mercoledì 10 giugno 2015

ADAMO E NIENTE EVA (Racconto di Alfred Bester)

ADAMO E NIENTE EVA, di Alfred Bester




Crane sapeva che quella doveva essere la costa. L'istinto glielo diceva, ma più che l'istinto, glielo dicevano i pochi frammenti di conoscenza che si tenevano aggrappati al suo cervello sconvolto e febbricitante, le stelle che erano apparse nella notte attraverso i rari squarci delle nubi e la sua bussola che puntava ancora un ago tremante verso nord. Quella era la cosa più strana di tutte, pensò Crane. Malgrado dovunque regnasse il caos, la Terra aveva conservato i suoi poli.
Non c'era più una costa, non c'era più alcun mare. Soltanto la linea appena accennata di quella che era stata una scogliera si stendeva a nord e a sud per interminabili miglia. Una linea di grigie ceneri. Le stesse ceneri e scorie che si stendevano dietro di lui; le stesse ceneri grigie che si stendevano davanti a lui. Il limo sottile, impalpabile, che lo faceva sprofondare fino al ginocchio, sollevandosi turbinando a ogni movimento, soffocandolo. Ceneri che si addensavano in nuvole possenti, correndo per il cielo quando soffiava il vento impazzito. Ceneri che s'impastavano in un fango vischioso quando scrosciavano le frequenti piogge.
Sopra la sua testa il cielo era color ebano. Le nubi nere correvano alte ed erano perforate qua e là da lame di luce solare che sciabolavano rapide sopra la Terra. Là dove la luce batteva sopra una tempesta di cenere, si creava una danza di particelle scintillanti. Là dove attraversava la pioggia, nascevano mille arcobaleni. Cadeva la pioggia; soffiavano tempeste di ceneri; lame di luce penetravano fino al suolo... tutto ciò insieme, o contemporaneamente, un continuo incastro di violenza, bianco e nero. Così era stato per mesi. Così era sopra ogni singolo chilometro quadrato dell'intera Terra.
Crane oltrepassò l'orlo della scogliera calcinata e cominciò a scivolar giù lungo un pendio uniforme che un tempo era stato il letto dell'oceano.
Aveva viaggiato tanto a lungo che era incapace, ormai, di provar dolore. Si fece forza coi gomiti e trascinò il suo corpo in avanti. Poi portò il ginocchio destro sotto di sé e spinse di nuovo in avanti i gomiti. Ginocchio, gomiti, ginocchio, gomiti... aveva dimenticato che cosa significava camminare.
La vita, pensò, stordito, è meravigliosa. Si adatta ad ogni cosa. Se uno deve strisciare, striscia. Si formano i calli sui gomiti e sulle ginocchia. Collo e spalle s'irrobustiscono. Le narici imparano a soffiar via le ceneri prima d'inspirare. La gamba malata si gonfia e comincia a suppurare. S'intorpidisce, ben presto marcirà e si staccherà.
«Scusi», fece Crane, «non ho capito cosa...»
Alzò gli occhi scrutando l'alta figura davanti a sé e cercò di afferrare le sue parole. Era Hallmyer. Indossava il suo camice da laboratorio, macchiato, e i suoi capelli grigi erano scompigliati. Hallmyer stava ritto senza fatica sopra le ceneri e Crane si chiese come fosse possibile vedere le nubi di polvere turbinante attraverso il suo corpo.
«Ti piace il tuo mondo, Stephen?» chiese Hallmyer.
Crane scosse miserevolmente la testa.
«Non è molto bello, eh?» disse ancora Hallmyer. «Guàrdati attorno. Polvere, non c'è altro che polvere e ceneri. Striscia, Stephen, striscia. Non troverai nulla, soltanto polvere e ceneri...»
Hallmyer tirò fuori dal nulla un bicchier d'acqua, limpida e fredda. Crane vide il sottile strato di rugiada condensato sul vetro, e sentì la sua bocca riarsa come se all'improvviso fosse rivestita di granelli di sabbia.
«Hallmyer!» gridò. Cercò di alzarsi in piedi e di afferrare il bicchiere colmo d'acqua, ma la fitta di dolore alla gamba lo ammonì. Si ritrasse, rannicchiandosi su se stesso.
Hallmyer sorseggiò l'acqua del bicchiere, poi gliela sputò in faccia. L'acqua era calda.
«Continua a strisciare», disse Hallmyer, amaro, «continua a strisciare intorno alla superficie della Terra. Non troverai altro che polvere e ceneri...»
Vuotò il bicchiere al suolo davanti a Crane. «Continua a strisciare. Per quante miglia? Calcolatele da solo. Pi erre al quadrato. Il raggio è di ottomila o giù di lì...»
Era scomparso, camice e bicchiere. Crane si rese conto che aveva ricominciato a piovere. Premette il viso contro il caldo fango di ceneri inzuppato d'acqua, aprì la bocca e cercò di succhiare l'umidità. Gemette, e poco dopo riprese a strisciare.
L'istinto lo spingeva a continuare. Doveva arrivare da qualche parte. Sapeva che questo era in qualche modo associato col mare, col bordo del mare. Sulla... sulla riva del mare qualcosa lo aspettava. Qualcosa che gli avrebbe consentito di capire tutto ciò. Doveva arrivare al mare... vale a dire, se esisteva ancora un mare.

La pioggia scrosciante gli martellava la schiena, Crane fece una sosta e si tirò lo zaino sul fianco, dove avrebbe potuto frugarci dentro con una mano. Sapeva che là dentro vi erano giusto tre cose: una pistola, una tavoletta di cioccolato e un barattolo di pesche. Tutto quello che gli rimaneva della riserva di due mesi. La cioccolata si era ridotta a una poltiglia guasta. Crane sapeva che avrebbe fatto meglio a mangiarla prima che tutto il valore nutritivo scomparisse. Ma, ancora un altro giorno, e non avrebbe più avuto forza sufficiente ad aprire il barattolo. Lo tirò fuori e l'aggredì con l'apriscatole. Quando finalmente riuscì a forzare la latta e a tirarne via un lembo, la pioggia era cessata.
Mentre masticava la frutta e sorseggiava il succo, osservò il muro di pioggia che si allontanava da lui scendendo il pendio fino al fondo dell'oceano. Torrenti d'acqua stavano sprizzando fuori dal fango. Piccoli canali venivano scavati... canali che un giorno sarebbero stati i nuovi fiumi. Un giorno che lui non avrebbe mai visto. Un giorno che nessuna creatura vivente avrebbe mai visto.
Mentre gettava via il barattolo vuoto, Crane pensò: l'ultima creatura viva sulla Terra ha mangiato il suo ultimo pasto. Il metabolismo recita il suo ultimo atto.
Il vento sarebbe seguito alla pioggia. Nelle interminabili settimane durante le quali aveva strisciato, aveva imparato questo. Il vento sarebbe giunto fra pochi minuti e l'avrebbe sferzato con le sue nubi di ceneri e pomice. Riprese a strisciare in avanti, esplorando con gli occhi confusi quella grigia distesa piatta, alla ricerca di un riparo.
Evelyn gli batté sulla spalla.
Crane seppe che era lei ancora prima di girare la testa. Ella era in piedi accanto a lui, fresca e allegra nel suo abito dai vivaci colori, ma il suo viso adorabile era contorto dalla paura.
«Stephen», lei gridò, «devi affrettarti!»
Lui poté soltanto contemplare, affascinato, i suoi lisci capelli color del miele che le ricadevano fino alle spalle.
«Oh, caro!» lei disse ancora, «sei ferito!» Le sue mani delicate gli sfiorarono in una rapida carezza le gambe e la schiena. Crane annui.
«Mi è accaduto qualcosa quando ho toccato terra», spiegò, «non ero abituato al paracadute. Avevo sempre creduto che si scendesse lentamente... al più come cadere dal letto. Ma il suolo grigio si è precipitato verso di me come un pugno... e Umber si stava agitando fra le mie braccia. Non potevo lasciarlo cadere, vero?»
«Naturalmente, mio caro...» fece Evelyn.
«Così l'ho tenuto stretto e ho cercato di mettere le gambe sotto di me», continuò Crane. «Ma poi, qualcosa mi ha fracassato una gamba e il fianco...» Indugiò, chiedendosi quanto lei sapesse di ciò che era veramente accaduto. Non voleva spaventarla.
«Evelyn, tesoro...» lui disse, cercando di sollevare le braccia.
«No, caro», lei lo fermò, guardando spaventata dietro di sé, «devi affrettarti. Devi stare attento alle tue spalle!»
«Le tempeste di cenere?» Crane fece una smorfia. «Ne ho già affrontate altre».
«No, non le tempeste!» gridò Evelyn. «Qualcos'altro. Oh, Stephen...»
Poi scomparve, ma Crane sapeva che aveva detto la verità. C'era qualcosa dietro di lui, qualcosa che lo aveva seguito durante tutte quelle settimane. Lontano, nei recessi della sua mente, lui aveva avvertito la minaccia. Stava rinchiudendosi su di lui come un sudario. Scosse la testa. In qualche modo, ciò era impossibile. Lui era l'ultima creatura vivente sulla Terra. Come avrebbe potuto esserci una minaccia?
Il vento ruggì dietro di lui, e un istante più tardi arrivarono le pesanti nuvolaglie di scorie e ceneri che lo sferzarono, mordendogli la pelle. Con gli occhi appannati, vide come essiccavano il fango, creando su di esso una sottile crosta asciutta. Crane si raggomitolò sulle ginocchia e si coprì la testa con le braccia. Con lo zaino come cuscino, si preparò ad aspettare la fine della tempesta. Sarebbe passata con la stessa rapidità della pioggia.
La tempesta gli suscitò un grande disorientamento nella testa malata. Come un bambino, lui tuffò le mani tra i suoi ricordi, cercando di far combaciare i vari frammenti. Perché mai Hallmyer era così amaro con lui? Poteva essersi trattato di quella discussione, forse?
Quale discussione?
Diamine, la discussione... prima che tutto ciò accadesse.
Ah, quella!
All'improvviso, i pezzi combaciarono.

Crane era in piedi, accanto alla sua nave dallo snello profilo, e la guardava con occhi pieni d'una sconfinata ammirazione. Il tetto del capannone era stato tolto, e il muso della nave era stato sollevato, cosicché essa, sostenuta dall'ingabbiatura, ora puntava direttamente verso il cielo. Un operaio stava lustrando meticolosamente le superfici interne degli ugelli dei razzi.
I suoni soffocati di una discussione giunsero dall'interno della nave, seguiti da un pesante sferragliare. Crane salì di corsa la breve scaletta metallica fino al portello e cacciò dentro la testa. A pochi metri da lui, due uomini stavano fissando al loro posto i lunghi serbatoi di soluzione ferrosa.
«Andateci piano», gridò Crane, «volete fare saltare la nave?»
Uno dei due alzò lo sguardo e sogghignò. Crane sapeva ciò che stava pensando. Che la nave sarebbe andata in pezzi. Tutti lo dicevano. Tutti, salvo Evelyn. Lei aveva fede in lui. Neanche Hallmyer l'aveva mai detto. Ma Hallmyer pensava che lui fosse pazzo per altri motivi. Mentre scendeva la scaletta, Crane vide Hallmyer entrare nel capannone col camice che sbatteva al vento.
«Parla del diavolo!» borbottò Crane.
Hallmyer cominciò a urlare non appena vide Crane: «Adesso ascolta...»
«Oh, non di nuovo», fece Crane.
Hallmyer tirò fuori di tasca un foglio di carta e lo sventolò sotto il naso di Crane.
«Sono stato su quasi tutta la notte», strillò, «ripassando ogni cosa da cima a fondo. Ti dico che ho ragione. Ho assolutamente ragione...»
Crane guardò le file e file di equazioni e poi gli occhi iniettati di sangue di Hallmyer. Quell'uomo era mezzo impazzito per la paura.
«Per l'ultima volta», proseguì Hallmyer. «Tu vuoi usare il tuo nuovo catalizzatore sulla soluzione di sali ferrosi. D'accordo, ti concedo che è una scoperta miracolosa. Te ne do credito».
Miracolosa era forse la parola giusta per definirla. Crane lo sapeva, senza false presunzioni, che lui era incappato in quella scoperta per caso. Bisognava inciampare su un catalizzatore capace d'indurre la disintegrazione nucleare nel ferro, liberando dieci miliardi di joule d'energia per ogni grammo di combustibile. Nessun uomo era intelligente al punto da elaborare tutto questo col puro ragionamento.
«Tu non credi che ce la farò?» chiese Crane.
«Fino alla Luna? Intorno alla Luna? Forse. Hai cinquanta probabilità su cento di riuscirci». Hallmyer si passò le dita fra i capelli lisci. «Ma per l'amor del cielo, Stephen, non sono preoccupato per te. Se vuoi ammazzarti, quelli sono affari tuoi. È per la Terra che mi preoccupo...»
«Stupidaggini. Vai a casa e dormici sopra».
«Senti...» Hallmyer indicò i fogli di carta con mano tremante, «non importa come tu elabori il sistema di alimentazione e di mescolamento, tu non otterrai mai un'efficienza del cento per cento nella reazione e nella scarica».
«È questo che fa sì che vi sia soltanto il cinquanta per cento di probabilità», disse Crane. «E già lo sapevamo. Perciò, c'è qualcos'altro che ti turba. Che cosa?»
«Il catalizzatore che sfuggirà dagli ugelli dei razzi. Ti rendi conto di quello che causerà, se una sola goccia colpirà la Terra? Darà inizio a una reazione a catena che disintegrerà il ferro su tutta la superficie del globo. Raggiungerà ogni atomo di ferro... e c'è ferro dappertutto. Non ci sarà più nessuna Terra...»
«Ascolta», replicò Crane stancamente, «abbiamo già discusso altre volte di tutto questo».
Poi condusse Hallmyer alla base dell'incastellatura del razzo. Sotto l'intelaiatura di ferro c'era un pozzo profondo sessanta metri, largo quindici, e rivestito di mattoni refrattari.
«Questo è per la fase iniziale di propulsione. Se una frazione per quanto piccola del catalizzatore dovesse passare, resterà intrappolata in questo pozzo e di essa si occuperanno le reazioni secondarie. Soddisfatto, adesso?»
«Ma mentre sarai in volo, tu metterai in pericolo la Terra fino a quando non avrai superato il limite di Roche. Ogni singola goccia di catalizzatore non utilizzato finirà per arrivare al suolo, e...»
«Per l'ultimissima volta», esclamò Crane, risoluto, «la fiamma della scarica del razzo si prenderà cura di ciò. Avvilupperà qualunque particella che dovesse sfuggire e la distruggerà. Adesso vai fuori, ho del lavoro da fare».
Mentre veniva spinto verso la porta, Hallmyer urlò e agitò le braccia: «Troverò il modo di fermarti. Non te lo lascerò fare...»

Lavoro? No, era pura intossicazione, questo darsi da fare intorno alla nave. Pura gioia personale. Essa aveva la bellezza delle cose ben fatte. La bellezza di un'armatura ben lucidata, dell'impugnatura di una spada ben bilanciata, di un paio di pistole gemelle cesellate. Non c'era alcun pensiero di pericolo, e ancor meno di morte, nella mente di Crane, mentre si ripuliva le mani con uno straccio, dopo aver completato quegli ultimi tocchi.
L'astronave si teneva eretta nella sua ingabbiatura, pronta a trapassare i cieli. Quindici metri di snello acciaio, le teste dei bulloni che luccicavano come gioielli. Per una lunghezza di sei metri la nave ospitava l'apparato di propulsione, con il dispositivo per l'erogazione graduata del catalizzatore. La maggior parte dello scompartimento di prua ospitava la speciale cuccetta a molle che Crane aveva progettato per assorbire lo shock iniziale dell'accelerazione. Il muso della nave era un blocco compatto di quarzo naturale che guardava all'insù come un occhio ciclopico.
Crane pensò: «Essa morirà dopo questo viaggio. Tornerà alla Terra e si fracasserà in una tonante vampata di fuoco, poiché non esiste ancora alcun modo per progettare un atterraggio sicuro per una nave a razzo. Ma ne vale la pena. Perché avrà avuto il suo unico, grande volo, e questo è tutto ciò che ciascuno di noi vorrebbe avere. Un grande, bellissimo volo nell'ignoto...»
Mentre chiudeva a chiave la porta del laboratorio, Crane sentì Hallmyer che gridava dal cottage sul lato opposto del campo. Attraverso l'oscurità crescente della sera, riuscì a vederlo che gesticolava freneticamente. Allora attraversò di corsa la distesa d'erba tagliata corta, inalando profondamente l'aria frizzante, grato di essere vivo.
«C'è Evelyn al telefono», l'informò Hallmyer.
Crane lo fissò. Hallmyer si stava comportando in maniera strana. Evitò ostentatamente il suo sguardo.
«Che cos'è questa storia?» chiese Crane. «Mi pareva che fossimo rimasti d'accordo che non doveva chiamare... che non avrebbe dovuto mettersi in contatto con me fino a quando non fossi stato pronto a partire. Le hai forse messo delle idee in testa? È questo il modo con cui speri di fermarmi?»
Hallmyer disse: «No...» e si mise a fissare l'orizzonte color indaco cupo.
Crane entrò nel suo studio e prese su il ricevitore.
«Adesso ascoltami, tesoro», cominciò senza preamboli, «non c'è ragione di allarmarsi proprio adesso. Ti ho spiegato ogni cosa in tutti i particolari. Prima che la nave si schianti, mi butterò col paracadute e scenderò fluttuando, felice come una Pasqua. Ti amo moltissimo, e ti rivedrò mercoledì quando partirò. Ciao...»
«Ciao, tesoro», esclamò lei in risposta, con la sua voce squillante, «ed è soltanto per questo che mi hai chiamato?»
«Chiamato... io?»
Una massa bruna si staccò dal tappeto davanti al caminetto e si rizzò sulle robuste zampe. Umber, il grande danese di Crane, annusò l'aria e alzò un orecchio. Poi uggiolò.
«Hai detto che sono stato io a chiamarti?» urlò Crane.
Improvvisamente dalla gola di Umber uscì un latrato. Con un solo balzo raggiunse Crane, lo guardò in viso, uggiolò e ruggì tutto insieme.
«Chiudi il becco, mostro!» disse Crane, spingendo via Umber col piede.
«Dài a Umber un calcio da parte mia», esclamò Evelyn, ridendo. «Sì, caro. Qualcuno ha chiamato e ha detto che volevi parlarmi».
«Hanno fatto questo, eh? Senti, tesoro, ti richiamo...»
Crane riattaccò. Si alzò, perplesso, e osservò l'inquieto comportamento di Umber. Attraverso le finestre gli ultimi barlumi del tramonto proiettavano tremolanti bagliori arancione. Umber fissò le luci, annusò l'aria e latrò un'altra volta. Colpito da un'idea improvvisa, Crane balzò verso la finestra.
Dall'altro lato del campo una densa muraglia di fiamme s'innalzava nell'aria, e all'interno di essa s'intravedevano le pareti del laboratorio che stavano crollando una dopo l'altra. Sullo sfondo dell'incendio comparvero le sagome d'una dozzina di uomini, lanciati in una folle corsa.
«Santo cielo!» gridò Crane.
Balzò fuori dal cottage e con Umber alle calcagna si lanciò verso il capannone. Mentre correva, riuscì a distinguere lo snello profilo della nave spaziale all'interno del vortice d'aria rovente. Lo scafo appariva ancora freddo e indenne. Se soltanto fosse riuscito a raggiungerla prima che le fiamme ammorbidissero il suo metallo e allentassero i bulloni...

Gli operai gli corsero incontro, sporchi d'unto e ansimanti. Crane li guardò a bocca aperta, con un misto di collera e di sbalordimento.
«Hallmyer!» gridò, «Hallmyer!»
Hallmyer si fece largo tra la gente. I suoi occhi erano stravolti ma brillavano della luce del trionfo.
«Tanto peggio», disse. «Mi spiace, Stephen...»
«Porco!» urlò Crane. «Vigliacco bavoso che non sei altro!»
Agguantò Hallmyer per il bavero e gli diede un violento scrollone. Poi lo lasciò cadere e si lanciò di corsa verso il capannone.
Hallmyer urlò qualcosa e un istante più tardi un corpo si scagliò contro i suoi polpacci e lo fece ruzzolare al suolo. Hallmyer si rialzò barcollando, vibrando i pugni. Umber era al suo fianco, vibrando sopra il ruggito delle fiamme. Crane fracassò il viso di un uomo, e lo vide barcollare all'indietro, finendo addosso a un altro. Poi alzò il ginocchio di scatto e con un colpo brutale mandò accartocciato per terra il terzo inseguitore. Poi abbassò la testa e si tuffò tra le fiamme.
Sulle prime, neppure sentì le bruciature, ma quando raggiunse la scaletta metallica e cominciò a salire verso il portello, urlò per il dolore delle ustioni. Umber ululava ai piedi della scaletta, e Crane si rese conto che il cane non sarebbe mai riuscito a sfuggire alle vampe dei razzi. Si curvò, afferrò Umber e lo tirò dentro la nave.
Crane vacillava, quando chiuse il portello ermetico. Riuscì a conservare la sua conoscenza quel tanto che gli bastò a sistemarsi sulla cuccetta antiaccelerazione. Poi fu soltanto l'istinto che spinse le sue mani verso il quadro di comando. L'istinto, e il disperato desiderio d'impedire che la sua bella nave fosse ingoiata dalle fiamme. Avrebbe fallito... Sì, ma avrebbe fallito tentando.
Le sue dita azionarono gli interruttori. La nave vibrò e ruggì. E l'oscurità calò su di lui.

Per quanto tempo restò privo di sensi? Non aveva alcun modo di saperlo. Crane si svegliò percependo una gelida pressione contro la nuca e la schiena, e un uggiolio terrorizzato nelle orecchie. Crane guardò su e vide Umber intrappolato fra le molle e le cinghie della cuccetta. Il suo primo impulso fu di scoppiare a ridere; poi, all'improvviso, si rese conto di aver guardato su. Aveva guardato su, verso la cuccetta.
Si accorse di giacere, arrotolato su se stesso, nella cavità interna della grande coppa di quarzo massiccio che costituiva il muso della nave. La quale era salita in alto — forse fino al limite di Roche, al confine della forza gravitazionale della Terra — ma poi, senza mani sui comandi che la guidassero nella continuazione del volo, aveva ruotato su se stessa ricadendo verso il pianeta. Crane scrutò attraverso il cristallo e rantolò.
Sotto di lui vi era il globo della Terra. Le sue dimensioni apparenti erano il triplo di quelle della Luna. E non era più la sua Terra. Era il globo di fuoco chiazzato di nubi nere. Nell'area corrispondente al polo Nord vi era una minuscola macchia bianca, ma proprio mentre Crane guardava, essa fu improvvisamente coperta da nuvolaglie brune, scarlatte e cremisi. Hallmyer aveva avuto ragione.
Per ore e ore giacque pietrificato, lì nel muso di prua, mentre la nave scendeva, osservando il lento dissiparsi delle fiamme che lasciavano posto a una densa coltre nera che avvolgeva completamente la Terra. Giacque lì, intorpidito dall'orrore, incapace di capire... incapace d'immaginare i miliardi d'esseri umani distrutti, un bel pianeta verde ridotto in ceneri e scorie. La sua famiglia, la sua casa, i suoi amici, tutto quello che gli era stato caro e vicino al cuore... scomparso! Non riuscì a pensare a Evelyn.
Il sibilo dell'aria, fuori dello scafo, ridestò in lui qualche vaga facoltà mentale. I pochi brandelli di ragione che gli erano rimasti gli dissero che la cosa migliore per lui sarebbe stata quella di precipitare a picco con la sua nave, dimenticando ogni cosa nel boato dello schianto e della disintegrazione, ma l'istinto di conservazione lo costrinse a sollevarsi in piedi, ad arrampicarsi fino al ripostiglio e a prepararsi per l'atterraggio. Un paracadute, un piccolo serbatoio d'ossigeno e uno zaino carico di provviste. Solo per metà cosciente di quanto stava facendo, si vestì per la discesa, si affibbiò il paracadute e aprì il portello. Umber uggiolò pateticamente, Crane prese il grosso cane tra le braccia e si lanciò nel vuoto.
Ma il vuoto, là fuori, non era mai stato pieno come adesso. A una simile quota prima sarebbe stato difficile respirare a causa della rarefazione dell'aria. Adesso era quasi impossibile a causa del pulviscolo asciutto e impalpabile che l'ingolfava. Ogni respiro significava riempirsi i polmoni di ceneri, scorie, vetro polverizzato...
Il quadro dei ricordi tornò a frantumarsi. All'improvviso, si ritrovò al presente... un presente nero, denso, che l'avviluppava in una stretta morbida e soffocante, togliendogli il respiro. Crane lottò in preda a un panico folle, poi si accasciò esausto.

Era già accaduto altre volte. Molto tempo prima, all'interrompersi dei ricordi si era trovato sepolto sotto un profondo strato di polvere. Giorni... o settimane... o mesi prima. Crane, aggrappandosi con le unghie ai più piccoli appigli, riuscì a farsi strada attraverso la montagnola di ceneri che il vento gli aveva ammucchiato addosso. E riemerse alla luce. Il vento era cessato. Era giunto il momento di riprendere a strisciare verso il mare.
Le vivide immagini dei suoi ricordi finirono di sparpagliarsi davanti al lugubre panorama che si stendeva di fronte a lui. Crane si accigliò. Ricordava troppo, e troppo spesso. Aveva la vaga speranza che se fosse riuscito a ricordare con sufficiente intensità, sarebbe riuscito a cambiare una delle cose che aveva fatto — almeno una, una cosa anche piccola — e poi, tutto questo sarebbe diventato irreale. Pensò: sarebbe di grande aiuto se tutti ricordassero ed esprimessero un desiderio contemporaneamente... ma non c'erano più i «tutti». Io sono solo. Io sono l'ultimo ricordo della Terra. Io sono l'ultimo frammento di vita.
Strisciò. Gomiti, ginocchia, gomiti, ginocchia... e poi Hallmyer prese a strisciargli accanto, trasformando tutto ciò in un gioco. Rideva e si tuffava nelle ceneri come una foca, sprizzando felicità.
Crane disse: «Ma perché dobbiamo andare fino al mare?»
Hallmyer sbuffò, sollevando uno spruzzo di ceneri.
«Chiedilo a lei», rispose, indicando l'altro lato di Crane.
Evelyn era lì, che strisciava con caparbia determinazione, mimando con estrema serietà ogni più piccolo gesto di Crane.
«È a causa della nostra casa», spiegò lei, «non ricordi la nostra casa, tesoro? In alto sul dirupo? Saremmo vissuti lì per sempre, respirando l'ozono e facendo delle belle nuotate ogni mattina. Ero lì, quando tu sei partito. Adesso, stai tornando alla casa sul bordo del mare. Il tuo meraviglioso volo è finito, caro, e tu stai tornando da me. Vivremo insieme, noi due soli, come Adamo ed Eva...»
Crane disse: «È bello».
Poi Evelyn girò la testa e urlò: «Oh, Stephen, stai attento!» E Crane sentì di nuovo la minaccia chiudersi su di lui. Sempre strisciando, guardò dietro di sé le sconfinate pianure di cenere e non vide nulla. Quando tornò a voltarsi verso Evelyn, vide soltanto la propria ombra, nera e dai bordi netti. Poco dopo anche l'ombra svanì, quando la lama di luce solare passò oltre.
Ma la paura rimase. Evelyn l'aveva avvertito due volte, e aveva sempre avuto ragione. Crane si fermò, e si voltò per guardar meglio.
Se lui era davvero seguito, avrebbe visto, così, chi lo stava braccando.

Vi fu un doloroso momento di lucidità. Penetrò attraverso la sua febbre e il suo disorientamento portando con sé l'affilata spietatezza di un coltello.
Sto impazzendo, pensò. La cancrena della mia gamba si è estesa al cervello. Non c'è nessuna Evelyn, nessun Hallmyer, nessuna minaccia. Su tutto questo pianeta non c'è nessuna vita, salvo la mia, perfino i fantasmi e gli spiriti d'oltretomba devono essere periti nell'inferno che ha avvolto la Terra. No, non c'è nulla, salvo io stesso e il mio male. Sto morendo, e quando morirò, sarà morto tutto. Resterà soltanto una massa di ceneri senza vita.
Colse un movimento.
Di nuovo l'istinto. Crane fu pronto ad abbassare la testa e a fingersi morto. Ma continuò a guardare le pianure di cenere attraverso gli occhi socchiusi, chiedendosi se la morte incombente non stesse facendo scherzi alla sua vista. Un altro muro compatto di pioggia stava per investirlo. Crane sperò di riuscire a distinguere qualcosa prima che la sua vista fosse cancellata...
Sì. Laggiù.
Un quarto di miglio più indietro una grande forma grigia stava correndo sulla superficie grigia. Malgrado il martellare della pioggia ancora lontana, Crane udì il fruscio delle polveri calpestate e vide le nuvolette alzarsi. Furtivamente, rovistò nello zaino cercando la pistola, mentre la sua mente tentava debolmente di elaborare una spiegazione e si ritraeva davanti alla paura.
La cosa si avvicinò, e improvvisamente Crane strizzò gli occhi e capì. Ricordò Umber che, scalciando per la paura, era balzato via da lui quando il paracadute li aveva fatti atterrare sulla superficie incenerita della Terra.
«Diamine, è Umber», mormorò. Si sollevò in piedi. Il cane si fermò. «Qui, ragazzo!» gracchiò allegramente Crane, «qui, ragazzo!»
Era sopraffatto dalla gioia. Si rese conto di quanto miserabile fosse la solitudine che aveva gravato su di lui, un'orrenda sensazione di unicità nella desolazione. Adesso la sua non era l'unica vita esistente. Ce n'era un'altra. Una vita amichevole che poteva offrire amore, affetto. La speranza si riaccese in lui.
«Qui, ragazzo», ripeté, «vieni, ragazzo...»
Dopo un po', smise di far schioccare le dita. Il grande danese si teneva lontano, mostrando i denti e tenendo la lingua penzoloni. Il cane era magro al punto da sembrare uno scheletro, i suoi occhi luccicavano rossi e cattivi nell'oscurità. Quando Crane ancora una volta lo chiamò, il cane ringhiò. Sbuffi di cenere si levarono da sotto le sue narici.
È affamato, pensò Crane, per questo è così. Infilò la mano nello zaino e a quel gesto il cane ringhiò di nuovo. Crane tirò fuori la tavoletta di cioccolato e laboriosamente la liberò dalla carta e dalla stagnola, poi, con la sua debole forza, la lanciò verso Umber. La tavoletta cadde molto lontano dal cane. Dopo un minuto di tempestosa incertezza, il cane lentamente venne avanti e ingollò il cibo. Le ceneri gli incipriarono il muso. Poi si mise a leccarsi i baffi, a lungo, e continuò ad avanzare verso Crane.
Questi si sentì cogliere da un improvviso accesso di paura. Una voce insisteva a dirgli: Questo non è un amico. Non ha alcun amore né sente alcuna amicizia verso di te. L'amore e l'amicizia sono scomparsi dalla Terra insieme alla vita. Adesso non è rimasto nulla, soltanto la fame.
«No...» bisbigliò Crane, «non è giusto. Noi siamo l'ultima vita sulla Terra. Non è giusto che dobbiamo sbranarci a vicenda, cercando di divorarci...»

Ma Umber continuava ad avanzare, obliquamente, con fare furtivo, e i suoi denti luccicavano, bianchi e aguzzi. E proprio mentre Crane lo fissava, il cane ringhiò e si scagliò contro di lui.
Crane cacciò con forza una mano sotto il muso del cane, ma l'impeto dell'animale lo spinse con violenza all'indietro. Urlò per il dolore quando la sua gamba rotta, gonfia, fu investita dal peso di Umber. Con la mano destra libera egli colpì con forza, ripetutamente, avvertendo appena i denti che gli stritolavano il braccio sinistro. Poi il suo corpo premette su qualcosa di metallico, e lui si rese conto di esser finito sopra il revolver che aveva lasciato cadere.
Lo cercò a tentoni, e pregò che le ceneri non avessero intasato il meccanismo di sparo. Quando Umber lasciò andare il suo braccio e cercò di azzannarlo alla gola, Crane sollevò la pistola e piantò la canna, alla cieca, contro il corpo del cane. E premette più volte il grilletto, finché i rombi degli spari non si spensero in distanza e si udirono soltanto dei ticchettii a vuoto.
Un denso liquido scarlatto macchiava il grigio.
Evelyn e Hallmyer abbassarono tristemente lo sguardo sull'animale abbattuto. Evelyn stava piangendo, e Hallmyer si passò le dita nervose tra i capelli, ripetendo il vecchio gesto abitudinario.
«Questa è la fine, Stephen», disse, «hai ucciso una parte di te stesso. Oh... tu continuerai a vivere, ma non nella tua completezza. Farai meglio a seppellire qui il cadavere, Stephen. É il cadavere della tua anima».
«Non posso», replicò Crane, «il vento soffierà via le ceneri».
«Allora brucialo...»
Gli parve che essi lo aiutassero a sfilarsi lo zaino e a infilarlo sotto il cane. Lo aiutarono anche a sfilarsi i vestiti e ad ammucchiarli insieme allo zaino. E fecero coppa intorno ai fiammiferi, fino a quando il tessuto non prese fuoco, e soffiarono sulla debole fiamma fino a quando non s'innalzò crepitando e non prese decisamente ad ardere. Crane restò rannicchiato accanto al fuoco e lo attizzò fino a quando non rimase nulla, se non dell'altra cenere grigia. Poi le voltò le spalle e una volta ancora prese a strisciare giù, sull'antico letto dell'oceano. Adesso era nudo. Non c'era più nulla di ciò che era stato, salvo la sua piccola, tremula vita.
Era troppo afflitto dal dolore per accorgersi della furibonda pioggia che lo schiaffeggiava e lo sferzava, o dei lancinanti dolori che gli trafiggevano la gamba annerita fino all'anca. Strisciava. Gomiti, ginocchia, gomiti, ginocchia, legnosamente, meccanicamente, apatico nei confronti di tutto. Del cielo chiuso sopra la sua testa, delle pianure desolate, e perfino dell'opaco bagliore dell'acqua che s'intravedeva laggiù, molto più lontana.
Crane sapeva che si trattava del mare... quel poco che era rimasto del vecchio, oppure un nuovo mare che si andava formando. Ma sarebbe stato un mare vuoto, senza vita, il quale avrebbe lambito sponde asciutte e senza vita. Quello sarebbe stato un pianeta di roccia e di pietra, di metallo, di neve e ghiaccio, e d'acqua, ma questo sarebbe stato tutto. Non più vita. Lui, da solo, era inutile. Lui era Adamo, ma non c'era Eva.
Evelyn lo salutò allegramente dalla sponda, agitando la mano. Era in piedi accanto al candido cottage, il vento che agitava il suo abito mostrando le linee snelle e innocenti della sua figura. E quando lui giunse un po' più vicino, lei gli corse incontro e lo aiutò. Evelyn non disse nulla, si limitò a infilargli le mani sotto le ascelle aiutandolo a tener sollevato il peso del suo corpo torturato dall'intenso dolore. Così, alla fine, lui raggiunse il mare.
Era vero, quel mare. Al di là di ogni dubbio. Poiché, anche dopo che Evelyn e il cottage furono scomparsi, sentì l'acqua bagnargli, fresca, il viso. Acque tranquille... Calme...
Ecco il mare, pensò Crane, ed io... eccomi qui. Adamo, e niente Eva. Non c'è speranza.
Giacque col volto rivolto al cielo, scrutando l'alto cielo tempestoso, e l'amarezza dentro di lui crebbe.
«Non è giusto!» urlò. «Non è giusto che tutto questo debba scomparire. La vita è troppo bella perché debba perire a causa dell'atto folle di un'unica, folle creatura...»
Placidamente, le acque lo lavarono. Placidamente... senza fretta... Il mare lo cullò dolcemente, e perfino l'angoscia che gli stringeva il cuore era una mano avvolta in un morbido guanto. Improvvisamente il cielo si aprì — per la prima volta durante tutti quei mesi — e Crane fissò sopra di sé le stelle.
Allora seppe. Questa non era la fine della vita. La vita non avrebbe mai potuto finire... All'interno del suo corpo, all'interno dei suoi tessuti che imputridivano cullati dolcemente dal mare c'era la fonte di dieci milioni di milioni di vite. Cellule, tessuti, batteri, amebe... Innumerevoli infinità di vite che avrebbero piantato nuove radici nelle acque e sarebbero vissute molto tempo dopo che lui se n'era andato.
Essi sarebbero vissuti dei suoi resti imputriditi. Si sarebbero nutriti gli uni degli altri. Si sarebbero adattati al nuovo ambiente, nutrendosi dei minerali e dei sedimenti portati dalle piogge dentro a questo nuovo mare. Sarebbero cresciuti, avrebbero germogliato, si sarebbero evoluti. La vita si sarebbe nuovamente estesa anche sopra le terre emerse. E sarebbe nuovamente iniziato il vecchio ciclo già altre volte ripetuto, che forse aveva avuto inizio dal corpo putrido dell'ultimo sopravvissuto di un qualche viaggio interstellare. Sarebbe accaduto di nuovo e di nuovo, in epoche future.
E poi seppe che cosa l'aveva ricondotto al mare. Non c'era bisogno di nessun Adamo... né di alcuna Eva. Soltanto il mare, la grande madre della vita, era necessario. Il mare lo aveva richiamato alle sue profondità, cosicché, poi, la vita potesse emergere ancora una volta dalle sue acque, e lui ne fu contento.


Placidamente le acque lo cullarono. Placida... calma... la madre della vita cullava l'ultimo nato dell'ultimo ciclo che sarebbe divenuto il primo nato del nuovo ciclo. Con occhi ormai vitrei, Stephen Crane sorrise alle stelle, stelle che erano sparse uniformemente nel cielo. Stelle che non avevano ancora formato le familiari costellazioni, e non l'avrebbero fatto per altri cento milioni di secoli.

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