IL
DIVORATORE DI SPETTRI
Un
colpo di luna? Un accesso di febbre? Vorrei crederlo! Ma quando, al
calar della notte, mi ritrovo solo nei luoghi deserti ove mi
conducono i miei vagabondaggi, e ascolto attraverso il vuoto infinito
gli echi demoniaci di quelle urla e di quei ringhi bestiali, e il
rumore orrendo delle ossa spezzate, rabbrividisco ancora al ricordo
di quella notte dannata.
Allora
conoscevo assai meno la vita nei boschi, benché i posti solitari e
selvaggi mi attirassero già quanto adesso.
Fino
a quella notte avevo sempre preso la precauzione di assoldare una
guida, ma stavolta le circostanze mi costringevano a mettere alla
prova la mia abilità.
Era
piena estate nel Maine e, nonostante avessi assoluto bisogno di
andare da Mayfair a Glendale entro il mezzogiorno seguente, non
riuscii a trovare nessuno disposto ad accompagnarmi.
A
meno che avessi preso la strada più lunga, attraverso Potowisset,
che non mi avrebbe permesso di arrivare in tempo, avrei dovuto
passare in mezzo alle fitte foreste; ma quando chiedevo una guida,
incontravo soltanto rifiuti e risposte evasive.
Sebbene
lì fossi uno straniero, mi sembrava strano che tutti avanzassero
pretesti.
C’erano
un po’ troppi “affari importanti” da sbrigare per un villaggio
così sonnolento, ed avevo capito che gli abitanti mentivano.
Ma
tutti avevano “impegni urgentissimi”, o dicevano di averli; e si
limitavano ad assicurarmi che la pista fra i boschi era molto piana,
puntava diritto verso Nord e non presentava la minima difficoltà per
un giovane robusto.
Se
fossi partito di mattina presto, garantivano, sarei di sicuro
arrivato a Glendale al tramonto, evitando di passare una notte
all’aperto.
Anche
a quest’ultima osservazione non sospettai di nulla.
La
prospettiva mi sembrava accettabile, e decisi di provare, lasciando
che i fannulloni del villaggio restassero pure lì, se ci tenevano.
Probabilmente,
avrei tentato anche se avessi avuto qualche sospetto, perché i
giovani sono ostinati e, fin dall’infanzia, m’ero sempre fatto
beffe delle superstizioni e delle fole delle vecchie comari.
Così,
prima che il sole fosse alto, mi ero incamminato tra gli alberi di
buon passo, con il pranzo in mano, la pistola automatica in tasca e
la cintura imbottita di fruscianti banconote di grosso taglio.
In
base alla distanza che mi era stata indicata e sulla conoscenza della
velocità che potevo mantenere, avevo calcolato di arrivare a
Glendale un po’ dopo il tramonto; ma sapevo che, anche se per un
errore di calcolo avessi dovuto passare all’aperto la notte, potevo
contare sulla mia esperienza di campeggiatore.
Inoltre,
la mia presenza a destinazione non era indispensabile fino al
mezzogiorno seguente.
Fu
il clima torrido a rovinare i miei progetti.
Quando
il sole fu più alto, prese a scottare anche attraverso il fitto
fogliame e, ad ogni passo, prosciugava le mie energie.
A
mezzogiorno avevo già gli abiti zuppi di sudore e, nonostante la mia
determinazione, mi sentivo vacillare.
Via
via che mi addentravo nel bosco, mi accorsi che il sentiero era
sempre più ostruito dagli arbusti e, in molti punti, era quasi
cancellato.
Da
settimane, forse addirittura da mesi, nessuno era più passato di lì;
cominciai allora a chiedermi se sarei riuscito a rispettare la mia
tabella di marcia.
Alla
fine, affamato, cercai l’angolo più in ombra che riuscii a
scorgere, e mi sedetti a consumare il pranzo che mi avevano preparato
in albergo.
C’erano
alcuni insipidi sandwich, un pezzo di torta rafferma, e una bottiglia
di vinello molto leggero: non certo un pasto sontuoso, ma gradito per
uno che si sentiva accaldato e sfinito.
Il
caldo era troppo perché potessi consolarmi fumando, perciò non
tirai fuori la pipa.
Invece,
mi distesi sotto gli alberi, dopo aver finito di mangiare, per
concedermi qualche istante di riposo prima di cominciare l’ultima
tappa del viaggio.
Probabilmente,
fu una sciocchezza bere il vino; sebbene fosse leggero, bastò a
coronare l’opera di quella giornata torrida.
La
mia tabella di marcia mi consentiva soltanto un riposo brevissimo;
ma, dopo uno sbadiglio premonitore, caddi in un sonno profondo.
Quando
riaprii gli occhi, il crepuscolo stava calando.
Il
vento mi sfiorò le guance, ridestandomi alla pienezza della
percezione e, quando alzai lo sguardo verso il cielo, vidi con
apprensione che nubi nere e veloci si addensavano come una parete
compatta di tenebre, annunciando un violento temporale.
Ormai
sapevo che non ce l’avrei fatta ad essere a Gledale prima della
mattina seguente, ma la prospettiva di trascorrere la notte nei
boschi la mia prima notte di campeggio solitario in una foresta mi
appariva ben poco gradita, in quelle sfavorevoli condizioni.
Decisi
di proseguire almeno per un po’, nella speranza dì trovare un
riparo prima che scoppiasse il temporale.
L’oscurità
si stese sui boschi come una coltre pesante.
Le
nubi basse diventarono più minacciose, e il vento si fece violento.
Un
lampo distante illuminò il cielo, seguito da un rombo di malaugurio
che sembrava promettere eventi maligni.
Poi
una goccia di pioggia cadde sulla mia mano protesa e, pur continuando
a camminare meccanicamente, mi rassegnai all’inevitabile.
Un
attimo ancora, e scorsi la luce: la luce di una finestra attraverso
gli alberi e le tenebre.
Ansioso
di trovare un riparo, mi avviai in fretta in quella direzione…
Fosse piaciuto a Dio che avessi voltato le spalle fuggendo via! C’era
una specie di radura irregolare, in fondo alla quale sorgeva un
edificio, con la parte posteriore rivolta verso la foresta
primordiale.
M’aspettavo
una capanna o una baracca di tronchi d’albero, e mi arrestai,
stupito, quando vidi una linda graziosa villetta a due piani; doveva
avere una settantina d’anni, a giudicare dallo stile, ma era in
condizioni che testimoniavano cure attente e precise.
Attraverso
i piccoli vetri d’una finestra del pianoterra splendeva una viva
luce: spronato da un’altra goccia di pioggia, attraversai svelto la
radura e bussai forte all’uscio, dopo aver salito i gradini.
Con
sorprendente prontezza, ai miei colpi rispose una voce profonda e
piacevole, che pronunciò una sola parola: “Avanti!”.
Spinsi
la porta, che non era chiusa a chiave, ed entrai in un corridoio in
penombra, rischiarato soltanto da un po’ di luce proveniente da un
uscio aperto sulla destra.
Al
di là c’era una stanza piena di libri, quella con la finestra
illuminata.
Mentre
mi chiudevo alle spalle la porta d’ingresso, non potei fare a meno
di notare nella casa uno strano odore: debole, sfuggente,
indefinibile, faceva pensare alla presenza di animali.
Il
mio ospite, dedussi, doveva essere un cacciatore o un trapper, e
lavorava lì gli animali da pelliccia.
L’uomo
che aveva parlato era seduto in un’ampia poltrona davanti a una
tavola centrale dal piano di marmo, il corpo magro avvolto in una
lunga vestaglia grigia.
La
luce di una potente lampada Argand a petrolio faceva risaltare i suoi
lineamenti e, mentre mi squadrava incuriosito, io lo studiai con
altrettanta attenzione.
Era
davvero un bell’uomo: volto magro e ben rasato, lucidi capelli
biondissimi spazzolati con cura, lunghe sopracciglia regolari unite
ad angolo obliquo sopra il naso, orecchie ben fatte fissate piuttosto
indietro, e grandi, espressivi occhi grigi, quasi luminosi nella loro
animazione.
Quando
mi rivolse un sorriso di benvenuto, mostrò una chiostra magnifica
e regolare di saldi denti bianchissimi e, quando m’indicò una
poltrona, fui colpito dalla finezza delle mani snelle, con dita
lunghe e affusolate; le unghie rosate, a mandorla, erano lievemente
incurvate e curate in modo perfetto.
Mi
chiesi come mai un uomo dalla figura così affascinante avesse scelto
una vita da recluso.
“Dolente
di disturbarla”, azzardai, “ma ho dovuto rinunciare alla speranza
di arrivare a Glendale prima di domattina.
Sta
per scoppiare un temporale.
Per
questo ho cercato un riparo.
” Quasi
a conferma delle mie parole, a quel punto vi fu un lampo accecante,
un rumore di tuono, e il primo scroscio di una pioggia torrenziale
che cominciò a battere impazzita alle finestre.
Il
mio ospite sembrava ignorare la furia degli elementi, e mi rivolse un
altro sorriso, nel rispondermi.
Aveva
una voce accattivante, ben modulata, ed i suoi occhi diffondevano una
serenità quasi ipnotica.
“Lei
è il benvenuto: le offrirò tutta l’ospitalità che posso, ma
purtroppo non sarà gran cosa.
Ho
una gamba invalida, perciò dovrà provvedere da solo a se stesso.
Se
ha fame, troverà molta roba in cucina… abbondanza di viveri, se
non di cerimonie!” Mi parve di avvertire una sfumatura lievissima
di accento straniero, nel suo tono di voce, sebbene si esprimesse in
modo fluente e correttissimo.
Si
alzò, e vidi che era di altezza imponente; si diresse verso la porta
a lunghi passi claudicanti, e solo allora notai le enormi braccia
villose che gli pendevano lungo i fianchi, in bizzarro contrasto con
le mani delicate.
“Venga”,
m’invitò.
“Prenda
la lampada.
Posso
benissimo accomodarmi in cucina.
” Lo
seguii nel corridoio e nella stanza di fronte; secondo le sue
indicazioni, saccheggiai la catasta di legna nell’angolo e la
dispensa a muro.
Pochi
minuti dopo, mentre il fuoco ardeva allegro, gli chiesi se potevo
preparare la cena per entrambi, ma lui rifiutò cortesemente.
“Fa
troppo caldo per mangiare”, mi disse.
“E
poi, avevo già mandato giù un boccone prima che lei arrivasse.
” Dopo
aver lavato i piatti della mia cena solitaria, rimasi seduto per un
po’, fumando soddisfatto la pipa.
Il
mio ospite mi rivolse qualche domanda sui villaggi vicini, ma cadde
in un silenzio imbronciato quando gli dissi che ero forestiero.
Mentre
meditava, taciturno, non potei fare a meno di avvertire in lui una
certa stranezza, una sottile estraneità che non riuscivo a definire.
Ero
certo, comunque, che aveva sopportato la mia intrusione soltanto a
causa del nubifragio, e non era animato da autentico spirito
ospitale.
In
quanto al temporale, ormai era quasi finito.
Fuori,
il cielo si stava schiarendo, perché dietro le nubi c’era la luna
piena, e il diluvio s’era ridotto ad una lieve pioggerella.
Pensai
che avrei potuto riprendere il mio cammino, e lo dissi al mio ospite.
“Meglio
aspettare fino a domattina”, osservò.
“Lei
è a piedi, e ci sono almeno tre ore da qui a Glendale.
Di
sopra ci sono due camere da letto: una è per lei, se vorrà
fermarsi.
” Il
suo invito aveva un tono di sincerità che cancellò i miei dubbi sul
suo spirito ospitale.
Conclusi
che la sua taciturnità doveva essere conseguenza del lungo
isolamento dai suoi simili, in quel luogo deserto.
Dopo
essere rimasto seduto, senza dire una parola, per ben tre cariche
della pipa, cominciai a sbadigliare.
“è
stato un giorno faticoso, per me”, ammisi.
“E
credo che farei meglio ad andare a letto.
Vorrei
essere in piedi all’alba, per rimettermi in viaggio.
” Il
mio ospite, con un gesto del braccio indicò la porta, oltre la quale
potevo vedere il corridoio e la scala.
“Prenda
lei la lampada”, mi disse.
“è
l’unica che possiedo, ma a ma non dispiace starmene seduto al buio,
davvero.
Molto
spesso non l’accendo neppure, quando sono solo.
Non
è facile procurarsi il petrolio da queste parti, ed io vado al
villaggio così di rado… La sua stanza è quella a destra in cima
alle scale.
” Presi
la lampada e, nel corridoio, mi voltai per augurargli la buonanotte:
vidi i suoi occhi brillare, quasi fosforescenti, nella stanza
semibuia che avevo appena lasciato.
Per
un attimo mi fecero pensare alla giungla, e agli occhi che talvolta
sfolgorano come cerchi di luce oltre i fuochi di bivacco.
Poi
salii le scale.
Quando
fui al piano di sopra sentii il mio ospite camminare zoppicando
attraverso il corridoio ed entrare nell’altra stanza al pianoterra.
Mi
resi conto che si muoveva con la sicurezza di un gufo, nonostante
l’oscurità.
Era
vero: non aveva bisogno della lampada.
Il
temporale era finito, e quando entrai nella mia stanza la trovai
illuminata dai raggi della luna piena che cadevano sul letto dalla
finestra a Sud, priva di tende.
Soffiai
sulla lampada e lasciai la casa immersa nel buio, rotto soltanto dal
chiaro di luna.
Avvertii
ancora un odore pungente, che sovrastava quello del cherosene:
l’odore quasi animalesco che avevo notato al mio arrivo.
Spalancai
la finestra, gonfiandomi i polmoni della pura, fresca aria notturna.
Avevo
cominciato a svestirmi, ma mi arrestai quasi subito, ricordando la
cintura con il denaro che portavo attorno alla vita.
Mi
dissi che sarebbe stato meglio essere prudenti: avevo letto di gente
che aveva approfittato di occasioni analoghe per derubare e
addirittura assassinare gli stranieri capitati in casa loro.
Perciò,
disposi le lenzuola e le coperte in modo che sembrassero avvolgere
un corpo immerso nel sonno, trascinai nell’ombra l’unica
poltrona della stanza, riempii la pipa, la riaccesi, e sedetti,
preparandomi a riposare o a vegliare, a seconda di ciò che sarebbe
accaduto.
Non
ero seduto da molto tempo, quando le mie orecchie sensibili colsero
un suono di passi che salivano le scale.
Mi
vennero subito alla mente tutte le storie di padroni di casa che
derubavano gli ospiti quando, dopo un attimo, mi accorsi che i passi
erano regolari, forti e spediti, senza alcun tentativo di furtività,
mentre quelli del mio ospite, che avevo udito dalle scale, erano più
leggeri e claudicanti.
Scossi
la cenere della pipa e la rimisi in tasca.
Poi
afferrai la pistola, mi alzai, attraversai la stanza in punta di
piedi, e mi appostai, con i nervi tesi, in un angolo che la porta,
aprendosi, avrebbe riparato.
L’uscio
si aprì, e sotto il chiarore di luna entrò un uomo che non avevo
mai visto.
Alto,
largo di spalle e distinto, aveva il volto seminascosto da una folta
barba squadrata, e il collo sepolto in un collettone nero d’un
tipo che in America nessuno portava più da molto tempo: senza dubbio
doveva trattarsi di uno straniero.
Non
riuscivo a comprendere come avesse potuto entrare in casa senza che
me ne accorgessi, né potevo credere che fosse stato nascosto in una
delle due stanze al piano terreno.
Mentre
lo esaminavo alla luce ingannevole dei raggi lunari, mi parve che il
mio sguardo attraversasse la sua figura robusta: ma forse era solo
un’illusione causata dalla sorpresa.
Lo
sconosciuto notò il disordine del letto, ma non si accorse che,
apparentemente, era già occupato; brontolò tra sé qualcosa in una
lingua straniera e cominciò a svestirsi.
Gettò
gli abiti sulla poltrona che avevo lasciata libera, si mise a letto,
si assestò le coperte e, dopo qualche istante, il suo respiro
divenne quello regolare di un dormiente.
Il
mio primo pensiero fu di andare dal mio ospite per chiedergli
spiegazioni; ma, un attimo dopo, pensai che era meglio
assicurarmi che quell’episodio non fosse una conseguenza illusoria
del mio sonno propiziato dal vino, là nel bosco.
Mi
sentivo ancora debole e stordito e, sebbene avessi cenato da poco,
avevo una fame tremenda come se non avessi più mangiato nulla dopo
lo spuntino di mezzogiorno.
Mi
accostai al letto, e tesi la mano verso la spalla del dormiente.
Poi,
trattenendo a stento un urlo di paura folle e di sbigottimento,
indietreggiai, con il cuore in tumulto e gli occhi sbarrati.
Le
mie dita erano passate attraverso la figura addormentata, e avevano
afferrato soltanto il lenzuolo sottostante! Qualsiasi descrizione
delle mie sensazioni sconvolte e contrastanti sarebbe impossibile.
Quell’uomo
era intangibile: eppure lo vedevo bene, e udivo il suo respiro
regolare.
Lo
vidi anche girarsi sotto le coperte.
Quando
ero ormai certo di essere diventato pazzo o di essere stato
ipnotizzato, udii altri passi sulle scale: rapidi, leggeri, felpati
come quelli di un cane, claudicanti… e salivano, salivano… Poi
ancora quel pungente odore animale, stavolta due volte più intenso.
Stordito,
come in un incubo, mi trascinai di nuovo al riparo dietro la porta
aperta, gelato fino al midollo, ma ormai rassegnato a qualunque
destino: al certo come all’indicibile.
Poi,
nel fascio incantato del chiarore lunare, avanzò la forma snella di
un grande lupo grigio.
Zoppicava,
perché teneva sollevata una delle zampe posteriori, come se fosse
stato ferito da una pallottola vagante.
La
belva girò il muso nella mia direzione e, in quel momento, la
pistola mi cadde dalle dita tremanti cadendo sul pavimento, con un
tonfo.
Quel
crescendo di orrori stava rapidamente paralizzando la mia volontà e
la mia coscienza, perché gli occhi che ora guardavano verso di me da
quel muso infernale erano gli occhi fosforescenti del mio
ospite che mi avevano fissato nel buio della cucina.
Ancora
oggi non so se mi vide.
Gli
occhi si distolsero dalla mia direzione per fissarsi sul letto, e
scrutarono avidi la figura spettrale del dormiente.
Il
muso della belva si rovesciò all’indietro, e da quella gola
demoniaca uscì l’ululato più sconvolgente che mai avessi udito;
un richiamo di lupo rauco, orrendo, che mi fermò il cuore.
La
figura sul letto si agitò, aprì gli occhi, e si ritrasse a quella
vista.
La
belva si acquattò fremendo e poi, mentre l’essere etereo lanciava
un urlo d’angoscia e di terrore così umani che nessuno spettro
immateriale riuscirebbe a simulare, balzò alla gola della vittima.
I
denti bianchi e regolari lampeggiarono nel chiaro di luna serrandosi
sulla vena giugulare del fantasma urlante.
Il
grido si spense in un gorgoglio soffocato dal sangue, e quegli
atterriti occhi umani divennero vitrei.
Quell’urlo
mi spinse all’azione, e in un attimo raccolsi la pistola e la
scaricai contro il lupo mostruoso che avevo davanti.
Ma
udii il rumore sordo di ogni proiettile che andava a piantarsi nella
parete di fronte I miei nervi cedettero.
Un
cieco terrore mi scagliò verso la porta; guardai una sola volta, e
vidi che il lupo aveva affondato le zanne nel corpo della preda.
Fu
allora che venne l’impressione culminante, e il pensiero tremendo
che ne seguì.
Era
lo stesso corpo che la mia mano aveva attraversato pochi minuti
prima.
.
,
eppure, mentre mi precipitavo giù per quelle nere scale d’incubo,
udii l’inconfondibile scricchiolio delle ossa.
Non
saprò mai come feci a trovare il sentiero per Glendale, e come
riuscii ad arrivare a destinazione.
So
soltanto che l’alba mi trovò sulla collina al limite del bosco, il
villaggio dai tetti aguzzi si stendeva sotto di me, e il filo azzurro
del Cataqua scintillava in lontananza.
Senza
cappello, senza giacca, pallido, fradicio di sudore come se avessi
passato la notte all’aperto sotto il temporale, esitavo ad entrare
nel villaggio, almeno fino a quando non avessi recu~ perato almeno un
minimo di compostezza.
Alla
fine, scesi dalla collina, e mi avviai per le stradine dai
marciapiedi lastricati e dai portoni in stile coloniale, fino a
quando arrivai alla Lafayette House.
Il
proprietario mi sbirciò con aria sospettosa.
“Come
mai è arrivato così presto, figliolo? E perché ha quell’aria
stravolta?” “Sono appena arrivato da Mayfair, attraverso il
bosco.
” “Ha
attraversato il bosco del Diavolo.
.
,
questa notte… e… da solo?” Il vecchio mi fissò con una strana
espressione, fra l’orrore e l’incredulità.
“Perché
no?”, ribattei.
“Non
avrei fatto in tempo, facendo il giro di Potowisset, e dovevo essere
qui per mezzogiorno.
” “E
ieri notte c’era la luna piena! Mio Dio!” Mi scrutò,
incuriosito.
“Ha
visto Vasili Oukranikov o il conte?” “Ehi, ma ho proprio l’aria
dello stupido? Sta cercando di prendermi in giro?” Ma il suo tono
era grave come quello di un sacerdote, quando mi rispose.
“Deve
essere nuovo di queste parti, figliolo.
Altrimenti
saprebbe del bosco del Diavolo, della luna piena, di Vasili e
del resto.
” Mi
sentivo tutt’altro che disinvolto, ma sapevo di non avere l’aria
troppo seria, dopo le mie prime affermazioni.
“Vada
avanti… So che muore dalla voglia di raccontarmelo.
Sono
tutt’orecchi… come un somaro.
” Allora
mi raccontò la leggenda, nel suo modo arido, spogliandola di
vitalità e convinzione per la mancanza di colore, di particolari e
di atmosfera.
Ma
dopo quello che avevo passato, certo non avevo bisogno della vitalità
e della convinzione di un poeta.
Ricordate
ciò che avevo veduto, e ricordate soprattutto che non avevo mai
sentito parlare della leggenda se non dopo aver vissuto
quell’esperienza, dopo essere fuggito dall’orrore di quelle
macabre ossa stritolate.
“Un
tempo c’erano parecchi russi, sparsi tra qui e Mayfair… Erano
venuti dopo una di quelle loro sommosse nichiliste.
Vasili
Oukranikov era uno di loro.
.
,
un uomo alto, magro, affascinante, con i capelli biondi e
lucenti, e modi aristocratici.
Però
si diceva che fosse un adoratore del diavolo… un lupo mannaro,
divoratore di uomini.
Si
costruì una casa nella foresta, a circa un terzo di strada da qui a
Mayfair.
Ci
abitava da solo.
Ogni
tanto, qualche viaggiatore arrivava dal bosco raccontando di essere
stato inseguito da un grosso lupo, con lucenti occhi umani… Occhi
come quelli di Oukranikov.
Una
notte qualcuno sparando a casaccio colpì la belva: e quando il russo
venne a Glendale, in seguito, zoppicava.
Ormai
era chiaro.
Non
si trattava più di semplici sospetti: c’era la prova.
Poi
lui mandò un messaggio a Mayfair dal conte, che si chiamava Feodor
Chernevsky e aveva comprato la vecchia casa dei Fowler, su per State
Street.
Era
un invito ad andare a trovarlo.
Tutti
misero in guardia il conte, che era una brava persona ed un ottimo
vicino.
Ma
lui rispose che sapeva badare a se stesso.
Era
una notte di luna piena, ma il conte era molto coraggioso, e si
limitò a dire a un paio di uomini del posto di raggiungerlo a casa
di Vasili se non fosse tornato ad un’ora ragionevole.
Quelli
ci andarono e… me lo dica lei, figliolo, che ha attraversato il
bosco di notte!”
“Certo
che glielo dirò”, feci, cercando di apparire disinvolto.
“Non
sono il conte, ed eccomi qui a raccontare.
Ma
che cosa trovarono quegli uomini in casa di Oukranikov?”
“Trovarono
il corpo sbranato del conte, figliolo, e vicino a lui un lupo grigio
e magro, con le mascelle che gocciolavano sangue.
Può
immaginare chi fosse quel lupo.
E
la gente dice che in ogni notte di luna piena… Ma, figliolo, non ha
visto o sentito proprio niente?” “Niente, vecchio mio! E mi dica…
che ne è stato del lupo… ossia di Vasili Oukranikov?” “Oh, lo
hanno ammazzato… lo hanno riempito di piombo, lo hanno seppellito
nella casa, e poi hanno anche bruciato la casa… Sa, è successo
sessant’anni fa, quando io ero un ragazzino, ma lo ricordo come se
fosse ieri.”
Mi
allontanai, con un’alzata di spalle.
Era
tutto così strano, sciocco e irreale alla luce del giorno! Ma a
volte, quando sono solo dopo che è scesa l’oscurità, e mi trovo
in qualche luogo deserto e odo gli echi demoniaci di quelle urla e di
quel ringhio bestiale, e quell’orrendo scricchiolare di ossa,
rabbrividisco ancora al ricordo di una certa notte stregata.
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