ADAMO
E NIENTE EVA, di Alfred Bester
Crane
sapeva che quella doveva essere la costa. L'istinto glielo diceva, ma
più che l'istinto, glielo dicevano i pochi frammenti di conoscenza
che si tenevano aggrappati al suo cervello sconvolto e febbricitante,
le stelle che erano apparse nella notte attraverso i rari squarci
delle nubi e la sua bussola che puntava ancora un ago tremante verso
nord. Quella era la cosa più strana di tutte, pensò Crane. Malgrado
dovunque regnasse il caos, la Terra aveva conservato i suoi poli.
Non
c'era più una costa, non c'era più alcun mare. Soltanto la linea
appena accennata di quella che era stata una scogliera si stendeva a
nord e a sud per interminabili miglia. Una linea di grigie ceneri. Le
stesse ceneri e scorie che si stendevano dietro di lui; le stesse
ceneri grigie che si stendevano davanti a lui. Il limo sottile,
impalpabile, che lo faceva sprofondare fino al ginocchio,
sollevandosi turbinando a ogni movimento, soffocandolo. Ceneri che si
addensavano in nuvole possenti, correndo per il cielo quando soffiava
il vento impazzito. Ceneri che s'impastavano in un fango vischioso
quando scrosciavano le frequenti piogge.
Sopra
la sua testa il cielo era color ebano. Le nubi nere correvano alte ed
erano perforate qua e là da lame di luce solare che sciabolavano
rapide sopra la Terra. Là dove la luce batteva sopra una tempesta di
cenere, si creava una danza di particelle scintillanti. Là dove
attraversava la pioggia, nascevano mille arcobaleni. Cadeva la
pioggia; soffiavano tempeste di ceneri; lame di luce penetravano fino
al suolo... tutto ciò insieme, o contemporaneamente, un continuo
incastro di violenza, bianco e nero. Così era stato per mesi. Così
era sopra ogni singolo chilometro quadrato dell'intera Terra.
Crane
oltrepassò l'orlo della scogliera calcinata e cominciò a scivolar
giù lungo un pendio uniforme che un tempo era stato il letto
dell'oceano.
Aveva
viaggiato tanto a lungo che era incapace, ormai, di provar dolore. Si
fece forza coi gomiti e trascinò il suo corpo in avanti. Poi portò
il ginocchio destro sotto di sé e spinse di nuovo in avanti i
gomiti. Ginocchio, gomiti, ginocchio, gomiti... aveva dimenticato che
cosa significava camminare.
La
vita, pensò, stordito, è meravigliosa. Si adatta ad ogni cosa. Se
uno deve strisciare, striscia. Si formano i calli sui gomiti e sulle
ginocchia. Collo e spalle s'irrobustiscono. Le narici imparano a
soffiar via le ceneri prima d'inspirare. La gamba malata si gonfia e
comincia a suppurare. S'intorpidisce, ben presto marcirà e si
staccherà.
«Scusi»,
fece Crane, «non ho capito cosa...»
Alzò
gli occhi scrutando l'alta figura davanti a sé e cercò di afferrare
le sue parole. Era Hallmyer. Indossava il suo camice da laboratorio,
macchiato, e i suoi capelli grigi erano scompigliati. Hallmyer stava
ritto senza fatica sopra le ceneri e Crane si chiese come fosse
possibile vedere le nubi di polvere turbinante attraverso il suo
corpo.
«Ti
piace il tuo mondo, Stephen?» chiese Hallmyer.
Crane
scosse miserevolmente la testa.
«Non
è molto bello, eh?» disse ancora Hallmyer. «Guàrdati attorno.
Polvere, non c'è altro che polvere e ceneri. Striscia, Stephen,
striscia. Non troverai nulla, soltanto polvere e ceneri...»
Hallmyer
tirò fuori dal nulla un bicchier d'acqua, limpida e fredda. Crane
vide il sottile strato di rugiada condensato sul vetro, e sentì la
sua bocca riarsa come se all'improvviso fosse rivestita di granelli
di sabbia.
«Hallmyer!»
gridò. Cercò di alzarsi in piedi e di afferrare il bicchiere colmo
d'acqua, ma la fitta di dolore alla gamba lo ammonì. Si ritrasse,
rannicchiandosi su se stesso.
Hallmyer
sorseggiò l'acqua del bicchiere, poi gliela sputò in faccia.
L'acqua era calda.
«Continua
a strisciare», disse Hallmyer, amaro, «continua a strisciare
intorno alla superficie della Terra. Non troverai altro che polvere e
ceneri...»
Vuotò
il bicchiere al suolo davanti a Crane. «Continua a strisciare. Per
quante miglia? Calcolatele da solo. Pi erre al quadrato. Il raggio è
di ottomila o giù di lì...»
Era
scomparso, camice e bicchiere. Crane si rese conto che aveva
ricominciato a piovere. Premette il viso contro il caldo fango di
ceneri inzuppato d'acqua, aprì la bocca e cercò di succhiare
l'umidità. Gemette, e poco dopo riprese a strisciare.
L'istinto
lo spingeva a continuare. Doveva arrivare da qualche parte. Sapeva
che questo era in qualche modo associato col mare, col bordo del
mare. Sulla... sulla riva del mare qualcosa lo aspettava. Qualcosa
che gli avrebbe consentito di capire tutto ciò. Doveva arrivare al
mare... vale a dire, se esisteva ancora un mare.
La
pioggia scrosciante gli martellava la schiena, Crane fece una sosta e
si tirò lo zaino sul fianco, dove avrebbe potuto frugarci dentro con
una mano. Sapeva che là dentro vi erano giusto tre cose: una
pistola, una tavoletta di cioccolato e un barattolo di pesche. Tutto
quello che gli rimaneva della riserva di due mesi. La cioccolata si
era ridotta a una poltiglia guasta. Crane sapeva che avrebbe fatto
meglio a mangiarla prima che tutto il valore nutritivo scomparisse.
Ma, ancora un altro giorno, e non avrebbe più avuto forza
sufficiente ad aprire il barattolo. Lo tirò fuori e l'aggredì con
l'apriscatole. Quando finalmente riuscì a forzare la latta e a
tirarne via un lembo, la pioggia era cessata.
Mentre
masticava la frutta e sorseggiava il succo, osservò il muro di
pioggia che si allontanava da lui scendendo il pendio fino al fondo
dell'oceano. Torrenti d'acqua stavano sprizzando fuori dal fango.
Piccoli canali venivano scavati... canali che un giorno sarebbero
stati i nuovi fiumi. Un giorno che lui non avrebbe mai visto. Un
giorno che nessuna creatura vivente avrebbe mai visto.
Mentre
gettava via il barattolo vuoto, Crane pensò: l'ultima creatura viva
sulla Terra ha mangiato il suo ultimo pasto. Il metabolismo recita il
suo ultimo atto.
Il
vento sarebbe seguito alla pioggia. Nelle interminabili settimane
durante le quali aveva strisciato, aveva imparato questo. Il vento
sarebbe giunto fra pochi minuti e l'avrebbe sferzato con le sue nubi
di ceneri e pomice. Riprese a strisciare in avanti, esplorando con
gli occhi confusi quella grigia distesa piatta, alla ricerca di un
riparo.
Evelyn
gli batté sulla spalla.
Crane
seppe che era lei ancora prima di girare la testa. Ella era in piedi
accanto a lui, fresca e allegra nel suo abito dai vivaci colori, ma
il suo viso adorabile era contorto dalla paura.
«Stephen»,
lei gridò, «devi affrettarti!»
Lui
poté soltanto contemplare, affascinato, i suoi lisci capelli color
del miele che le ricadevano fino alle spalle.
«Oh,
caro!» lei disse ancora, «sei ferito!» Le sue mani delicate gli
sfiorarono in una rapida carezza le gambe e la schiena. Crane annui.
«Mi
è accaduto qualcosa quando ho toccato terra», spiegò, «non ero
abituato al paracadute. Avevo sempre creduto che si scendesse
lentamente... al più come cadere dal letto. Ma il suolo grigio si è
precipitato verso di me come un pugno... e Umber si stava agitando
fra le mie braccia. Non potevo lasciarlo cadere, vero?»
«Naturalmente,
mio caro...» fece Evelyn.
«Così
l'ho tenuto stretto e ho cercato di mettere le gambe sotto di me»,
continuò Crane. «Ma poi, qualcosa mi ha fracassato una gamba e il
fianco...» Indugiò, chiedendosi quanto lei sapesse di ciò che era
veramente accaduto. Non voleva spaventarla.
«Evelyn,
tesoro...» lui disse, cercando di sollevare le braccia.
«No,
caro», lei lo fermò, guardando spaventata dietro di sé, «devi
affrettarti. Devi stare attento alle tue spalle!»
«Le
tempeste di cenere?» Crane fece una smorfia. «Ne ho già affrontate
altre».
«No,
non le tempeste!» gridò Evelyn. «Qualcos'altro. Oh, Stephen...»
Poi
scomparve, ma Crane sapeva che aveva detto la verità. C'era qualcosa
dietro di lui, qualcosa che lo aveva seguito durante tutte quelle
settimane. Lontano, nei recessi della sua mente, lui aveva avvertito
la minaccia. Stava rinchiudendosi su di lui come un sudario. Scosse
la testa. In qualche modo, ciò era impossibile. Lui era l'ultima
creatura vivente sulla Terra. Come avrebbe potuto esserci una
minaccia?
Il
vento ruggì dietro di lui, e un istante più tardi arrivarono le
pesanti nuvolaglie di scorie e ceneri che lo sferzarono, mordendogli
la pelle. Con gli occhi appannati, vide come essiccavano il fango,
creando su di esso una sottile crosta asciutta. Crane si raggomitolò
sulle ginocchia e si coprì la testa con le braccia. Con lo zaino
come cuscino, si preparò ad aspettare la fine della tempesta.
Sarebbe passata con la stessa rapidità della pioggia.
La
tempesta gli suscitò un grande disorientamento nella testa malata.
Come un bambino, lui tuffò le mani tra i suoi ricordi, cercando di
far combaciare i vari frammenti. Perché mai Hallmyer era così amaro
con lui? Poteva essersi trattato di quella discussione, forse?
Quale
discussione?
Diamine,
la discussione... prima che tutto ciò accadesse.
Ah,
quella!
All'improvviso,
i pezzi combaciarono.
Crane
era in piedi, accanto alla sua nave dallo snello profilo, e la
guardava con occhi pieni d'una sconfinata ammirazione. Il tetto del
capannone era stato tolto, e il muso della nave era stato sollevato,
cosicché essa, sostenuta dall'ingabbiatura, ora puntava direttamente
verso il cielo. Un operaio stava lustrando meticolosamente le
superfici interne degli ugelli dei razzi.
I
suoni soffocati di una discussione giunsero dall'interno della nave,
seguiti da un pesante sferragliare. Crane salì di corsa la breve
scaletta metallica fino al portello e cacciò dentro la testa. A
pochi metri da lui, due uomini stavano fissando al loro posto i
lunghi serbatoi di soluzione ferrosa.
«Andateci
piano», gridò Crane, «volete fare saltare la nave?»
Uno
dei due alzò lo sguardo e sogghignò. Crane sapeva ciò che stava
pensando. Che la nave sarebbe andata in pezzi. Tutti lo dicevano.
Tutti, salvo Evelyn. Lei aveva fede in lui. Neanche Hallmyer l'aveva
mai detto. Ma Hallmyer pensava che lui fosse pazzo per altri motivi.
Mentre scendeva la scaletta, Crane vide Hallmyer entrare nel
capannone col camice che sbatteva al vento.
«Parla
del diavolo!» borbottò Crane.
Hallmyer
cominciò a urlare non appena vide Crane: «Adesso ascolta...»
«Oh,
non di nuovo», fece Crane.
Hallmyer
tirò fuori di tasca un foglio di carta e lo sventolò sotto il naso
di Crane.
«Sono
stato su quasi tutta la notte», strillò, «ripassando ogni cosa da
cima a fondo. Ti dico che ho ragione. Ho assolutamente ragione...»
Crane
guardò le file e file di equazioni e poi gli occhi iniettati di
sangue di Hallmyer. Quell'uomo era mezzo impazzito per la paura.
«Per
l'ultima volta», proseguì Hallmyer. «Tu vuoi usare il tuo nuovo
catalizzatore sulla soluzione di sali ferrosi. D'accordo, ti concedo
che è una scoperta miracolosa. Te ne do credito».
Miracolosa
era forse la parola giusta per definirla. Crane lo sapeva, senza
false presunzioni, che lui era incappato in quella scoperta per caso.
Bisognava inciampare su un catalizzatore capace d'indurre la
disintegrazione nucleare nel ferro, liberando dieci miliardi di joule
d'energia per ogni grammo di combustibile. Nessun uomo era
intelligente al punto da elaborare tutto questo col puro
ragionamento.
«Tu
non credi che ce la farò?» chiese Crane.
«Fino
alla Luna? Intorno alla Luna? Forse. Hai cinquanta probabilità su
cento di riuscirci». Hallmyer si passò le dita fra i capelli lisci.
«Ma per l'amor del cielo, Stephen, non sono preoccupato per te. Se
vuoi ammazzarti, quelli sono affari tuoi. È per la Terra che mi
preoccupo...»
«Stupidaggini.
Vai a casa e dormici sopra».
«Senti...»
Hallmyer indicò i fogli di carta con mano tremante, «non importa
come tu elabori il sistema di alimentazione e di mescolamento, tu non
otterrai mai un'efficienza del cento per cento nella reazione e nella
scarica».
«È
questo che fa sì che vi sia soltanto il cinquanta per cento di
probabilità», disse Crane. «E già lo sapevamo. Perciò, c'è
qualcos'altro che ti turba. Che cosa?»
«Il
catalizzatore che sfuggirà dagli ugelli dei razzi. Ti rendi conto di
quello che causerà, se una sola goccia colpirà la Terra? Darà
inizio a una reazione a catena che disintegrerà il ferro su tutta la
superficie del globo. Raggiungerà ogni atomo di ferro... e c'è
ferro dappertutto. Non ci sarà più nessuna Terra...»
«Ascolta»,
replicò Crane stancamente, «abbiamo già discusso altre volte di
tutto questo».
Poi
condusse Hallmyer alla base dell'incastellatura del razzo. Sotto
l'intelaiatura di ferro c'era un pozzo profondo sessanta metri, largo
quindici, e rivestito di mattoni refrattari.
«Questo
è per la fase iniziale di propulsione. Se una frazione per quanto
piccola del catalizzatore dovesse passare, resterà intrappolata in
questo pozzo e di essa si occuperanno le reazioni secondarie.
Soddisfatto, adesso?»
«Ma
mentre sarai in volo, tu metterai in pericolo la Terra fino a quando
non avrai superato il limite di Roche. Ogni singola goccia di
catalizzatore non utilizzato finirà per arrivare al suolo, e...»
«Per
l'ultimissima volta», esclamò Crane, risoluto, «la fiamma della
scarica del razzo si prenderà cura di ciò. Avvilupperà qualunque
particella che dovesse sfuggire e la distruggerà. Adesso vai fuori,
ho del lavoro da fare».
Mentre
veniva spinto verso la porta, Hallmyer urlò e agitò le braccia:
«Troverò il modo di fermarti. Non te lo lascerò fare...»
Lavoro?
No, era pura intossicazione, questo darsi da fare intorno alla nave.
Pura gioia personale. Essa aveva la bellezza delle cose ben fatte. La
bellezza di un'armatura ben lucidata, dell'impugnatura di una spada
ben bilanciata, di un paio di pistole gemelle cesellate. Non c'era
alcun pensiero di pericolo, e ancor meno di morte, nella mente di
Crane, mentre si ripuliva le mani con uno straccio, dopo aver
completato quegli ultimi tocchi.
L'astronave
si teneva eretta nella sua ingabbiatura, pronta a trapassare i cieli.
Quindici metri di snello acciaio, le teste dei bulloni che
luccicavano come gioielli. Per una lunghezza di sei metri la nave
ospitava l'apparato di propulsione, con il dispositivo per
l'erogazione graduata del catalizzatore. La maggior parte dello
scompartimento di prua ospitava la speciale cuccetta a molle che
Crane aveva progettato per assorbire lo shock iniziale
dell'accelerazione. Il muso della nave era un blocco compatto di
quarzo naturale che guardava all'insù come un occhio ciclopico.
Crane
pensò: «Essa morirà dopo questo viaggio. Tornerà alla Terra e si
fracasserà in una tonante vampata di fuoco, poiché non esiste
ancora alcun modo per progettare un atterraggio sicuro per una nave a
razzo. Ma ne vale la pena. Perché avrà avuto il suo unico, grande
volo, e questo è tutto ciò che ciascuno di noi vorrebbe avere. Un
grande, bellissimo volo nell'ignoto...»
Mentre
chiudeva a chiave la porta del laboratorio, Crane sentì Hallmyer che
gridava dal cottage sul lato opposto del campo. Attraverso l'oscurità
crescente della sera, riuscì a vederlo che gesticolava
freneticamente. Allora attraversò di corsa la distesa d'erba
tagliata corta, inalando profondamente l'aria frizzante, grato di
essere vivo.
«C'è
Evelyn al telefono», l'informò Hallmyer.
Crane
lo fissò. Hallmyer si stava comportando in maniera strana. Evitò
ostentatamente il suo sguardo.
«Che
cos'è questa storia?» chiese Crane. «Mi pareva che fossimo rimasti
d'accordo che non doveva chiamare... che non avrebbe dovuto mettersi
in contatto con me fino a quando non fossi stato pronto a partire. Le
hai forse messo delle idee in testa? È questo il modo con cui speri
di fermarmi?»
Hallmyer
disse: «No...» e si mise a fissare l'orizzonte color indaco cupo.
Crane
entrò nel suo studio e prese su il ricevitore.
«Adesso
ascoltami, tesoro», cominciò senza preamboli, «non c'è ragione di
allarmarsi proprio adesso. Ti ho spiegato ogni cosa in tutti i
particolari. Prima che la nave si schianti, mi butterò col
paracadute e scenderò fluttuando, felice come una Pasqua. Ti amo
moltissimo, e ti rivedrò mercoledì quando partirò. Ciao...»
«Ciao,
tesoro», esclamò lei in risposta, con la sua voce squillante, «ed
è soltanto per questo che mi hai chiamato?»
«Chiamato...
io?»
Una
massa bruna si staccò dal tappeto davanti al caminetto e si rizzò
sulle robuste zampe. Umber, il grande danese di Crane, annusò l'aria
e alzò un orecchio. Poi uggiolò.
«Hai
detto che sono stato io a chiamarti?» urlò Crane.
Improvvisamente
dalla gola di Umber uscì un latrato. Con un solo balzo raggiunse
Crane, lo guardò in viso, uggiolò e ruggì tutto insieme.
«Chiudi
il becco, mostro!» disse Crane, spingendo via Umber col piede.
«Dài
a Umber un calcio da parte mia», esclamò Evelyn, ridendo. «Sì,
caro. Qualcuno ha chiamato e ha detto che volevi parlarmi».
«Hanno
fatto questo, eh? Senti, tesoro, ti richiamo...»
Crane
riattaccò. Si alzò, perplesso, e osservò l'inquieto comportamento
di Umber. Attraverso le finestre gli ultimi barlumi del tramonto
proiettavano tremolanti bagliori arancione. Umber fissò le luci,
annusò l'aria e latrò un'altra volta. Colpito da un'idea
improvvisa, Crane balzò verso la finestra.
Dall'altro
lato del campo una densa muraglia di fiamme s'innalzava nell'aria, e
all'interno di essa s'intravedevano le pareti del laboratorio che
stavano crollando una dopo l'altra. Sullo sfondo dell'incendio
comparvero le sagome d'una dozzina di uomini, lanciati in una folle
corsa.
«Santo
cielo!» gridò Crane.
Balzò
fuori dal cottage e con Umber alle calcagna si lanciò verso il
capannone. Mentre correva, riuscì a distinguere lo snello profilo
della nave spaziale all'interno del vortice d'aria rovente. Lo scafo
appariva ancora freddo e indenne. Se soltanto fosse riuscito a
raggiungerla prima che le fiamme ammorbidissero il suo metallo e
allentassero i bulloni...
Gli
operai gli corsero incontro, sporchi d'unto e ansimanti. Crane li
guardò a bocca aperta, con un misto di collera e di sbalordimento.
«Hallmyer!»
gridò, «Hallmyer!»
Hallmyer
si fece largo tra la gente. I suoi occhi erano stravolti ma
brillavano della luce del trionfo.
«Tanto
peggio», disse. «Mi spiace, Stephen...»
«Porco!»
urlò Crane. «Vigliacco bavoso che non sei altro!»
Agguantò
Hallmyer per il bavero e gli diede un violento scrollone. Poi lo
lasciò cadere e si lanciò di corsa verso il capannone.
Hallmyer
urlò qualcosa e un istante più tardi un corpo si scagliò contro i
suoi polpacci e lo fece ruzzolare al suolo. Hallmyer si rialzò
barcollando, vibrando i pugni. Umber era al suo fianco, vibrando
sopra il ruggito delle fiamme. Crane fracassò il viso di un uomo, e
lo vide barcollare all'indietro, finendo addosso a un altro. Poi alzò
il ginocchio di scatto e con un colpo brutale mandò accartocciato
per terra il terzo inseguitore. Poi abbassò la testa e si tuffò tra
le fiamme.
Sulle
prime, neppure sentì le bruciature, ma quando raggiunse la scaletta
metallica e cominciò a salire verso il portello, urlò per il dolore
delle ustioni. Umber ululava ai piedi della scaletta, e Crane si rese
conto che il cane non sarebbe mai riuscito a sfuggire alle vampe dei
razzi. Si curvò, afferrò Umber e lo tirò dentro la nave.
Crane
vacillava, quando chiuse il portello ermetico. Riuscì a conservare
la sua conoscenza quel tanto che gli bastò a sistemarsi sulla
cuccetta antiaccelerazione. Poi fu soltanto l'istinto che spinse le
sue mani verso il quadro di comando. L'istinto, e il disperato
desiderio d'impedire che la sua bella nave fosse ingoiata dalle
fiamme. Avrebbe fallito... Sì, ma avrebbe fallito tentando.
Le
sue dita azionarono gli interruttori. La nave vibrò e ruggì. E
l'oscurità calò su di lui.
Per
quanto tempo restò privo di sensi? Non aveva alcun modo di saperlo.
Crane si svegliò percependo una gelida pressione contro la nuca e la
schiena, e un uggiolio terrorizzato nelle orecchie. Crane guardò su
e vide Umber intrappolato fra le molle e le cinghie della cuccetta.
Il suo primo impulso fu di scoppiare a ridere; poi, all'improvviso,
si rese conto di aver guardato su. Aveva guardato su, verso la
cuccetta.
Si
accorse di giacere, arrotolato su se stesso, nella cavità interna
della grande coppa di quarzo massiccio che costituiva il muso della
nave. La quale era salita in alto — forse fino al limite di Roche,
al confine della forza gravitazionale della Terra — ma poi, senza
mani sui comandi che la guidassero nella continuazione del volo,
aveva ruotato su se stessa ricadendo verso il pianeta. Crane scrutò
attraverso il cristallo e rantolò.
Sotto
di lui vi era il globo della Terra. Le sue dimensioni apparenti erano
il triplo di quelle della Luna. E non era più la sua Terra. Era il
globo di fuoco chiazzato di nubi nere. Nell'area corrispondente al
polo Nord vi era una minuscola macchia bianca, ma proprio mentre
Crane guardava, essa fu improvvisamente coperta da nuvolaglie brune,
scarlatte e cremisi. Hallmyer aveva avuto ragione.
Per
ore e ore giacque pietrificato, lì nel muso di prua, mentre la nave
scendeva, osservando il lento dissiparsi delle fiamme che lasciavano
posto a una densa coltre nera che avvolgeva completamente la Terra.
Giacque lì, intorpidito dall'orrore, incapace di capire... incapace
d'immaginare i miliardi d'esseri umani distrutti, un bel pianeta
verde ridotto in ceneri e scorie. La sua famiglia, la sua casa, i
suoi amici, tutto quello che gli era stato caro e vicino al cuore...
scomparso! Non riuscì a pensare a Evelyn.
Il
sibilo dell'aria, fuori dello scafo, ridestò in lui qualche vaga
facoltà mentale. I pochi brandelli di ragione che gli erano rimasti
gli dissero che la cosa migliore per lui sarebbe stata quella di
precipitare a picco con la sua nave, dimenticando ogni cosa nel boato
dello schianto e della disintegrazione, ma l'istinto di conservazione
lo costrinse a sollevarsi in piedi, ad arrampicarsi fino al
ripostiglio e a prepararsi per l'atterraggio. Un paracadute, un
piccolo serbatoio d'ossigeno e uno zaino carico di provviste. Solo
per metà cosciente di quanto stava facendo, si vestì per la
discesa, si affibbiò il paracadute e aprì il portello. Umber
uggiolò pateticamente, Crane prese il grosso cane tra le braccia e
si lanciò nel vuoto.
Ma
il vuoto, là fuori, non era mai stato pieno come adesso. A una
simile quota prima sarebbe stato difficile respirare a causa della
rarefazione dell'aria. Adesso era quasi impossibile a causa del
pulviscolo asciutto e impalpabile che l'ingolfava. Ogni respiro
significava riempirsi i polmoni di ceneri, scorie, vetro
polverizzato...
Il
quadro dei ricordi tornò a frantumarsi. All'improvviso, si ritrovò
al presente... un presente nero, denso, che l'avviluppava in una
stretta morbida e soffocante, togliendogli il respiro. Crane lottò
in preda a un panico folle, poi si accasciò esausto.
Era
già accaduto altre volte. Molto tempo prima, all'interrompersi dei
ricordi si era trovato sepolto sotto un profondo strato di polvere.
Giorni... o settimane... o mesi prima. Crane, aggrappandosi con le
unghie ai più piccoli appigli, riuscì a farsi strada attraverso la
montagnola di ceneri che il vento gli aveva ammucchiato addosso. E
riemerse alla luce. Il vento era cessato. Era giunto il momento di
riprendere a strisciare verso il mare.
Le
vivide immagini dei suoi ricordi finirono di sparpagliarsi davanti al
lugubre panorama che si stendeva di fronte a lui. Crane si accigliò.
Ricordava troppo, e troppo spesso. Aveva la vaga speranza che se
fosse riuscito a ricordare con sufficiente intensità, sarebbe
riuscito a cambiare una delle cose che aveva fatto — almeno una,
una cosa anche piccola — e poi, tutto questo sarebbe diventato
irreale. Pensò: sarebbe di grande aiuto se tutti ricordassero ed
esprimessero un desiderio contemporaneamente... ma non c'erano più i
«tutti». Io sono solo. Io sono l'ultimo ricordo della Terra. Io
sono l'ultimo frammento di vita.
Strisciò.
Gomiti, ginocchia, gomiti, ginocchia... e poi Hallmyer prese a
strisciargli accanto, trasformando tutto ciò in un gioco. Rideva e
si tuffava nelle ceneri come una foca, sprizzando felicità.
Crane
disse: «Ma perché dobbiamo andare fino al mare?»
Hallmyer
sbuffò, sollevando uno spruzzo di ceneri.
«Chiedilo
a lei», rispose, indicando l'altro lato di Crane.
Evelyn
era lì, che strisciava con caparbia determinazione, mimando con
estrema serietà ogni più piccolo gesto di Crane.
«È
a causa della nostra casa», spiegò lei, «non ricordi la nostra
casa, tesoro? In alto sul dirupo? Saremmo vissuti lì per sempre,
respirando l'ozono e facendo delle belle nuotate ogni mattina. Ero
lì, quando tu sei partito. Adesso, stai tornando alla casa sul bordo
del mare. Il tuo meraviglioso volo è finito, caro, e tu stai
tornando da me. Vivremo insieme, noi due soli, come Adamo ed Eva...»
Crane
disse: «È bello».
Poi
Evelyn girò la testa e urlò: «Oh, Stephen, stai attento!» E Crane
sentì di nuovo la minaccia chiudersi su di lui. Sempre strisciando,
guardò dietro di sé le sconfinate pianure di cenere e non vide
nulla. Quando tornò a voltarsi verso Evelyn, vide soltanto la
propria ombra, nera e dai bordi netti. Poco dopo anche l'ombra svanì,
quando la lama di luce solare passò oltre.
Ma
la paura rimase. Evelyn l'aveva avvertito due volte, e aveva sempre
avuto ragione. Crane si fermò, e si voltò per guardar meglio.
Se
lui era davvero seguito, avrebbe visto, così, chi lo stava
braccando.
Vi
fu un doloroso momento di lucidità. Penetrò attraverso la sua
febbre e il suo disorientamento portando con sé l'affilata
spietatezza di un coltello.
Sto
impazzendo, pensò. La cancrena della mia gamba si è estesa al
cervello. Non c'è nessuna Evelyn, nessun Hallmyer, nessuna minaccia.
Su tutto questo pianeta non c'è nessuna vita, salvo la mia, perfino
i fantasmi e gli spiriti d'oltretomba devono essere periti
nell'inferno che ha avvolto la Terra. No, non c'è nulla, salvo io
stesso e il mio male. Sto morendo, e quando morirò, sarà morto
tutto. Resterà soltanto una massa di ceneri senza vita.
Colse
un movimento.
Di
nuovo l'istinto. Crane fu pronto ad abbassare la testa e a fingersi
morto. Ma continuò a guardare le pianure di cenere attraverso gli
occhi socchiusi, chiedendosi se la morte incombente non stesse
facendo scherzi alla sua vista. Un altro muro compatto di pioggia
stava per investirlo. Crane sperò di riuscire a distinguere qualcosa
prima che la sua vista fosse cancellata...
Sì.
Laggiù.
Un
quarto di miglio più indietro una grande forma grigia stava correndo
sulla superficie grigia. Malgrado il martellare della pioggia ancora
lontana, Crane udì il fruscio delle polveri calpestate e vide le
nuvolette alzarsi. Furtivamente, rovistò nello zaino cercando la
pistola, mentre la sua mente tentava debolmente di elaborare una
spiegazione e si ritraeva davanti alla paura.
La
cosa si avvicinò, e improvvisamente Crane strizzò gli occhi e capì.
Ricordò Umber che, scalciando per la paura, era balzato via da lui
quando il paracadute li aveva fatti atterrare sulla superficie
incenerita della Terra.
«Diamine,
è Umber», mormorò. Si sollevò in piedi. Il cane si fermò. «Qui,
ragazzo!» gracchiò allegramente Crane, «qui, ragazzo!»
Era
sopraffatto dalla gioia. Si rese conto di quanto miserabile fosse la
solitudine che aveva gravato su di lui, un'orrenda sensazione di
unicità nella desolazione. Adesso la sua non era l'unica vita
esistente. Ce n'era un'altra. Una vita amichevole che poteva offrire
amore, affetto. La speranza si riaccese in lui.
«Qui,
ragazzo», ripeté, «vieni, ragazzo...»
Dopo
un po', smise di far schioccare le dita. Il grande danese si teneva
lontano, mostrando i denti e tenendo la lingua penzoloni. Il cane era
magro al punto da sembrare uno scheletro, i suoi occhi luccicavano
rossi e cattivi nell'oscurità. Quando Crane ancora una volta lo
chiamò, il cane ringhiò. Sbuffi di cenere si levarono da sotto le
sue narici.
È
affamato, pensò Crane, per questo è così. Infilò la mano nello
zaino e a quel gesto il cane ringhiò di nuovo. Crane tirò fuori la
tavoletta di cioccolato e laboriosamente la liberò dalla carta e
dalla stagnola, poi, con la sua debole forza, la lanciò verso Umber.
La tavoletta cadde molto lontano dal cane. Dopo un minuto di
tempestosa incertezza, il cane lentamente venne avanti e ingollò il
cibo. Le ceneri gli incipriarono il muso. Poi si mise a leccarsi i
baffi, a lungo, e continuò ad avanzare verso Crane.
Questi
si sentì cogliere da un improvviso accesso di paura. Una voce
insisteva a dirgli: Questo non è un amico. Non ha alcun amore né
sente alcuna amicizia verso di te. L'amore e l'amicizia sono
scomparsi dalla Terra insieme alla vita. Adesso non è rimasto nulla,
soltanto la fame.
«No...»
bisbigliò Crane, «non è giusto. Noi siamo l'ultima vita sulla
Terra. Non è giusto che dobbiamo sbranarci a vicenda, cercando di
divorarci...»
Ma
Umber continuava ad avanzare, obliquamente, con fare furtivo, e i
suoi denti luccicavano, bianchi e aguzzi. E proprio mentre Crane lo
fissava, il cane ringhiò e si scagliò contro di lui.
Crane
cacciò con forza una mano sotto il muso del cane, ma l'impeto
dell'animale lo spinse con violenza all'indietro. Urlò per il dolore
quando la sua gamba rotta, gonfia, fu investita dal peso di Umber.
Con la mano destra libera egli colpì con forza, ripetutamente,
avvertendo appena i denti che gli stritolavano il braccio sinistro.
Poi il suo corpo premette su qualcosa di metallico, e lui si rese
conto di esser finito sopra il revolver che aveva lasciato cadere.
Lo
cercò a tentoni, e pregò che le ceneri non avessero intasato il
meccanismo di sparo. Quando Umber lasciò andare il suo braccio e
cercò di azzannarlo alla gola, Crane sollevò la pistola e piantò
la canna, alla cieca, contro il corpo del cane. E premette più volte
il grilletto, finché i rombi degli spari non si spensero in distanza
e si udirono soltanto dei ticchettii a vuoto.
Un
denso liquido scarlatto macchiava il grigio.
Evelyn
e Hallmyer abbassarono tristemente lo sguardo sull'animale abbattuto.
Evelyn stava piangendo, e Hallmyer si passò le dita nervose tra i
capelli, ripetendo il vecchio gesto abitudinario.
«Questa
è la fine, Stephen», disse, «hai ucciso una parte di te stesso.
Oh... tu continuerai a vivere, ma non nella tua completezza. Farai
meglio a seppellire qui il cadavere, Stephen. É il cadavere della
tua anima».
«Non
posso», replicò Crane, «il vento soffierà via le ceneri».
«Allora
brucialo...»
Gli
parve che essi lo aiutassero a sfilarsi lo zaino e a infilarlo sotto
il cane. Lo aiutarono anche a sfilarsi i vestiti e ad ammucchiarli
insieme allo zaino. E fecero coppa intorno ai fiammiferi, fino a
quando il tessuto non prese fuoco, e soffiarono sulla debole fiamma
fino a quando non s'innalzò crepitando e non prese decisamente ad
ardere. Crane restò rannicchiato accanto al fuoco e lo attizzò fino
a quando non rimase nulla, se non dell'altra cenere grigia. Poi le
voltò le spalle e una volta ancora prese a strisciare giù,
sull'antico letto dell'oceano. Adesso era nudo. Non c'era più nulla
di ciò che era stato, salvo la sua piccola, tremula vita.
Era
troppo afflitto dal dolore per accorgersi della furibonda pioggia che
lo schiaffeggiava e lo sferzava, o dei lancinanti dolori che gli
trafiggevano la gamba annerita fino all'anca. Strisciava. Gomiti,
ginocchia, gomiti, ginocchia, legnosamente, meccanicamente, apatico
nei confronti di tutto. Del cielo chiuso sopra la sua testa, delle
pianure desolate, e perfino dell'opaco bagliore dell'acqua che
s'intravedeva laggiù, molto più lontana.
Crane
sapeva che si trattava del mare... quel poco che era rimasto del
vecchio, oppure un nuovo mare che si andava formando. Ma sarebbe
stato un mare vuoto, senza vita, il quale avrebbe lambito sponde
asciutte e senza vita. Quello sarebbe stato un pianeta di roccia e di
pietra, di metallo, di neve e ghiaccio, e d'acqua, ma questo sarebbe
stato tutto. Non più vita. Lui, da solo, era inutile. Lui era Adamo,
ma non c'era Eva.
Evelyn
lo salutò allegramente dalla sponda, agitando la mano. Era in piedi
accanto al candido cottage, il vento che agitava il suo abito
mostrando le linee snelle e innocenti della sua figura. E quando lui
giunse un po' più vicino, lei gli corse incontro e lo aiutò. Evelyn
non disse nulla, si limitò a infilargli le mani sotto le ascelle
aiutandolo a tener sollevato il peso del suo corpo torturato
dall'intenso dolore. Così, alla fine, lui raggiunse il mare.
Era
vero, quel mare. Al di là di ogni dubbio. Poiché, anche dopo che
Evelyn e il cottage furono scomparsi, sentì l'acqua bagnargli,
fresca, il viso. Acque tranquille... Calme...
Ecco
il mare, pensò Crane, ed io... eccomi qui. Adamo, e niente Eva. Non
c'è speranza.
Giacque
col volto rivolto al cielo, scrutando l'alto cielo tempestoso, e
l'amarezza dentro di lui crebbe.
«Non
è giusto!» urlò. «Non è giusto che tutto questo debba
scomparire. La vita è troppo bella perché debba perire a causa
dell'atto folle di un'unica, folle creatura...»
Placidamente,
le acque lo lavarono. Placidamente... senza fretta... Il mare lo
cullò dolcemente, e perfino l'angoscia che gli stringeva il cuore
era una mano avvolta in un morbido guanto. Improvvisamente il cielo
si aprì — per la prima volta durante tutti quei mesi — e Crane
fissò sopra di sé le stelle.
Allora
seppe. Questa non era la fine della vita. La vita non avrebbe mai
potuto finire... All'interno del suo corpo, all'interno dei suoi
tessuti che imputridivano cullati dolcemente dal mare c'era la fonte
di dieci milioni di milioni di vite. Cellule, tessuti, batteri,
amebe... Innumerevoli infinità di vite che avrebbero piantato nuove
radici nelle acque e sarebbero vissute molto tempo dopo che lui se
n'era andato.
Essi
sarebbero vissuti dei suoi resti imputriditi. Si sarebbero nutriti
gli uni degli altri. Si sarebbero adattati al nuovo ambiente,
nutrendosi dei minerali e dei sedimenti portati dalle piogge dentro a
questo nuovo mare. Sarebbero cresciuti, avrebbero germogliato, si
sarebbero evoluti. La vita si sarebbe nuovamente estesa anche sopra
le terre emerse. E sarebbe nuovamente iniziato il vecchio ciclo già
altre volte ripetuto, che forse aveva avuto inizio dal corpo putrido
dell'ultimo sopravvissuto di un qualche viaggio interstellare.
Sarebbe accaduto di nuovo e di nuovo, in epoche future.
E
poi seppe che cosa l'aveva ricondotto al mare. Non c'era bisogno di
nessun Adamo... né di alcuna Eva. Soltanto il mare, la grande madre
della vita, era necessario. Il mare lo aveva richiamato alle sue
profondità, cosicché, poi, la vita potesse emergere ancora una
volta dalle sue acque, e lui ne fu contento.
Placidamente
le acque lo cullarono. Placida... calma... la madre della vita
cullava l'ultimo nato dell'ultimo ciclo che sarebbe divenuto il primo
nato del nuovo ciclo. Con occhi ormai vitrei, Stephen Crane sorrise
alle stelle, stelle che erano sparse uniformemente nel cielo. Stelle
che non avevano ancora formato le familiari costellazioni, e non
l'avrebbero fatto per altri cento milioni di secoli.
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