liberata.
Era
già al corrente della nostra ricerca, ed io ero più che certo che,
dopo la morte di mio zio, sarebbe stato d’accordo con me che alla
gente era meglio dare poche spiegazioni.
Carrington
sbiancò mentre raccontavo, ma mi dette ragione, e decise che
la cosa migliore da fare era affittare la proprietà, ora che
poteva farlo senza preoccupazioni.
Sostenere
che in quella notte burrascosa non avessimo paura, sarebbe mentire
spudoratamente.
Ho
già avuto occasione di dire che non credevamo a sciocche
superstizioni, ma l’esercizio della scienza e l’abitudine alla
riflessione, ci avevano insegnato che il normale universo
tridimensionale costituisce soltanto una piccolissima frazione della
vita e dell’energia cosmiche.
Nel
nostro caso, prove palesi scaturite da registrazioni autentiche,
facevano supporre l’esistenza di alcune forze molto resistenti e,
dal punto di vista umano, molto maligne.
Dire
che dessimo la caccia a vampiri o licantropi sarebbe tutt’altro che
esatto.
Diciamo,
invece, che non avevamo l’assoluta certezza di poter negare la
possibilità che esistessero in natura dei tipi di energia e di
sostanza differenti, i quali vengono registrati molto raramente nello
spazio tridimensionale per via della separazione tra questo ed altre
regioni cosmiche, le quali tuttavia sono sufficientemente vicine alla
nostra sfera di realtà da manifestarsi sporadicamente in fenomeni
che noi, a causa della nostra ignoranza, non potremo comprendere.
In
sintesi, io e mio zio pensavamo che una serie di fatti inoppugnabili
dimostrassero l’esistenza di una forza che si esercitava sulla
casa, un’influenza costante nel tempo, riconducibile ad uno dei
primi coloni francesi arrivati due secoli prima, e probabilmente
ancora attiva per via di leggi a noi ignote del movimento atomico ed
elettronico.
La
storia della famiglia Roulet, stando almeno alle registrazioni,
sembrava indicare che i suoi componenti avessero una sorta di
anormale familiarità con le emanazioni esterne di quella forza:
emanazioni oscure che in tutta l’altra gente, invece,
ispiravano solamente repulsione e paura.
Era
dunque tanto assurdo – ci chiedevamo – ipotizzare che i
tafferugli del 1730 avessero messo in moto misteriosi poteri cinetici
nella mente perversa di uno o più di loro – del tenebroso Paul,
forse – che erano poi sopravvissuti al linciaggio della folla
e alla morte dei loro corpi, fermandosi in uno spazio
pluridimensionale in forma di energie, guidate sempre e comunque
dall’odio assoluto verso tutta la comunità? Alla luce delle più
recenti teorie sulla relatività e sulle interazioni atomiche non era
inconcepibile dimostrarlo.
Bastava
immaginare un nucleo sconosciuto di energia o di materia aliena, più
o meno incorporea, alimentata da invisibili sottrazioni minime
all’energia vitale (il corpo) ed al fluido psichico delle persone
nelle quali penetrava, in alcuni casi impossessandosene
definitivamente.
Quell’emanazione,
o poteva essere pericolosamente nemica, oppure era spinta
semplicemente dall’istinto di autoconservazione.
In
entrambi i casi, una tale mostruosità altro non poteva essere in
base ai nostri parametri mentali andava considerata un’intrusa o
una bizzarria contro natura, ed in quanto tale doveva essere
distrutta come obiettivo prioritario da chiunque avesse cara la vita,
la salute e la sanità mentale.
La
cosa che ci preoccupava di più, era il fatto che non avessimo la
minima idea quanto all’aspetto col quale l’entità ci sarebbe
potuta apparire.
Non
si era manifestata mai a nessuno sano di mente, ed erano stati in
pochi a percepirne chiaramente la presenza.
Poteva
trattarsi di pura energia – una sorta di etere invisibile, estraneo
al regno materiale – o di una sostanza in parte corporea, ma anche
di una composizione cellulare sconosciuta ed ostile, in grado di
trasformarsi a suo capriccio in evanescenti agglomerati solidi,
liquidi e gassosi, o in qualcosa di ancora diverso.
La
chiazza antropomorfa che si imprimeva sul pavimento, l’esalazione
giallastra, ed il grottesco rigonfiamento delle radici degli alberi
cui accennavano talune leggende, lasciavano supporre che si trattasse
di una forma umanoide, ma non si poteva dire con certezza se quella
vaga somiglianza con l’uomo fosse reale ed immutevole.
Avevamo
architettato due strumenti offensivi per distruggerla.
Il
primo, era un Tubo di Crookes riadattato ed azionato da un
grosso accumulatore di elettricità, al quale avevamo aggiunto degli
schermi riflettenti speciali nel caso l’entità fosse incorporea, e
ci volesse la potenza devastante delle radiazioni per colpirla; il
secondo, consisteva in due lanciafiamme del medesimo tipo impiegato
nell’ultima guerra, nel caso fosse in parte corporea e suscettibile
di distruzione fisica.
Avevamo
portato i lanciafiamme poiché, proprio come i superstiziosi
contadini di Exeter, eravamo prontissimi a bruciare il cuore di
quella creatura, se un cuore l’aveva.
Sistemammo
in posizione strategica le apparecchiature: vicino alla branda
e alle sedie, e vicino alla chiazza dalla strana forma le cui
grottesche esalazioni andavano a finire nella cappa del camino.
Quando
collocammo gli strumenti, comunque, quel deposito si vedeva appena e
così, la notte seguente, quando tornammo per la nostra sorveglianza.
Avevo
dubitato di averla vista davvero, ma poi mi erano tornate in mente
tutte le dicerie.
Cominciammo
la nostra veglia alle dieci della sera e, per lo meno all’inizio,
non successe niente.
La
cantina era fiocamente rischiarata da qualche raggio di luce
proveniente da un lampione stradale esposto alla pioggia.
La
debole fosforescenza delle grottesche fungosità, di cui avremmo
fatto volentieri a meno, illuminava le pareti ormai prive di
intonaco, il miasmatico terreno con le sue muffe, pezzi di vecchie
sedie e tavoli e rottami di altro mobilio, le larghe assi e le travi
pesanti del soffitto, la porta sgangherata che dava sui ripostigli e
conduceva all’altra ala dell’abitazione, le scale di pietra in
rovina ed il loro corrimano di legno gonfiato dall’umidità, il
fosco e sinistro camino dove erano rimaste ferraglie arrugginite di
uncini, alari, spiedi, carrucole e il portello del forno per il pane;
e poi la nostra branda, le nostre sedie da campeggio, e la nostra
apparecchiatura.
Come
tutte le altre volte, avevamo lasciato aperta la porta che dava sulla
strada, per crearci una veloce via di fuga in caso la situazione ci
sfuggisse di mano.
Pensavamo
che la nostra sorveglianza notturna avrebbe fatto uscire allo
scoperto qualsiasi entità malvagia si nascondesse in cantina;
inoltre, grazie alle nostre apparecchiature, ritenevamo di poter
fronteggiare e distruggere l’entità subito dopo averla
sufficientemente osservata.
Il
tempo che ci sarebbe voluto non era prevedibile, e sapevamo anche che
ci eravamo cacciati in una rischiosissima avventura, dal momento che
non avevamo idea delle sembianze della creatura.
La
posta, però, valeva il rischio, e quindi affrontammo da soli, con la
massima determinazione, questo azzardo, consapevoli che chiedere
aiuto ad altri ci avrebbe coperti di ridicolo, facendo fallire,
inoltre, con buona probabilità il nostro piano.
Restammo
alzati fino a tardi a discutere della cosa, ma poi il sopore di mio
zio mi indusse a ricordargli che era venuto il suo turno di riposo di
due ore.
Una
volta ritrovatomi lì dentro da solo, a notte alta, mi prese una
specie di tremenda paura: dico “da solo” perché se la persona
che è con te dorme, e tu non puoi contare su di lei, ti ritrovi più
solo di quanto immagini.
Il
respiro di mio zio era profondo; lo accompagnava la pioggia che,
filtrando in cantina con uno sgocciolio snervante, scandiva il ritmo
delle sue inspirazioni ed espirazioni.
Se
quella casa era già umida col sole, quando pioveva sembrava di stare
addirittura in un acquitrino.
In
una simile situazione, mi misi ad osservare l’intonaco cadente
delle pareti alla debole luce delle muffe e di quei pochi raggi di
luce filtrati dai lampioni della strada attraverso le finestre
schermate.
Ad
un certo momento, oppresso dalla lugubre atmosfera di quel posto,
spalancai la porta e guardai fuori, risollevandomi alla vista
familiare della strada ed aspirando a piene boccate l’aria pulita
della notte.
Niente
di nuovo; avevo ormai la sensazione che la mia veglia fosse inutile.
Feci
diversi sbadigli, ed intanto lo sforzo di restare desto accresceva il
mio nervosismo.
Poi
venni attratto dai movimenti di mio zio.
Nella
prima mezz’ora di sonno aveva smaniato diverse volte, ora, però,
anche il suo respiro non era tranquillo, e a tratti si sentiva una
specie di sospiro più forte di un semplice gemito soffocato.
Lo
illuminai con la torcia, e vidi che aveva la faccia talmente
incollata all’altra sponda della branda, da spingermi ad
osservarlo meglio nel caso stesse soffrendo.
Probabilmente
mi ero allarmato inutilmente, come uno stupido.
Forse
l’atmosfera del posto e lo scopo della nostra spedizione mi avevano
suggestionato, dal momento che la posizione che aveva assunto mio zio
nel sonno non aveva niente di innaturale o di sospetto.
Eppure
la sua faccia tradiva una curiosa agitazione, di certo
provocata da qualche incubo che stava facendo, che non era da lui.
L’espressione
del suo viso, che era sempre sereno, adesso sembrava tormentata da
emozioni contrastanti.
è
probabile che fu proprio quell’espressione a mettermi in allarme.
Adesso
che lo vedevo respirare affannato e così agitato, gli occhi
leggermente aperti, mio zio non mi sembrava più un uomo solo, ma un
insieme di uomini, e mi dava persino la sensazione di essersi
estraniato dal proprio corpo.
Ad
un certo punto cominciò a bisbigliare qualcosa;
l’atteggiamento delle sue labbra e il luccichio dei suoi denti
divennero strani e paurosi.
All’inizio
non capivo che cosa mormorasse, ma poi – con un sussulto di terrore
– riconobbi certe parole che mi paralizzarono, per la lingua
in cui erano pronunziate.
In
quel momento ripensai, però, ad alcune traduzioni laboriose da lui
eseguite per scrivere certi articoli di antropologia e di storia
antica per la Revue des deux Mondes.
Perché
l’anziano dottor Elihu Whipple stava parlando in francese, e le
poche parole che riuscivo ad afferrare, dovevano riferirsi certamente
alle più fosche leggende mai pubblicate da quel celebre giornale
parigino.
Inaspettatamente,
con la fronte madida di sudore, il dormiente si alzò di colpo
in piedi, non perfettamente sveglio.
I
suoi bisbigli in francese salirono ad un urlo in inglese e mio
zio, con la voce roca, cominciò a gridare freneticamente: “Il mio
respiro! Il mio respiro!”.
Dopo
tornò completamente in sé, la sua faccia cominciò a rilassarsi, e
mi afferrò la mano iniziando a raccontarmi un sogno, del quale
compresi il recondito significando tremando di terrore.
Mi
disse che, dopo aver visto una serie di scenari banalissimi, era
stato catapultato in una scena talmente bizzarra, da non somigliare
neanche ad una sola cosa di tutto ciò che conosceva o di cui aveva
letto.
Era
di questo mondo ma, al tempo stesso, non lo era: si vedeva un
guazzabuglio indistinto di geometrie che avevano, sì, qualcosa di
familiare, ma anche quei pochi tratti familiari formavano insiemi
completamente sconosciuti e sconvolgenti.
Immagini
disordinate e indefinibili si sovrapponevano l’un l’altra,
alterando i principi basilari del tempo e dello spazio nel fondersi
in combinazioni del tutto illogiche.
Durante
quelle visioni caleidoscopiche, comparivano delle istantanee – se
il termine è ammissibile – di una chiarezza fantastica, ma di una
eterogeneità pazzesca.
In
un momento credeva di trovarsi in un pozzo senza fondo, insieme ad
una folla di volti truci incorniciati da lunghi boccoli che avevano
in testa cappelli a tre punte abbassati aggressivamente su di lui.
In
un altro pensava di essere tornato all’interno di una casa
antichissima, il cui mobilio ed i cui occupanti mutavano in
continuazione, cosicché non riconosceva mai con certezza le facce,
il mobilio o la stanza stessa: per non parlare delle porte e delle
finestre, che ondeggiavano e cambiavano più degli oggetti
presumibilmente mobili.
Quello
che stava per rivelarmi sugli abitanti di quella casa era molto
sconcertante, ma al tempo stesso lo imbarazzava.
Titubando,
come se temesse di non essere creduto, mi disse che quelle
enigmatiche facce avevano indiscutibilmente i tratti somatici
degli Harris.
E
poi aggiunse che aveva provato una sorta di soffocamento, come se il
suo corpo fosse stato invaso da una presenza tentacolare che cercava
di impossessarsi dei suoi organi vitali.
Mi
venne un brivido al pensiero di quei vecchi organi vitali, affaticati
da ottantun anni di funzionamento, costretti a combattere un’entità
ignota che sarebbe stata temibile persino per un fisico molto più
giovane del suo.
Ma
poi mi convinsi che si trattava soltanto di un sogno, e che le
orrende visioni di mio zio erano sicuramente dovute alla tensione
delle ricerche e delle attese dei giorni prima.
Parlare
con lui mi aiutò ulteriormente a sopire la mia agitazione, e così
iniziai a cedere al sonno.
Mio
zio, che sembrava ormai perfettamente sveglio, volle fare di buon
grado il suo turno di sentinella, nonostante avesse dormito male
durante l’incubo.
Non
appena mi addormentai, e la cosa fu istantanea, venni assalito da
sogni orrendi.
In
quelle visioni, mi sentivo tremendamente solo, di una solitudine
cosmica e sconfinata, ed ero ingabbiato in una sorta di prigione
entro la quale filtravano forze maligne.
Avevo
l’impressione di essere legato ed imbavagliato, mentre udivo il
rombo di una folla ululante che aveva sete del mio sangue.
In
quel momento mi apparve il volto di mio zio, che veniva nella mia
direzione; ma io ero straziato da un’angoscia impotente, perché
non riuscivo né a liberarmi né ad urlare.
Quel
sogno era talmente brutto, che fui quasi felice di essere svegliato
da un urlo che mi fece uscire dallo stato onirico, dandomi una
lucidità impressionante in virtù della quale ogni oggetto reale
che avevo davanti acquistò una concretezza ed una vivezza
soprannaturali.
5.
Mi
ero addormentato con la faccia rivolta dalla parte opposta rispetto
alla sedia di mio zio, perciò, quando mi ridestai improvvisamente,
vidi solo la porta che dava sulla strada, la finestra di fondo, la
parete, il pavimento, ed il soffitto dalla parte nord della stanza;
il tutto messo a fuoco dal mio cervello in un lampo di brutale
consapevolezza, rapido come la luce di un flash, e più forte della
fosforescenza delle muffe o del chiarore che veniva dalla strada.
Non
si trattava peraltro di una luce potente, – di certo non sarebbe
stata abbastanza per leggere – ma era sufficiente a proiettare la
mia ombra e quella della branda dal pavimento, con un chiarore
giallognolo ed intenso che dava risalto agli oggetti più della
stessa luce del sole.
Ne
fui cosciente con una consapevolezza quasi dolorosa, mentre anche i
sensi dell’udito e dell’olfatto venivano aggrediti violentemente.
Nelle
orecchie, infatti, mi rimbombava l’eco di quegli urli lancinanti,
mentre mi si rivoltava lo stomaco al lezzo percepito dalle mie
narici.
Con
una lucidità acuta come adesso lo erano i sensi, avvertii
istantaneamente un pericolo; come un automa, mi alzai dalla branda e
afferrai meccanicamente una delle armi che avevamo deposto accanto
alla chiazza giallastra.
Tremavo
al pensiero di quello che avrei visto, perché era stato mio zio a
lanciare quell’urlo, e non avevo idea della minaccia contro la
quale avrei dovuto difendere sia lui che me.
Quello
che vidi, purtroppo, era anche peggio di quello che temevo.
Esistono
orrori che travalicano ogni orrore, e quello che avevo di fronte era
uno di quei grumi d’incubo supremo che l’universo assegna ad una
minoranza di sfortunati.
Dal
pavimento disseminato di muffe, si stava innalzando un vapore di una
fosforescenza spettrale, giallastra e malata, che aumentava di volume
gorgogliando e ribollendo sino ad arrivare ad un’altezza tremenda.
Assumeva
forme umanoidi ed obbrobriose, ma non modificava il proprio
stato gassoso, consentendomi in tal modo di vedere il camino e
la cappa dietro le sue cangianti volute.
Era
formata da una miriade di occhi, fermi e beffardi; e la sua testa,
dura e grinzosa come quella di un insetto, si dissolveva sulla
sommità in un ricciolo di vapore, che poi vorticava nell’aria e
quindi si infilava su per la cappa del camino.
Ho
detto di averla vista, ma solo con uno sforzo successivamente riuscii
a ricordare la fisionomia dell’entità, ricostruendo il suo
abominevole tentativo di darsi una forma.
In
quel momento, vedevo soltanto un vapore fosforescente esalato dalle
muffe, repellente, gorgogliante e ribollente, che aveva incapsulato
e liquefatto in una disgustosa massa gelatinosa l’unica cosa
che mi premeva: mio zio.
Sì,
il venerabile Elihu Whipple che, con la pelle nera e disfatta, mi
inseguiva farneticando, cercando di ghermirmi con mani adunche,
forsennato come la stessa bestia che aveva liberato quella
furia.
Se
non impazzii, fu solo perché psicologicamente mi ero preparato a
fronteggiare qualsiasi orrore, allenandomi a seguire una precisa
routine di gesti.
Intuendo
che la sostanza di quell’abominazione gorgogliante non era
attaccabile con la chimica organica, ed ignorando quindi il
lanciafiamme alla mia sinistra, diedi corrente al tubo di Crookes, e
lo puntai contro quell’oscenità blasfema, scaricandole addosso
le radiazioni più potenti a disposizione della scienza umana.
Ci
fu un chiarore elettrico seguito da un crepitio, e poi la
fosforescenza giallognola svanì.
Ma
purtroppo mi resi presto conto che quello era solo un effetto
illusorio, e che le radiazioni emesse dal mio apparecchio erano
impotenti.
E
poi, mentre assistevo a quello spettacolo infernale, mi si palesò un
nuovo orrore, alla cui vista urlai come un forsennato, ed annaspai
vacillando verso la porta che dava all’esterno, senza riflettere su
quali terrori alieni scatenavo sulla terra, o a quello che avrebbero
detto di me gli uomini.
In
quella nebbia di gas azzurrastri e giallognoli, la figura di mio zio
aveva cominciato a sciogliersi in una massa ripugnante e, mentre si
liquefaceva, sulla sua faccia in fluidificazione si susseguiva una
serie di cambiamenti di identità concepibili soltanto da un
folle.
Contemporaneamente,
era un demone ed una schiera di demoni; uno scheletro ed un
corteo di scheletri, un cadavere e un trionfo cimiteriale.
Al
fioco chiarore della luce presente nella stanza, la sua faccia
molliccia si trasformò prima in una ventina, e poi in un centinaio
di persone differenti; e, mentre si liquefaceva sul corpo che si
stava sciogliendo come una candela, sghignazzava come folli
caricature che, in fondo, non mi sembravano troppo aliene.
Infatti
riconobbi i tratti degli Harris.
Uomini
o donne, bambini o adulti, volgari o fini, familiari o non familiari.
Per
un istante vidi anche un ritratto della sventurata Rhoby Harris che
era esposto nel museo dell’Istituto d’Arte, e, per altri brevi
momenti, apparve anche la faccia smunta di Mercy Dexter, tale e quale
a come l’avevo vista in un quadro in casa di Carrington Harris.
E
verso la fine, quando una folla di volti di domestici e di bambini
sfilò scoppiettando verso le muffe, per poi esplodere in una polla
di grasso verdastro che si allargava sul pavimento, ebbi
l’impressione che le facce lottassero tra di loro, come se i
lineamenti del nobile viso di mio zio volessero assumere la
supremazia, in una sorta di estremo saluto.
Voglio
credere che in quell’istante fosse tornato a dirmi addio.
E,
mentre correvo in strada, con la gola arsa e tremando dai singhiozzi,
anch’io dissi addio a lui.
Strisciando
sotto la porta, una scia di materia putrescente mi inseguì fino al
marciapiede bersagliato dalla pioggia.
Il
seguito della storia è macabro e ributtante.
Per
la strada, dove pioveva a dirotto, non passava un’anima; ma in ogni
caso non avrei raccontato la mia esperienza a nessuno al mondo.
Girovagai
senza meta verso sud: oltrepassai College Hill e l’Athenaeum,
quindi scesi giù per Hopkins Street ed attraversai il ponte,
raggiungendo la zona commerciale, dove gli alti palazzi parevano
osservarmi increduli come fanno sempre gli edifici moderni.
Poi,
ad est, nacque un mattino grigio, diffondendo la sua luce sulla
vecchia collina e sulle antiche guglie di Providence, e chiamandomi
al mio triste compito, vero la casa dove avevo lasciato incompiuta la
mia missione.
Così
mi decisi – bagnato fradicio, senza cappello, gli occhi indolenziti
dalla luce mattutina – e rientrai in quella funesta porta di
Benefit Street che avevo lasciato socchiusa e che continuava a
sbattere minacciosamente davanti alle facce dei primi passanti, ai
quali non osavo dire nulla.
La
porosità del pavimento aveva assorbito completamente il liquame, e
la chiazza salnitrica antropomorfa sotto al camino era scomparsa.
Lanciai
un’occhiata alla branda, alle sedie, all’apparecchiatura,
al mio cappello e a quello con la fascia gialla che era appartenuto a
mio zio.
Ero
stravolto: distinguevo a malapena il sogno dalla realtà.
Ma
poi mi tornò tutto in mente, ed allora mi resi conto di aver
assistito agli eventi più orrendi che si possano immaginare,
un’esperienza peggiore di qualsiasi incubo.
Sedendomi,
cercai di riflettere sull’intera faccenda con il massimo della
lucidità rimasta alla mia mente sconvolta, pensando ad un modo per
distruggere quell’orrore, sempre che quell’oscenità fosse
reale.
Perché
quell’entità non sembrava fatta di materia, né di etere, né di
alcun’altra sostanza conosciuta.
Che
si trattasse di un’emanazione aliena, o di un vapore succhiatore di
sangue simile a quello che i contadini di Exeter affermano di aver
visto talvolta librarsi sopra certi cimiteri? Avvertivo che era
quella la chiave del mistero, e tornai a guardare il terreno dove le
muffe ed il deposito salnitrico avevano assunto quelle forme
grottesche.
Dopo
una riflessione di dieci minuti, ne fui sicuro; afferrai il cappello
e tornai a casa, dove feci un bagno caldo, mangiai qualcosa ed
ordinai per telefono di consegnarmi un piccone, una vanga, una
maschera antigas di tipo militare e sei contenitori di acido
solforico entro l’indomani mattina di fronte alla porta della
cantina della casa abbandonata di Benefit Street.
Poi
cercai di dormire ma, dal momento che non mi riusciva, mi misi a
leggere e a scrivere versi sciocchi per circa due ore, nel tentativo
di scaricare la tensione.
Alle
undici esatte della mattina, iniziai a scavare.
Fortunatamente
era uscito il sole.
Ero
tornato sul posto da solo perché, pur avendo una maledetta paura di
fronteggiare quell’entità aliena, l’imbarazzo di dover
raccontare quella storia ad altri era anche maggiore.
Successivamente
dissi ad Harris solo lo stretto necessario, fidando nel fatto che,
avendo sentito dai vecchi le loro storie paurose, era in qualche modo
disposto alla credulità.
Mentre
scavavo sotto il camino, la punta della vanga causò la fuoruscita
dai funghi recisi di un liquido giallastro.
L’uomo
non dovrebbe mai portare alla luce certi segreti nascosti nella
terra, e questo era uno di quelli.
Vedevo
che mi tremavano le mani, ma continuai ugualmente a scavare, e così
mi ritrovai ben presto dentro la profonda buca che avevo scavato.
Andando
maggiormente in profondità, l’allargai di ulteriori settanta
centimetri, ed il fetore divenne sempre più forte.
A
quel punto mi aspettavo da un momento all’altro un contatto con
l’entità infernale che aveva infestato la casa con le sue
emanazioni per quasi due secoli.
Mi
domandavo che aspetto avrebbe avuto, di cosa fosse mai fatta, e
quanto fosse cresciuta nel corso di quei duecento anni passati a
suggere la vita altrui.
Uscii
quindi dalla fossa, rimossi la terra sporca che si era accumulata, e
sistemai i grossi contenitori di acido da ambo le parti della buca,
in modo da poterli svuotare velocemente una volta arrivato il
momento.
Dopodiché
continuai a scavare sui due lati, muovendo la pala con cautela ed
infilandomi la maschera antigas per via del fetore che era aumentato.
L’idea
di essere ormai ad un soffio da quella cosa indescrivibile, faceva
vibrare i miei nervi.
All’improvviso
la vanga toccò qualcosa di morbido.
Mi
vennero i brividi, ed istintivamente feci per uscire dalla
buca, nella quale ero sprofondato ormai fino al collo.
Ma
poi riacquistai il coraggio, e spalai altra terra alla luce della
torcia che mi ero portato.
La
superficie messa a nudo dalla pala era viscida come la pelle di un
pesce: somigliava a gelatina ghiacciata in via di putrefazione,
vagamente vitrea.
Continuai
a raschiare, e mi accorsi che aveva una forma.
In
un punto in cui la massa si era ripiegata, si vedeva una specie di
fessura.
La
superficie portata alla luce era molto grande e leggermente
cilindrica, simile, direi, ad un enorme tubo di stufa bianco e
azzurro, piegato a gomito e con la parte più larga che misurava
sessanta centimetri.
Grattai
ancora con la pala e poi, come un fulmine, schizzai di corsa fuori
dalla fossa, ed iniziai freneticamente a svuotare i contenitori l’uno
dopo l’altro, riversando torrenti d’acido su quella fossa
ripugnante e sull’inimmaginabile abominazione aliena della quale
avevo intravisto solo un gomito colossale.
Non
appena l’acido raggiunse il fondo della buca, si sollevò una
nuvola accecante di vapore giallo-verde, la cui vista rimarrà per
sempre nella mia mente.
Quelli
che abitavano sulla collina ricordano ancora quel giorno come “il
giorno giallo”, perché dalle fabbriche lungo il Providence River
si levarono al cielo orrende fumate a getto schizzate dalle ceneri di
scarico: io solo so quanto si sbagliassero riguardo alla provenienza
di quelle fumate.
La
gente racconta anche dell’improvviso fragore dovuto allo scoppio
contemporaneo di certe tubature dell’acqua ridotte in cattiva stato
o del condotto sotterraneo del gas… ed anche su questo punto avrei
potuto smentirla pienamente, se solo ne avessi avuto il coraggio.
Una
volta svuotato il quarto bidone d’acido, i vapori cominciarono a
filtrare attraverso la maschera, e mi fecero svenìre.
Quando
rinvenni, però, mi accorsi che dalla buca non uscivano più gas.
Per
sicurezza svuotai i due contenitori restanti, ma senza nuovi
risultati, e ritenni più prudente ricoprire la fossa.
Quando
ultimai il mio lavoro, vidi che si era fatta sera, ma ormai la paura
aveva lasciato quella casa.
L’umidità
era meno fetida, e le grottesche fungosità avevano perso la loro
fosforescenza, trasformandosi in un’innocua polverina grigia simile
a cenere sparsa per terra.
Uno
degli orrori più abissali della Terra, era stato debellato per
sempre e, se esiste, l’inferno doveva aver ormai raccolto l’anima
di un essere immondo.
Mentre
spazzavo via le ultime tracce di muffa, mi cadde la prima delle
copiose lacrime che avrei versato in affettuoso omaggio alla memoria
del mio caro zio.
Quando
venne la primavera, nel prato della casa abbandonata erano scomparse
quelle strane erbacce e quell’erba esangue e, dopo un po’ di
tempo, Carrington Harris riuscì ad affittare l’abitazione.
L’aspetto
di quella casa rimane sempre lugubre, ma quella sua singolarità
esercita su di me un curioso fascino.
Quando
la demoliranno per costruire al suo posto un esercizio o delle case
popolari, misto al sollievo, proverò anche una sorta di dispiacere.
I
tristi alberi spogli di un tempo hanno cominciato a caricarsi di
melette dolci, e con l’anno scorso gli uccellini sono tornati a
fare il nido tra i loro rami nodosi.
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