SOTTO
LE PIRAMIDI
Il
mistero chiama il mistero.
Sin
da quando ho raggiunto la celebrità come “mago”, dato che ero in
grado di effettuare delle cose al di là del normale, mi è stato
dato di incontrare strane vicende e strani casi che hanno indotto la
gente a considerare collegati ai miei interessi ed alle mie azioni in
funzione della mia attività.
Alcuni
non erano importanti né del tutto rilevanti, altri veramente
drammatici ed avvincenti, mentre altri ancora mi avevano procurato
delle esperienze strane e pericolose; infine alcuni erano stati tali
da spingermi ad effettuare delle ricerche scientifiche e storiche di
vasta portata.
Molti
di questi casi li ho già narrati, e continuerò a narrarli: ma ce
n’è uno di cui non parlo volentieri e che ora riporto solo a
seguito delle insistenze dei responsabili di questa rivista, che
hanno sentito dei vaghi accenni al riguardo da altri membri della mia
famiglia.
Questa
storia, che finora è rimasta segreta, riguarda una visita da me
compiuta in Egitto quattordici anni or sono non per motivi
professionali, e non ne ho mai parlato per diverse ragioni.
Prima
di tutto, non è nella mia indole sfruttare certe situazioni e certi
avvenimenti assolutamente reali, ma ovviamente ignoti alle quantità
di turisti che affollano le piramidi, e rigorosamente occultati dalle
autorità del Cairo, autorità che non possono esserne all’oscuro.
Inoltre,
non mi piace molto narrare un episodio in cui la mia fantasia e la
mia immaginazione devono aver sicuramente avuto una parte
preponderante.
Ciò
che ho visto, o che ho creduto di vedere, non si è verificato
realmente, e deve essere considerato piuttosto come il frutto della
lettura da parte mia di diversi testi d’egittologia e di ipotesi
pertinenti a questo tema, ovviamente suggerite dal contesto in cui mi
trovavo.
Questi
impulsi della mia immaginazione, ingigantiti dall’emozione dovuta
ad un avvenimento di per sé già abbastanza terribile, devono aver
dato origine all’orrore abissale di quella notte tanto lontana nel
tempo.
Nel
gennaio del 1910 avevo appena terminato un lavoro in Inghilterra ed
avevo firmato un contratto per effettuare una tournée nei teatri
australiani.
Poiché
avevo parecchio tempo per il viaggio, decisi di approfittarne nel
modo che ritenevo più interessante; perciò, accompagnato da mia
moglie, attraversai tutto il continente e m’imbarcai a Marsiglia
sulla nave Malwa, diretta a Porto Said.
Da
lì mi proponevo di visitare le principali località storiche del
Basso Egitto prima di partire per l’Australia.
Il
viaggio fu molto piacevole, costellato di molti episodi curiosi come
sono soliti capitare ad un “mago” anche al di fuori del suo
lavoro.
Per
viaggiare tranquillo, avevo deciso di rimanere in incognito: ma poi
mi tradii a causa di un collega, dato che il suo intento di
sbalordire i passeggeri con dei trucchi piuttosto dozzinali fece sì
che mi dessi da fare per riprodurre e superare le sue “performances”.
Ne
parlo soltanto per spiegare quale fu l’effetto, che peraltro avrei
dovuto prevedere prima di rendere nota la mia identità ad un folto
gruppo di turisti in procinto di disperdersi nella Valle del Nilo:
dovunque andassi, già sapevano chi ero, e questo fece sì che io e
mia moglie non potessimo godere la tranquillità che avevamo sperato.
Io,
che ero partito in cerca di curiosità, spesso diventavo una
curiosità per gli altri! Ci eravamo recati in Egitto in cerca di
cose e sensazioni esotiche, ma non ne trovammo molte, quando la nave
si ancorò a Porto Said e fece prendere terra ai passeggeri per mezzo
di piccole imbarcazioni.
Basse
dune di sabbia, boe che galleggiavano nell’acqua poco profonda ed
una città desolata e di impronta europea dove non c’era nulla
d’interessante, eccettuato il grande monumento a De Lesseps , ci
spinsero a cercare qualche meta più degna di attenzione.
Dopo
averne discusso, decidemmo di proseguire per il Cairo e le piramidi,
per poi recarci ad Alessandria, dove avremmo visto le antichità
greco-romane di quella città per poi prendere la nave per
l’Australia.
Il
viaggio in treno non fu dei più brutti, e durò solo quattro ore e
mezzo.
Percorremmo
un bel tratto del Canale di Suez, dato che la ferrovia lo costeggia
fino a Ismailya, e più in là incontrammo le prime propaggini
dell’Antico Egitto, quando c’imbattemmo in un canale scavato ai
tempi del Regno Medio e in seguito riattato e reso percorribile.
Poi,
finalmente il Cairo, che scintillava di luci nella gloria del
crepuscolo: sembrava una costellazione splendente, che divenne
sfolgorante quando scendemmo alla stazione centrale.
Rimanemmo
però delusi, dato che tutto quello che si parava davanti ai nostri
occhi era di taglio europeo, eccettuati i costumi e la gente.
Un
moderno sottopassaggio ci condusse in una piazza piena di carrozze,
tassì e tram, i cui alti edifici erano illuminati da lampade
elettriche.
Il
teatro, nel quale declinai l’invito ad esibirmi e dove assistetti
invece in seguito ad una rappresentazione come semplice spettatore,
aveva da poco cambiato nome, e si chiamava adesso The American
Cosmograph.
Con
un tassì che percorreva a grande velocità strade spaziose e ben
tracciate, giungemmo allo Shepherd’s Hotel, e lì, un po’ per
l’irreprensibile servizio offerto dal ristorante, un po’ per
l’efficienza degli ascensori e la presenza di agi e comodità di
tipico stampo angloamericano, il misterioso Oriente e l’antichissimo
passato ci parvero enormemente lontani.
Ma
la giornata seguente ci catapultò invece, con nostro sommo piacere,
in un’atmosfera degna delle Mille e una notte: nei vicoletti
tortuosi e nei panorami esotici del Cairo pareva infatti che tornasse
in vita la Bagdad di Harun el-Rashid.
Il
nostro Baedeker ci aveva guidato verso est, oltre i giardini di
Ezbekiyeh, lungo il Mouski, per mostrarci il quartiere indigeno, e
dopo un po’ finimmo nelle grinfie di un cinguettante cicerone il
quale, nonostante le cose che successero in seguito, senza dubbio
conosceva bene il suo mestiere.
Fu
solo in seguito che compresi che era stato un errore non chiedere in
albergo una guida autorizzata.
Il
nostro cicerone, un tipo dalla faccia sbarbata e la voce bassa, e
nell’insieme accettabilmente pulito, sembrava un faraone e si
faceva chiamare “Abdul Reis el Drogman”, e sembrava esercitare
una particolare influenza sui suoi colleghi.
Questi,
però, alle domande rivolte loro in seguito dalla polizia risposero
di non conoscerlo, e ci spiegarono che il termine reis designa
genericamente una persona importante, e che Drogman è semplicemente
una derivazione della parola dragoman utilizzata nelle lingue
orientali per indicare le guide turistiche.
Abdul
ci mostrò delle meraviglie che fino ad allora avevamo visto solo nei
libri e nei sogni.
La
parte vecchia del Cairo è una fonte inesauribile di favole e miti:
labirintiche viuzze custodi di olezzanti segreti; verande e bovindi
arabi che paiono quasi congiungersi sulle strade acciottolate;
congestioni stradali tipicamente orientali reboanti di urla
incomprensibili, cigolii di ruote, sferzate di fruste, clangore di
monetine e ragli d’asini; assalti visivi di veli, vestiti, turbanti
e tarbush dai caleidoscopici colori; venditori d’acqua e dervisci,
cani e gatti, maghi e barbieri.
E,
sopra tutto, le cantilene dei mendicanti ciechi che siedono agli
angoli delle strade e il richiamo modulato dei muezzin che giunge
dalle cime dei minareti, i cui contorni si stagliano contro l’azzurro
vivido di un cielo che non cambia mai.
Un
simile fascino l’avevano anche i bazar coperti, ma questi erano più
silenziosi.
Spezie,
essenze, aromi, incensi, tappeti, sete ed oggettistica in ottone: in
mezzo alle varie bottiglie e bottigliette, a gambe incrociate, se ne
stava seduto il vecchio Mahmoud Suleiman e, nel frattempo, dei
giovani apprendisti pestavano la senape nell’incavo del capitello
di un’antica colonna romana in stile corinzio la quale, con
molta probabilità, doveva provenire dalla vicina Heliopolis, dove
erano state inviate tre legioni egizie da Augusto.
Antichità
ed esotismo iniziavano a fondersi.
E
le moschee… e il museo… nulla sfuggì alla nostra visita, ma non
permettemmo alla nostra curiosità per la cultura araba di venir meno
di fronte all’occulta malia esercitata su di noi dall’Egitto dei
faraoni, che esercitava il suo fascino attraverso gli inestimabili
tesori custoditi nel museo.
Ci
riservavamo per la fine della visita il piacere di quel momento: per
adesso eravamo paghi di contemplare gli splendori saraceni medievali
dei califfi le cui splendide tombe vengono celate nella riverberante
e leggendaria necropoli al confine con il deserto.
Passando
per lo Sharia Mohammed Alì, Abdul ci guidò finalmente all’antica
moschea di Hassan fino alla porta chiamata Babel Azab.
Ai
lati di questa si ergono due torri, e al di là di essa inizia il
passaggio che conduce alla Cittadella fortificata che il Saladino
fece erigere impiegando la pietra di alcune piramidi abbandonate.
Quando
arrivammo sulla sommità, passando intorno alla moschea moderna di
Mohammed Alì, si era fatto il tramonto, e alla sua luce, guardando
dalla balaustrata, potemmo contemplare la mistica città del Cairo,
le cui cupole d’oro e i cui snelli minareti luccicavano tutti,
impreziositi da un caleidoscopio di fiori rosseggianti nei giardini.
Sull’intera
città, si vedeva svettare in lontananza la grande cupola del nuovo
museo e, ancora più in là, oltre il giallo e misterioso Nilo, padre
dei secoli e delle dinastie faraoniche, si allungavano le malefiche
sabbie del deserto libico; flessuose, cangianti, cariche di
antichissimi e perfidi misteri.
Il
sole rosso calò, e allora si sollevò il freddo spietato della notte
egiziana, e in quell’istante, mentre il globo infocato rimaneva
sospeso sull’orlo del mondo come se fosse il dio di Heliopolis
stesso, Rƒ-Harakhte, alla sua luce rosso-sangue vedemmo
apparire, nere, le antichissime tombe delle piramidi di Gizah, già
vecchie di mille anni quando saliva sul trono d’oro della lontana
Tebe il giovane Tut-Ankh-Amen.
Fu
in quel momento che la città saracena perdette per noi il suo
interesse, e cominciammo a pregustare i più arcani misteri
dell’Antico Egitto… la nera Kem di Rƒ e di Amon, di Iside e di
Osiride.
Il
mattino seguente predisponemmo tutto per la visita alle piramidi.
Prima
attraversammo a bordo di un Victoria l’isola di Chizereh, con i
suoi imponenti alberi di lebbakh, e passammo sotto il ponte inglese
che conduce alla riva occidentale, quindi riscendemmo il lungofiume,
infilandoci tra i lebbakh, superando l’enorme giardino zoologico e
dirigendoci al sobborgo di Gizah dove, in un secondo momento, è
stato eretto un nuovo ponte per arrivare direttamente al centro del
Cairo.
Dopo
aver oltrepassato l’entroterra seguendo lo Sharia el-Haram, ci
ritrovammo in un’area piena di limpidi canali e semplici villaggi
indigeni; poi, finalmente, scorgemmo il maestoso profilo dei
monumenti mèta della nostra ricerca che tagliavano la nebbia del
mattino e si riflettevano capovolti nei fiumiciattoli che
punteggiavano la strada.
Come
aveva detto Napoleone ai suoi soldati, quaranta secoli di storia ci
stavano guardando.
Improvvisamente
la strada divenne ripida finché il nostro tram non raggiunse la
fermata, da dove saremmo dovuti andare al “Mena House Hotel”.
Abdul
Reis, il quale aveva acquistato per noi i biglietti, se la cavò
benissimo nel difenderci dagli assalti dei beduini che vivevano in un
misero villaggio di capanne d’argilla lì vicino e che erano soliti
aggredire urlando tutti i viaggiatori.
Riuscì
infatti ad ottenere da loro due ottimi cammelli ed un asino per suo
uso personale, ed ingaggiò degli uomini e dei ragazzi, più costosi
che utili, perché conducessero i nostri animali.
La
distanza da percorrere, in realtà, era talmente breve che l’impiego
dei cammelli risultava del tutto superfluo, ma fu lo stesso simpatico
collezionare una nuova esperienza viaggiando sulle “navi del
deserto”.
Le
piramidi si trovano in un alto pianoro roccioso e, andando da sud a
nord, costituiscono il penultimo gruppo delle tombe regali e
principesche edificate nei dintorni di Menfi, l’antica capitale
fiorita tra il 3400 e il 2000 a.
C.
,
costruita sulla stessa sponda del Nilo leggermente più a sud di
Gizah.
Fu
Cheope, o Khufu, a far erigere intorno al 2800 a.
C.
la
piramide maggiore, la quale supera i 150 metri di altezza ed è
inoltre la più vicina alla strada moderna.
Seguitando
ad andare in direzione sud-ovest, troviamo poi la Seconda Piramide,
fatta edificare da Khephren una generazione dopo; nonostante sia più
piccola della precedente, sembra più grande in quanto eretta su un
poggio più alto.
Infine,
troviamo la Terza Piramide, di dimensioni molto più modeste e fatta
erigere intorno al 2700 a.
C.
da
Mycerino.
Sul
limitare del pianoro roccioso, ad est dalla Seconda Piramide, con
tratti del volto alterati per creare una maestosa effigie del viso di
Khephren, il faraone che ridette impulso al suo culto, ghigna
l’orrenda Sfinge… muta, beffarda, padrona di una saggezza più
antica dell’uomo e della memoria.
Altre
piramidi, ma di dimensioni inferiori, si possono trovare in diversi
punti, sia integre che in rovina, e l’intero pianoro è punteggiato
di tombe appartenenti ai dignitari di rango non reale.
Originariamente
i tumuli di quest’ultimi venivano distinti mediante delle strutture
in pietra somiglianti a dei banchi e chiamate mastaba che venivano
erette sopra i profondi pozzi funerari.
Se
ne possono trovare diversi esempi in altri cimiteri di Menfi, ed uno
di questi è rappresentato dalla Tomba di Perneb nel Metropolitan
Museum di New York.
Le
mastaba di Gizah, però, sono state cancellate dal tempo e dalle
razzie: a testimonianza della loro passata esistenza, restano
unicamente i pozzi scavati nella roccia, saturi di sabbia o riportati
alla luce dagli archeologi.
Accanto
ad ogni tomba veniva edificato un tempietto, e lì i sacerdoti ed i
parenti offrivano cibo e preghiere all’alato kƒ, il principio
vitale del defunto.
I
tempietti delle tombe minori erano alloggiati all’interno delle
mastaba di pietra, mentre le cappelle funerarie delle piramidi in cui
riposavano i faraoni erano dei templi veri e propri, che venivano
tutti orientati ad est della rispettiva piramide e collegati tramite
un passaggio ad un pesantissimo portale che dava sul bordo del
pianoro roccioso.
Il
tempietto che conduce alla Seconda Piramide, praticamente quasi
sepolta dai movimenti continui delle sabbie, si allunga
sotterraneamente a sud-est della Sfinge.
Una
consuetudine ancora in esistenza gli attribuisce il nome di “Tempio
della Sfinge”, e forse il nome è appropriato, se la Sfinge è
davvero un’effigie di Khephren, il costruttore della Seconda
Piramide.
Si
tramandano storie orribili sulla Sfinge prima dell’avvento di
Khephren: ma, quali che fossero originariamente i tratti del suo
volto, il faraone ordinò che venissero sostituiti con i propri
lineamenti perché gli uomini potessero guardare senza paura l’immane
figura.
La
statua in diorite di Khephren, a grandezza naturale,
attualmente custodita nel museo del Cairo, venne rinvenuta proprio in
quel tempio: una statua da me ammirata con meraviglia e timore.
Non
sono sicuro che oggi abbiano riportato alla luce l’intero tempio,
ma nel 1910 l’edificio era ancora in massima parte sepolto e, di
notte, l’ingresso era impedito da resistentissime spranghe.
Vi
stavano lavorando i tedeschi, ma probabilmente fu la guerra a
distoglierli dai loro intenti.
Che
cosa non darei, data la mia esperienza e certe storie sussurrate dai
beduini e confutate o ignorate dalle autorità del Cairo, per sapere
cosa venne scoperto a proposito di un certo pozzo sito in una
galleria trasversale dove furono rinvenute delle statue di Faraoni
collocate, in enigmatica giustapposizione, di fronte a statue di
babbuini! Il percorso che facemmo quel mattino a dorso di cammello
disegnava una curva brusca nel passare davanti alle costruzioni in
legno sede della polizia, dell’ufficio postale, dello spaccio e dei
negozi, siti a sinistra, per poi snodarsi verso sud e verso est,
inerpicarsi sul pianoro e posizionarsi esattamente di fronte al
deserto, sotto la Grande Piramide.
Seguimmo
la strada costeggiando la maestosa costruzione lungo il lato
orientale: innanzi a noi, una valle punteggiata di piccole piramidi,
e più oltre l’eterno Nilo che luccicava ad Oriente e lo sterminato
deserto che sfolgorava ad Occidente.
Le
tre piramidi maggiori svettavano vicinissime: la più grande, essendo
priva del rivestimento esterno, esponeva la sua struttura in enormi
blocchi di pietra; le altre due, invece, recavano ancora buona parte
della copertura che originariamente conferiva loro levigatezza e
tornitura.
Quindi
scendemmo verso la Sfinge: affascinati da quegli occhi cavi eppure
terribili, ammutolimmo.
Sul
suo immane petto di pietra, scorgemmo l’emblema di Rƒ-Harakhte, il
dio del quale si riteneva che la Sfinge fosse l’immagine ai tempi
di una tarda dinastia, ed anche se la sabbia nascondeva la stele che
la bestia recava tra le sue poderose zampe, ci tornarono in mente
l’iscrizione che vi aveva fatto apporre Thutmosis quarto e il sogno
da lui fatto quando era ancora un principe.
In
quel momento il sorriso della Sfinge ci irritò vagamente, facendoci
ripensare alle leggende che circolavano sui passaggi esistenti sotto
il suo corpo mostruoso… passaggi che portavano in basso, sempre più
in basso, scendendo a profondità cui nessuno ardiva accennare,
connessi a misteri più antichi delle Dinastie e minacciosamente
legati alle divinità dalla testa animale più oscure del pantheon
egizio.
E
in quel momento formulai tra me e me una vaga domanda il cui orrendo
significato mi sarebbe stato rivelato soltanto molte ore dopo.
Sul
luogo arrivarono altri turisti, e il nostro gruppo si avvicinò
maggiormente al Tempio della Sfinge percorrendo cinquanta metri circa
in direzione sud-est.
Come
ho già detto, vi si trova il grosso portale semisoffocato dalle
sabbie che si apre sul camminamento che conduce al tempietto della
Seconda Piramide, sul pianoro.
Gran
parte della costruzione era ancora sepolta, ed io ebbi l’impressione
che, anche se avevamo percorso in alto e in basso un passaggio
moderno che conduceva al corridoio d’alabastro e alla sala ornata
di colonne, Abdul e il custode tedesco non ci avessero mostrato
proprio tutto quello che c’era da vedere.
Quindi
compimmo il consueto giro del pianoro e contemplammo la Seconda
Piramide e le strane rovine del suo tempietto.
Sempre
continuando verso est, osservammo la Terza Piramide, il suo tempietto
e le piccole tombe satelliti: sia quelle della quarta e della quinta
dinastia, scavate nelle rocce, sia la famosa Tomba Campbell, il cui
oscuro pozzo arriva perpendicolarmente, da diciassette metri,
ad un inquietante sarcofago.
Uno
dei nostri cammellieri liberò quest’ultimo dalla sabbia dopo
essere pericolosamente disceso nel pozzo tenendosi aggrappato ad una
corda.
Giunsero
delle grida dalla Grande Piramide: i beduini stavano proponendo ai
turisti di salire e ridiscendere di corsa per loro l’enorme
struttura dietro congruo compenso.
Dicono
che il record sia di sette minuti, ma molti locali asseriscono di
poterlo migliorare se opportunamente motivati da un lauto bakshich
(4).
Il
nostro gruppo non fornì loro l’incoraggiamento sperato, ma
acconsentì che Abdul ci guidasse sulla sommità.
Da
lassù potemmo contemplare un panorama d’incredibile bellezza, che
ci offriva non solo la vista del Cairo, luccicante in lontananza con
lo sfondo della Cittadella e delle sue colline lilla e dorate, ma
anche quella delle piramidi sorte intorno a Menfi, partendo da Abu
Roash a nord per arrivare fino a Dashur a sud.
La
piramide gradinata di Saqqara, momento di transizione dalla mastaba
alla vera e propria piramide, riluceva con tutta la sua magia tra le
dune lontane.
Fu
vicino a tale monumento che venne scoperta la leggendaria tomba di
Perneb… più di seicento chilometri a nord della valle tebana in
cui riposava Tut-Ankh-Amen.
L’ammirazione
reverenziale mi rese nuovamente muto.
Il
solo pensare ad una simile antichità, ed ai segreti che quei
monumenti sembravano gravemente racchiudere, mi ispiravano un sacro
rispetto ed un senso d’immensità che nient’altro al mondo mi ha
più dato.
Affaticati
dalla salita e infastiditi dall’invadenza dei beduini, che stavano
travalicando ogni regola del buon gusto, decidemmo di rinunciare alla
visita degli stretti corridoi delle piramidi, anche se vedemmo molti
dei turisti più coraggiosi pronti ad entrare nei claustrofobici
corridoi del poderoso monumento funebre di Cheope.
Quando
salutammo, con laute mance, le nostre guardie del corpo locali e ci
preparammo a tornare al Cairo sotto il sole del pomeriggio insieme ad
Abdul Reis, rimpiangemmo vagamente di aver rinunciato a quella
visita.
Circolavano
storie molto intriganti sui corridoi inferiori delle piramidi, non
riportati sulle guide turistiche: corridoi i cui ingressi erano stati
ostruiti in tutta fretta da certi archeologi poco loquaci, coloro che
li avevano scoperti iniziandone l’esplorazione.
Ovviamente
si trattava di voci prive di un serio fondamento: ma il monito comune
lanciato da tutte era di non recarsi nelle piramidi di notte e di non
scendere nei camminamenti e nel sepolcro più profondo della Grande
Piramide.
Probabile,
in quest’ultimo caso, che si mettesse in guardia il visitatore
dagli effetti psicologici esercitati da una discesa in un opprimente
mondo sotterraneo di pietra massiccia il cui unico accesso è uno
stretto passaggio in cui si deve procedere strisciando carponi ed in
cui potrebbe sussistere il pericolo di rimanere bloccati da una frana
o da un perfido caso.
La
visita sembrava talmente stravagante ed affascinante, che stabilimmo
di tornare al pianoro alla prima occasione.
Occasione
che mi si presentò molto prima di quanto credessi.
Quella
sera, visto che gli altri del gruppo si erano eccessivamente stancati
dopo quella giornata così intensa, uscii da solo a fare una
passeggiata nel pittoresco quartiere arabo con la guida di Abdul
Reis.
Lo
avevo già visitato di giorno, ma volevo osservarne i vicoletti e i
bazar alle luci della sera, quando le ombre e i tenui bagliori delle
lampade avrebbero conferito loro un ulteriore mistero ed un’atmosfera
di sogno.
I
locali cominciavano a rincasare, ma si vedevano ancora molti indigeni
affollare le strade ciarlando, quando incontrammo un gruppo di
beduini che schiamazzavano allegramente nel Suken-Nahhasin, il bazar
dei calderai.
Fummo
immediatamente scrutati dal loro capo, un giovane arrogante dal viso
volgare che portava il tarbush inclinato orgogliosamente sulla testa,
il quale riconobbe evidentemente la mia guida, ma con poca
effusione, probabilmente per il contegno borioso e sprezzante
dell’uomo.
Forse,
mi venne in mente, lo irritava la curiosa imitazione dell’enigmatico
sorriso della Sfinge che avevo visto spesso apparire sulle sue labbra
con un divertito senso di fastidio; o forse gli risultava sgradevole
il suono lugubre della voce di Abdul.
Fatto
sta che cominciarono a scambiarsi delle battute piuttosto offensive,
e in breve Ali Ziz, questo era il nome del giovane capo quando non
veniva chiamato con appellativi più insultanti, si mise a
strattonare la veste di Abdul.
Quest’ultimo
fece lo stesso, dando vita ad un’animata baruffa in cui tutti e due
persero il sacro copricapo e durante la quale si sarebbero fatti
anche di peggio se non fosse stato per il mio intervento, che li
divise con la forza.
Grazie
al mio intervento, che all’inizio contrariò entrambi, alla fine fu
possibile arrivare ad una tregua.
Con
la faccia storta, i due contendenti si ricomposero e si risistemarono
i vestiti quindi, con un’aria improvvisamente solenne, strinsero
uno strano patto d’onore secondo un’antichissima tradizione del
Cairo, come mi venne spiegato: si impegnavano entrambi a porre fine
all’alterco risolvendolo a pugni, in una lotta da sostenere di
notte sulla cima della Grande Piramide quando l’ultimo turista in
caccia di chiari di luna se ne sarebbe andato.
Ad
entrambi spettava trovare dei padrini, quindi l’incontro avrebbe
avuto inizio a mezzanotte, per poi proseguire in classici round.
Molteplici
aspetti della cosa mi sembravano piuttosto interessanti.
Se
l’incontro di pugilato si configurava già come uno spettacolo
eccezionale, figurarsi il fascino che avrebbero emanato quei
monumenti d’incalcolabile antichità del pianoro di Gizah alla luce
della luna calante nel cuore della notte! Quando glielo proposi,
Abdul accettò molto volentieri la mia offerta di fargli da padrino.
Trascorremmo
poi gran parte della serata gironzolando per i quartieri più
malfamati della città, ubicati prevalentemente a nord-est
dell’Ezibekiyeh, dove egli raccolse un’accolita di trucidi avanzi
di galera che avrebbero fatto da testimoni alla sua bravata
pugilistica.
Quando
scoccarono le nove, il gruppetto così formato, in groppa ad asini
dai nomi regali o encomiastici di turisti famosi come “Ramses”,
“Mark Twain”, “J.
P.
Morgan”
e “Minnehaha”, si fece strada in un dedalo di viuzze,
attraversò il limaccioso Nilo ingombrato da una specie di foresta di
alberi di navi, superò il Ponte dei Leoni di bronzo e, con tutta
tranquillità, trotterellò tra i lebbakh della strada per Gizah.
Impiegammo
più di due ore nel tragitto e, quando fummo abbastanza vicini alla
meta, incontrammo gli altri turisti che rincasavano, salutammo
l’ultimo tram che faceva ritorno al capolinea e alla fine rimanemmo
soli, con la notte, il passato e la luna spettrale.
Alla
fine del tracciato intravedemmo poi le ciclopiche piramidi, ed esse
mi ispirarono una minacciosità atavica che non avevo affatto
percepito, alla luce del giorno.
Perfino
la più piccola era circondata da un’aura orrifica… non era lì
che era stata sepolta viva la regina Nitocris della sesta dinastia?
La spietata regina Nitocris, che aveva avuto l’astuta idea di
radunare tutti i suoi nemici in una festa tenuta in un tempio sul
Nilo per poi annegarli facendo aprire le chiuse? Mi venne in mente
che circolavano strane voci sul conto di Nitocris, e che gli arabi
evitavano con cura la Terza Piramide durante certe fasi lunari.
Indubbiamente
era a lei che si riferiva Thomas Moore (5) quando scrisse quello che
mormorano i barcaioli di Menfi: La ninfa sotterranea che dimora tra
gemme senza luce e occulti fasti, La Signora della Piramide! Sebbene
fossimo arrivati in anticipo, eravamo stati preceduti da Ali Ziz ed i
suoi compari, come ci accorgemmo intravedendo la sagoma dei loro
asini contro il pianoro deserto di Kafrel-Harem.
Il
nostro gruppetto invece, evitando di passare per il consueto percorso
che conduce al “Mena House Hotel” per timore di essere fermati
dai poliziotti insonnoliti e stanchi, aveva deviato per il triste
abitato arabo sito nelle vicinanze della Sfinge.
Una
volta arrivati lì, dove le tombe dei dignitari di Khephren erano
state degradate a stalle per i cammelli e per gli asini di luridi
beduini, questi ci guidarono prima su per il pendio roccioso, poi
attraverso le sabbie, alla Grande Piramide.
Gli
arabi si arrampicarono con estrema agilità sui suoi fianchi erosi
dal tempo: io rifiutai l’aiuto di Abdul Reis.
Come
gran parte dei viaggiatori sa benissimo, la cima della piramide è
stata consunta dai secoli, e ormai è ridotta a una sorta di
piattaforma levigata che misura all’incirca dodici metri quadrati.
Gli
uomini si disposero in circolo su quel bizzarro pinnacolo e, due
secondi dopo, la beffarda luna del deserto assistette sardonica ad un
incontro di pugilato che, se non fosse stato per le grida degli
astanti, non sarebbe stato dissimile da una regolare competizione
sportiva di un qualsiasi piccolo club americano.
Mentre
assistevo, riflettevo che i due contendenti conoscevano benissimo
alcuni dei nostri trucchetti meno elogiabili: ai miei occhi non del
tutto inesperti, infatti, ogni attacco, ogni finta, ogni schivata,
appariva chiaramente come uno stratagemma per prendere tempo.
L’incontro
durò poco, ed anche se non mi sentivo di lodare i mezzucci
impiegati, mi sentii vagamente inorgoglito quando fu Abdul Reis ad
essere proclamato vincitore.
Pace
fu fatta con incredibile rapidità, con cori e bevute da entrambe le
parti, tanto da sembrare impossibile che poco prima i due uomini si
fossero azzuffati.
Cosa
piuttosto curiosa, adesso ero diventato io il centro dell’interesse
dei due uomini: in virtù di alcune conoscenze d’arabo, capivo che
stavano parlando del mio lavoro, dei miei spettacoli e di come
riuscivo a liberarmi da manette, casse e bauli.
E
non solo si dimostravano perfettamente al corrente delle mie
esibizioni, ma addirittura erano diffidenti ed increduli quanto alle
mie “evasioni”.
Lentamente
compresi che l’antica magia dell’Egitto aveva lasciato dei segni,
alla sua scomparsa, e che i fellahin conservavano ancora dei
frammenti di una bizzarra tradizione segreta e di certe pratiche
rituali, per cui le imprese di un mago straniero, di un hahwi,
erano guardate con ostilità e sospetto.
Allora
mi venne in mente che la mia guida, Abdul Reis, aveva una minacciosa
rassomiglianza con un antico sacerdote egizio o con un Faraone, o
addirittura con la ghignante Sfinge… e rimasi sconcertato.
Improvvisamente
successe qualcosa che giustificò istantaneamente la mia inquietudine
facendomi maledire la stupidità che mi aveva impedito di riconoscere
negli avvenimenti di quella notte la diabolica trappola che invece
erano.
Inaspettatamente,
e di certo in risposta ad un segno di Abdul, l’orda di beduini mi
saltò addosso, quindi, prendendo delle grosse corde, mi legò così
stretto come mai mi era stato fatto, né in scena né fuori.
Inizialmente
cercai di divincolarmi, ma poi compresi che un uomo solo non poteva
assolutamente vincere contro venti nerboruti selvaggi.
Mi
avevano legato le mani dietro la schiena, obbligandomi a piegare al
massimo le ginocchia.
Dopo
avermi impedito di gridare ficcandomi in bocca un odioso bavaglio, mi
coprirono anche gli occhi con una benda strettissima.
Mentre
gli arabi mi prendevano di traverso sulle spalle e iniziavano a
scendere dalla piramide con agili falcate, sentii la mia ex guida,
Abdul, che si prendeva gioco di me dileggiandomi con la sua voce
lugubre e dicendomi che i miei “poteri magici” sarebbero stati
sottoposti ben presto ad una prova che avrebbe sgonfiato subito la
boria da me acquisita dopo i successi raggiunti in America e in
Europa.
Mi
rammentò che l’Egitto era molto antico e zeppo di misteri e di
poteri atavici, inconcepibili per gli esperti moderni che con me
avevano fallito, cercando di imprigionarmi con i loro metodi
sofisticati.
Non
so dire dove e per quanto tempo mi portarono a spalla, perché in
quelle circostanze mi risultò impossibile determinarlo.
So
con certezza, comunque, che la distanza doveva essere breve in
quanto, nonostante i miei aguzzini camminassero al passo, arrivammo
incredibilmente presto.
Eppure
è proprio tale celerità ad accapponarmi la pelle tutte le volte che
ripenso a Gizah e al suo pianoro: molte sono le voci che circolano,
infatti, sulla vicinanza tra i percorsi turistici di oggi e quello
che esisteva un tempo ed ancora deve esistere.
L’inquietante
stranezza cui sto alludendo non mi si palesò immediatamente.
I
miei aguzzini mi adagiarono su quella che mi parve sabbia, anziché
roccia, quindi mi assicurarono una corda intorno al torace e con
questa mi trascinarono per alcuni metri fino ad un’apertura
irregolare nel terreno, e da lì mi calarono giù senza eccessiva
gentilezza.
Per
un lasso di tempo che mi sembrò interminabile, andai a sbattere in
continuazione contro le pareti di uno stretto pozzo che supposi fosse
uno dei tanti accessi alle tombe del pianoro.
Ma
poi la sua incredibile e spaventosa profondità mi impedì di
formulare qualsiasi ipotesi.
Ogni
istante interminabile amplificava l’orrore di quell’esperienza.
Mi
pareva impossibile che una discesa così profonda lungo la massiccia
roccia non arrivasse al cuore stesso della Terra, o che una corda
fatta dall’uomo potesse essere tanto lunga da calarmi fino a quelle
profondità viscerali: mi risultava più facile dubitarne, che
accettare le mie impressioni sensoriali.
Ho
la certezza, però, che fino a quel momento la logica non mi aveva
abbandonato… che non stavo aggiungendo i fantasmi
dell’immaginazione ad un quadro che nella sua realtà era già di
per sé raccapricciante e spiegabile solo come un’illusione mentale
molto differente dall’allucinazione.
Ma
non furono queste riflessioni a provocare il mio primo svenimento,
perché l’orrore mi si rivelava gradatamente.
Fu
invece un’impercettibile accelerazione nella velocità della
discesa a dare inizio ai miei successivi terrori.
Adesso
stavano calando più freneticamente quella corda senza fine,
facendomi sbattere violentemente contro le pareti ruvide e strette
del pozzo mentre scendevo vertiginosamente.
Oramai
avevo gli abiti laceri, e per tutto il corpo mi colava sangue;
avvertivo che i dolori aumentavano atrocemente.
Un
inclassificabile odore nauseabondo di muffa e di umidità, nel quale
si percepiva uno strano aroma di spezie e di incenso, stava
aggredendo per di più le mie narici.
Poi
si verificò il mio tracollo mentale: orrendo, atroce, indescrivibile
a parole, avvenne esclusivamente nel mio spirito, e in maniera vaga.
Fu
l’essenza stessa dell’incubo, la sintesi del male.
Fu
apocalittico ed infernale nella sua subitaneità… Tra mille fitte
di dolore, stavo precipitando in quel pozzo angusto che mi dilaniava
con milioni di denti quando, un attimo dopo, ebbi la netta sensazione
di volteggiare su ali di pipistrello sulle viscere dell’inferno,
ondeggiare libero per chilometri e chilometri di spazio sterminato e
putrido di muffa, innalzarmi vertiginosamente verso incommensurabili
picchi di gelido etere e poi planare senza fiato su nadir
gorgoglianti di vuoti famelici ed abominevoli… Siano rese grazie a
Dio, che volle cancellare misericordiosamente dalla mia mente gli
artigli della coscienza che si avventavano sulle mie facoltà per
dilaniarmi l’anima come Furie! Quella pur breve requie dello
spirito, mi dette la forza e la lucidità di non cedere dinanzi ai
raffinati orrori che mi attendevano al varco sulla strada ancora
lunga.
2.
Dopo
quel volo allucinante attraverso l’etere infernale lentamente
ripresi coscienza.
Il
ritorno dei sensi fu indicibilmente doloroso e intervallato di sogni
assurdi in cui si ripeteva, con diverse variazioni, la mia condizione
di vittima impotente, legata e imbavagliata.
Mentre
li vivevo, la natura di quei sogni appariva chiarissima ma, non
appena terminarono, il loro ricordo divenne confuso e quindi fu quasi
cancellato dagli avvenimenti spaventosi che seguirono, fossero essi
reali o illusori.
Sognavo
di trovarmi tra le grinfie di una zampa gigantesca e ributtante,
gialla, villosa, munita di cinque artigli ed uscita dalla terra per
schiacciarmi ed inghiottirmi.
Quando
cercai di capire cosa fosse mai quella zampa, mi sembrò l’Egitto.
Nel
sogno, ripensai agli avvenimenti delle ultime settimane, ed ebbi la
sensazione improvvisa di essere stato attirato e quindi preso nella
trappola lentamente, con perfida maestria, da qualche diabolico
spirito uscito dall’oltretomba evocato dalla più antica
stregoneria del Nilo; qualche spirito che, esistendo in Egitto prima
della venuta dell’uomo, avrebbe continuato ad esistere in quella
terra quando l’uomo sarebbe da essa scomparso.
Vidi
l’orrore e la maligna antichità dell’Egitto ed il suo
indissolubile e lugubre legame con i sepolcri ed i templi dei morti.
Vidi
fantasmagoriche processioni di sacerdoti dalla testa di toro, di
falco, di gatto e di ibis marciare senza fine in dedali sotterranei e
viali dai colonnati titanici al cui confronto gli uomini parevano
mosche, ed offrire sacrifici ripugnanti a divinità che travalicano
ogni descrizione.
Giganti
di pietra avanzavano a grandi passi nella notte sterminata,
conducendo alle possenti rive di torbidi fiumi di pece intere mandrie
di androsfingi sogghignanti.
E,
dietro questa scena, vidi l’indicibile malvagità della necromanzia
primordiale, tenebrosa ed informe, che allungava i suoi tentacoli
ciechi nell’oscurità, in cerca di me, per schiacciare lo spirito
che aveva osato temerariamente deriderla scimmiottandola.
Nella
mia mente addormentata prese forma un’immagine tragicomica di bieco
odio e di persecuzione, e vidi il nero spirito dell’Egitto che mi
riconosceva ed attirava a sé con bisbigli impercettibili: mi
attirava e rapiva allettandomi con lo sfavillio e la meraviglia di un
panorama saraceno.
E
invece mi trascinava sempre di più verso le pazzesche catacombe e
gli orrori del suo cuore faraonico, profondo e morto.
In
quel momento, le facce che vedevo nel sogno assunsero tratti umani, e
vidi la mia guida, Abdul Reis, abbigliato come un re, che sogghignava
come la Sfinge.
E
compresi che il suo era il volto di Khephren il Grande, il Faraone
che fece erigere la Seconda Piramide, scolpire a sua immagine e
somiglianza il volto del mostro alato ed innalzare l’immenso tempio
del quale gli archeologi presumono di aver riportato alla luce,
liberandoli dalle sabbie e dalla muta roccia, cunicoli e passaggi.
Ed
osservai la mano dalle dita lunghe, ossute e rigide di Khephren, che
era esattamente uguale a quella della statua di diorite che avevo
visto nel museo del Cairo… e mi domandai perché non m’ero messo
ad urlare quando l’avevo rivista in Abdul Reis… Quella mano? Di
un gelo ripugnante, mi stava stritolando.
Era
il gelo del sarcofago… il gelo e il soffocamento di un Egitto
primordiale… Era il medesimo Egitto delle necropoli… quella zampa
gialla… E quali storie si narrano su Khephren… In quel momento,
però, il mio cervello cominciò a risvegliarsi, o almeno, direi, a
raggiungere una condizione diversa da quella del sonno precedente.
Tornò
il ricordo dell’incontro di pugilato svoltosi sulla cima della
piramide, dell’aggressione vile e meschina dei beduini,
dell’orrenda discesa nelle interminabili profondità della roccia,
dell’ondeggiare e dell’assurdo precipitare in un gelido abisso
esalante una putrescenza aromatica.
Mi
resi conto che ora mi trovavo riverso su un’umida superficie
rocciosa e che i legacci mi segavano ancora la carne.
Faceva
molto freddo, ed avevo l’impressione di essere percorso da una
leggera corrente d’aria.
Avevo
tutto il corpo indolenzito dai lividi e dai tagli provocati dagli
urti contro le pareti del pozzo, e quella fievole aria acuiva
tormentosamente i miei dolori.
Provai
a rotolare su me stesso, con il risultato di provocarmi una
sofferenza lancinante.
Mentre
compivo quella semplice operazione, sentii che la corda veniva
strattonata dall’alto, e ne dedusse perciò di essere ancora
collegato con la superficie.
Non
sapevo se gli arabi stavano continuando a tendere la corda, né
riuscivo a calcolare a quale profondità mi trovassi.
Sapevo
di essere immerso nella totale oscurità, o quasi, visto che la mia
benda non lasciava trapelare la luce della luna: ma non potevo
assumere come prova di trovarmi ad un’estrema profondità la
sensazione di discesa interminabile che avevo avuto, poiché non mi
fidavo completamente dei miei sensi.
Dal
momento che almeno sapevo, però, di trovarmi in un ampio spazio,
collegato direttamente con la superficie da un’apertura nel
terreno, avanzai l’ipotesi di essere prigioniero nel tempio sepolto
del vecchio Khephren, il Tempio della Sfinge… forse in un cunicolo
interno che le guide quella mattina non mi avevano mostrato e dal
quale sarei riuscito ad uscire agilmente se solo avessi trovato la
strada per arrivare alla porta sprangata.
Sarei
stato costretto a vagare in quel labirinto, ma non mi erano mancate
analoghe esperienze, in passato.
Per
prima cosa dovevo sciogliermi dalle corde, dal bavaglio e dalla benda
che mi legavano: e in ciò non avrei avuto grosse difficoltà, dati i
puntuali insuccessi di esperti molto più raffinati di quegli arabi
nell’impedire le famose “evasioni” della mia lunga carriera di
professionista.
Ma
poi pensai che era possibile che gli arabi mi attendessero
all’entrata per assalirmi non appena avuta la prova che ero
riuscito a liberarmi dalle loro corde, il che sarebbe avvenuto se
avessero sentito strattonare la fune che probabilmente ancora
reggevano.
Ovviamente
in questa ipotesi davo per scontato di trovarmi davvero prigioniero
nel Tempio della Sfinge.
Ovunque
si trovasse, l’apertura nel terreno dal quale ero stato calato non
poteva essere molto lontana dall’entrata moderna, che era ubicata
vicino alla Sfinge… sempre ammesso che i due differenti accessi si
trovassero ad una tale distanza, dato che ai turisti è consentito
visitare solo una zona molto ristretta dell’area complessiva.
Nella
visita compiuta quella mattina, non avevo notato nessuna apertura del
genere; sapevo, però, che era molto facile che si confondesse con la
sabbia.
Immerso
in quelle riflessioni, ricurvo e legato sul pavimento di roccia,
quasi dimenticai l’orrenda discesa negli abissi e le oscillazioni
che poco prima mi avevano ottenebrato il cervello.
L’unica
preoccupazione che avevo in quel momento era come riuscire a battere
gli arabi in astuzia; così decisi di sciogliermi dai legami alla
massima velocità, evitando di strattonare la corda per non far
capire loro che stavo tentando di liberarmi, riuscendovi o meno.
Ma
la cosa fu più facile a dirsi che a farsi.
Certi
timidi tentativi iniziali mi rivelarono che con la delicatezza sarei
riuscito a ben poco, e non rimasi sorpreso quando, dopo essermi
divincolato con forza, sentii spire di corda che mi piombavano sia
intorno che addosso, ricadendo l’una sull’altra.
Era
chiaro, pensai, che i beduini avevano lasciato andare la fune dopo
aver sentito i miei movimenti, e non ebbi alcun dubbio: avevano
raggiunto di corsa la normale entrata per aggredirmi spietatamente.
La
prospettiva non mi sorrise molto, ma avevo affrontato con coraggio
situazioni anche peggiori, e non avrei tremato proprio adesso.
Prima
di tutto dovevo sciogliermi dai legami, quindi escogitare un sistema
ingegnoso per fuggire dal tempio sano e salvo.
La
cosa strana era che avevo finito per convincermi che mi trovavo
nell’antico tempio di Khephren, nei pressi della Sfinge, a pochi
metri di profondità dal suolo.
A
dileguare quella convinzione ed a riportarmi ai terrori di una
profondità abissale e di un infernale mistero, fu una circostanza di
cui compresi l’orrendo significato mentre escogitavo il mio astuto
piano.
Ho
detto che la fune, cadendomi addosso, si raccoglieva in spire
concentriche: mi resi conto in quel momento che continuava ad
ammucchiarsi come non poteva fare una corda di normale lunghezza!
Acquistando maggior forza d’inerzia, si trasformò in una vera e
propria valanga di canapa che mi si riversò addosso con violenza
aggrovigliandosi in spire sul pavimento.
Molto
presto mi ritrovai completamente sommerso e, soffocato da tutto quel
peso, cominciai ad avere difficoltà di respirazione.
Fui
nuovamente sul punto di perdere conoscenza, e lottai vanamente contro
una fatale minaccia.
Oltre
ad essere crudelmente torturato al di là di ogni capacità di
resistenza umana, oltre a sentire che mi stavano succhiando
lentamente il respiro e la vita… avevo la certezza di ciò che
significava quella pazzesca lunghezza della corda, la consapevolezza
di essere circondato da abissi sconosciuti e smisurati, laggiù,
nelle profondità della Terra.
Allora
l’interminabile discesa e il volo nell’etere spettrale dovevano
essere stati reali, ed io mi trovavo inerme verso il centro del
pianeta, nelle viscere degli abissi.
Quando
parlo di oblio, non voglio dire che non venissi assalito dai sogni.
Anzi,
il mio stato catatonico venne tormentato da visioni di indescrivibile
orrore.
Oh
Dio, come avrei voluto non aver letto tutti quei testi d’egittologia
prima di partire per quel paese ricettacolo di ogni ombra e di ogni
terrore! Durante il secondo svenimento, il mio cervello assopito
venne travolto da una nuova e orripilante coscienza di quella terra e
dei suoi segreti primevi e, per una maledetta casualità, mi misi a
sognare le antiche popolazioni dei morti e la loro esistenza, sia
fisica che spirituale, oltre alle enigmatiche tombe, più somiglianti
ad abitazioni che a sepolcri, in cui riposavano.
Rividi
nel sogno, sotto aspetti che ora per fortuna non ricordo, la
struttura particolare e complessa delle tombe egizie, e mi tornarono
in mente i culti misteriosi ed orrifici cui si ispirava la loro
costruzione.
Gli
Egizi erano ossessionati dalla morte e dai morti.
Credendo
nella completa resurrezione del corpo, lo mummificavano con estrema
attenzione, e ne conservavano gli organi vitali in vasi canopici (6)
che deponevano accanto al defunto.
Credevano
anche all’esistenza di due ulteriori entità: l’anima che, dopo
essere stata pesata e accettata da Oriside, entrava per sempre nella
terra dei beati, e il tenebroso e potente kƒ, il principio vitale,
il quale errava orrendamente nei mondi superiori ed inferiori e
faceva ogni tanto ritorno al corpo mummificato per cibarsi delle
offerte lasciate nel tempietto dai Sacerdoti e dai devoti parenti.
E
stando a certe voci, a volte il kƒ si reimpossessava del proprio
corpo o entrava nel “doppio” di legno seppellito con esso e
vagava poi per il mondo per compiere azioni indicibilmente maligne.
Quando
non venivano visitati dal kƒ, i corpi riposavano per migliaia di
anni, protetti dalle loro bare sontuose, gli occhi vitrei rivolti al
cielo, attendendo il giorno in cui Osiride, ridestando le irrigidite
legioni dei morti dalle sotterranee dimore del sonno, avrebbe
restituito loro sia il kƒ che l’anima.
Una
rinascita meravigliosa: ma non tutte le anime venivano accettate e
non tutte le tombe restavano inviolate… quindi si potevano
verificare certi errori bizzarri e certe anomalie demoniache.
Tra
gli arabi si sussurra tutt’oggi di folli raduni ed empi culti nelle
occulte profondità dell’altro mondo, ai quali soltanto gli
invisibili kƒ alati e le mummie senz’anima possono assistere e
fare ritorno incolumi.
Forse
le storie più allucinanti sono quelle che circolano su certe macabre
perversioni realizzate dalla decadente classe sacerdotale… mummie
composite ottenute unendo artificialmente tronchi ed arti umani con
teste di animali per riprodurre l’aspetto degli antichi dèi.
Gli
animali sacri, i tori, i gatti, gli ibis, i coccodrilli vennero
mummificati in tutte le fasi della storia egizia, affinché potessero
assurgere, un giorno, ad una maggiore gloria.
Soltanto
nel periodo della decadenza gli Egizi avevano composto nella medesima
mummia l’uomo e l’animale… solo nella decadenza, quando non
comprendevano più, cioè, i diritti e le prerogative del kƒ e
dell’anima.
Perlomeno
a livello ufficiale, non è stato spiegato che cosa avvenisse di
quelle mummie composite, ed è sicuro che non ne sia stata mai
ritrovata una da nessun egittologo.
Le
voci che corrono tra gli arabi sono vaghe e inverosimili, ed alludono
all’esistenza tuttora del vecchio Khephren, il sovrano della
Sfinge, della Seconda Piramide e del Tempio, nelle profondità della
terra con la sua consorte, la perfida regina Nitocris, come Signore
delle mummie che non sono né di uomo, né di animale.
Ed
io sognai proprio di Khephren, della sua sposa e delle folli legioni
di morti compositi: per questo ringrazio Dio con tutto il cuore di
non ricordare più le esatte immagini oniriche che vidi.
La
mia visione più orrenda riguardava la vaga domanda che mi ero posto
il giorno prima quando, mentre contemplavo il grande enigma scolpito
nel deserto, mi ero chiesto a quali oscure profondità poteva essere
collegato il vicino tempio.
La
domanda, che in quel momento era stata così oziosa ed innocente, nel
sogno assunse un significato di delirante ed isterica follia… quale
gigantesca ed orrenda anormalità raffigurava originariamente la
Sfinge? Il mio secondo risveglio, se così si può definire, fu un
momento di orrore assoluto che nulla nella mia vita potrà mai più
eguagliare, fatta eccezione per quello che avvenne poi: eppure
l’intensità e l’avventurosità della mia vita superano di gran
lunga le normali esistenze della gente comune.
Torno
a ripetere che ero svenuto, sepolto da una valanga di corda la cui
lunghezza rivelava l’assurda profondità del punto in cui mi
trovavo.
Quando
ripresi i sensi, sentii che il peso della fune era scomparso e,
rotolandomi, mi resi conto che, pur restando legato,
imbavagliato e bendato, qualcosa aveva rimosso l’opprimente cascata
di canapa che mi soffocava.
Ovviamente,
che cosa significasse la cosa, lo compresi solo per gradi: però sono
sicuro che sarei svenuto di nuovo lo stesso se nel frattempo non
avessi raggiunto uno stato emotivo tale da rimanere indifferente a
qualsiasi nuovo orrore.
Ero
solo… con che cosa? Ma prima di torturarmi il cervello con nuove
riflessioni, prima di tentare ancora di sciogliermi dai legami, mi si
palesò un altro fatto.
Dolori
che precedentemente non avevo avvertito, adesso mi dilaniavano le
braccia e le gambe, ed avevo la sensazione di essere ricoperto da una
pellicola di sangue secco, che non poteva essere uscito dai tagli e
dalle contusioni che mi ero procurato.
Mi
pareva di avere anche il torace trafitto da cento ferite, come se mi
avesse trapassato il becco di un ibis gigantesco e perfido.
Indubbiamente
l’entità che aveva rimosso la corda era maligna, ed aveva iniziato
a ferirmi crudelmente quando qualcosa l’aveva obbligata,
apparentemente, a desistere.
Cosa
strana, le mie sensazioni erano completamente diverse da quelle che
ci si poteva attendere.
Anziché
abbandonarmi ad una disperazione abissale, sentii che nasceva in me
un nuovo coraggio ed un irrefrenabile impulso d’agire: perché
adesso sapevo che le forze ostili erano entità fisiche, e un uomo
impavido poteva affrontarle da pari a pari.
Rianimato
da questo pensiero, ricorrendo a tutta la mia esperienza, come avevo
fatto tante volte sotto le luci della ribalta e l’applauso del
pubblico, provai di nuovo a liberarmi.
Mi
concentrai intensamente sui particolari delle mie tecniche consuete,
ed ora che la corda era sparita, stavo quasi per convincermi che gli
orrori supremi non erano altro che allucinazioni e che il
terrificante pozzo, l’abisso incommensurabile della fune senza
fine, non era mai esistito.
Mi
trovavo davvero nel tempio di Khephren, vicino alla Sfinge, ed i
biechi arabi si erano intrufolati lì dentro per torturarmi mentre
giacevo legato e indifeso? Comunque stessero le cose, mi dovevo
liberare dai legami.
Una
volta sciolto, in piedi, la bocca libera, gli occhi aperti e pronti a
percepire ogni più piccolo bagliore di luce, avrei potuto
fronteggiare i miei malvagi e sleali nemici quasi con gioia! Non so
dire con esattezza quanto mi ci volle per sciogliermi dai legami.
Di
certo ci misi più tempo di quanto impiego di solito nei miei
spettacoli, considerando che ero ferito, indebolito e scosso dalle
esperienze appena vissute.
Quando
riuscii finalmente a liberarmi, e aspirai avidamente l’aria gelida,
malsana e impregnata dell’odore di nauseabonde spezie, anche più
disgustosa adesso che la respiravo senza il filtro dei bavagli, mi
resi conto di essere troppo sfibrato ed irrigidito per agire subito.
Così
rimasi sdraiato a rilassare le membra intorpidite per un lasso di
tempo che non saprei determinare, ed aguzzai la vista per cogliere
almeno un raggio di luce che mi aiutasse a capire dove mi trovavo.
Lentamente
ripresi le forze e riattivai i muscoli, ma non vedevo assolutamente
niente.
Quando,
vacillando, mi tirai su, scrutai intensamente in ogni direzione, ma
non trovai che un buio nero come l’inchiostro, esattamente eguale a
quello che mi accecava mentre ero bendato.
Provando
a muovere le gambe, tutte ricoperte di sangue raggrumato sotto i
pantaloni a brandelli, constatai che potevo camminare: ma da che
parte dirigermi? Ovviamente non potevo muovermi a caso, rischiando in
tal modo di allontanarmi dall’uscita che cercavo, così
cercai di stabilire la provenienza della corrente d’aria gelida e
salnitrica che seguitava a colpirmi.
Decidendo
che il punto da cui arrivava doveva essere una possibile uscita da
quelle nere profondità, lottai per non perdere il riferimento e mi
diressi in quella direzione.
Avevo
portato con me una scatoletta di cerini e perfino una piccola torcia
elettrica: ovvio, però, che tutti gli oggetti di un certo peso erano
caduti dalle tasche dei miei abiti laceri.
Mentre
avanzavo cautamente nel buio, la corrente d’aria si fece più
violenta e più stagnante, e conclusi che doveva trattarsi della
fuoriuscita da qualche apertura di un fetido vapore, come il fumo del
Genio che nelle favole orientali esce dalla lanterna del pescatore.
L’Oriente…
l’Egitto… la tenebrosa culla della civiltà, era veramente una
sorgente imperitura di orrori e misteri insondabili! Dopo una breve
riflessione, decisi di non tornare indietro.
Se
mi fossi allontanato dalla corrente, avrei perso il mio unico punto
di riferimento, perché il pavimento roccioso, rozzamente
pianeggiante, non aveva alcuna caratteristica rivelatrice.
Seguendo
invece la misteriosa corrente, sarei arrivato senza dubbio ad
un’apertura, e da questa avrei potuto costeggiare le pareti e
riuscire ad arrivare sul lato opposto di quel tunnel titanico.
Ero
perfettamente conscio che potevo fallire nel tentativo.
Intuivo
che non mi trovavo in una zona del tempio aperta ai turisti, e fui
colpito dal pensiero che forse la galleria non era nota neppure agli
archeologi, e che poteva essere stata scoperta per puro caso dagli
intriganti e perfidi arabi che mi avevano rinchiuso lì dentro.
Se
questa ipotesi corrispondeva a verità, esisteva un’uscita che
conducesse alle zone turistiche o all’aria aperta? Quali prove
avevo, in fin dei conti, di trovarmi davvero nel tempio di Khephren?
Per un istante fui nuovamente atterrito da tutte le congetture più
terrorizzanti, e pensai che quel vivido guazzabuglio di sensazioni,
la discesa, il volo nello spazio, la corda, le ferite e le visioni
non fossero che sogni.
La
mia vita era giunta al termine? E se ero arrivato veramente al
termine dei miei giorni, sarebbe stata una fine misericordiosa? Non
sapevo rispondere a nessuna di tali domande, e quegli interrogativi
seguitarono a turbinarmi in testa finché, per la terza volta, il
fato non mi fece ricadere nell’oblio.
Stavolta
non venni assalito dai sogni, perché la velocità dell’incidente
mi sconvolse la mente a tal punto da annientare tutti i miei
pensieri, sia consci che subconsci.
In
un punto in cui la putrida corrente acquistava una forza che le
consentiva di oppormi resistenza fisica, inciampai in un
insospettato scalino e precipitai vertiginosamente lungo una buia
scala di massicci gradini di pietra, verso un baratro di orrore
inarrestabile.
Se
tornai a respirare, fu solo grazie all’istinto vitale di un sano
corpo umano.
Spesso
torno col pensiero a quella notte, e scorgo un certo umorismo in quei
ripetuti svenimenti: il loro succedersi mi fa pensare soltanto agli
ingenui melodrammi del cinema di quegli anni.
Certo,
è possibile che le mie catalessi non si fossero mai verificate, e
che in realtà tutti i particolari del mio incubo sotterraneo
facessero parte di una catena di sogni di un unico, lungo coma,
iniziato con il trauma della discesa negli abissi e conclusosi con il
balsamo rivivificante dell’aria aperta e del sole dell’aurora,
che mi trovò riverso sulle dune di Gizah, di fronte al volto
beffardo della Sfinge infuocato di luce.
è
a quest’ultima spiegazione che preferisco credere, per quanto mi è
possibile… Per questo fui ben felice quando la polizia mi disse che
le sbarre che chiudevano l’accesso al tempio di Khephren erano
state rimosse e che era stata trovata una larga apertura in un angolo
dell’area ancora sepolta.
Mi
sentii sollevato anche quando i medici stabilirono che mi ero
provocato quelle ferite nell’aggressione, nella discesa, nel
tentativo di liberarmi, in una caduta (probabilmente in una
depressione del corridoio interno del tempio), nel trascinarmi fino
all’uscita e via dicendo: una diagnosi rassicurante.
Ma
io so che, dietro la superficie, deve esserci di più.
Ricordo
troppo vividamente quella discesa per poterla considerare soltanto
frutto dell’immaginazione… e trovo bizzarro che nessuno sia più
riuscito a ritrovare l’uomo che corrispondeva alla mia descrizione
di Abdul Reis el-Drogman, l’uomo della voce lugubre che
rassomigliava al faraone Khephren e sorrideva come lui.
Ho
per un attimo abbandonato la sequenza cronologica del racconto,
vanamente sperando, forse, di evitare la narrazione dell’ultimo
avvenimento: l’incidente che ritengo tra tutti il più prossimo
all’allucinazione.
Ho
promesso, però, di raccontarlo, e non vengo mai meno alle mie
promesse.
Quando
tornai in me, o così credetti, dopo la caduta lungo la scalinata di
pietra, mi ritrovai solo e nella profonda oscurità, proprio come
prima.
Il
lezzo sollevato dalla corrente, che precedentemente era già
piuttosto nauseabondo, ora era micidiale: ma ormai mi ero abituato,
ed ero in grado di tollerarlo stoicamente.
Ancora
frastornato, tentai di allontanarmi strisciando dal punto di
provenienza di quel vapore infernale e, con le mani insanguinate,
toccai le lastre gigantesche di una colossale pavimentazione.
Per
un attimo urtai con la testa contro qualcosa di duro e, quando tastai
l’oggetto, realizzai che era la base di una colonna di una
larghezza pazzesca, ricoperta di enormi geroglifici scolpiti sulla
superficie che risultavano perfettamente riconoscibili al tatto.
Proseguendo
la mia strisciante avanzata, trovai altre colonne smisurate, poste a
distanze indecifrabili; poi, improvvisamente, attirò la mia
attenzione qualcosa che il mio udito subconscio doveva aver percepito
molto prima che lo registrassi consapevolmente.
Da
un abisso delle profondità della terra, sempre più insondabile, mi
giungevano dei suoni che non avevo mai sentito prima: ritmici…
definiti.
Per
una specie di intuizione, seppi che erano antichissimi, palesemente
rituali, e le mie letture in materia di musicologia egizia mi
suggerirono il flauto, il piffero, il sistro (7) ed il timpano.
In
quel pipillare, tintinnire e rullare, avvertivo un terrore più
grande di qualsiasi terrore conosciuto sulla Terra, ma curiosamente
disgiunto dalla paura del singolo, e che assumeva la forma di una
specie di distaccata commiserazione per il nostro mondo; perché nei
suoi recessi racchiudeva gli orrori capaci di suscitare quelle folli
cacofonie.
All’aumentare
dell’intensità dei suoni, compresi che si stavano avvicinando.
Poi
– possano proteggermi gli dèi di tutti i pantheon per risparmiare
in futuro ai miei orecchi quell’orrendo strepito –
percepii, lontano e fievole, il rimbombo millenario e infernale delle
cose che stavano marciando.
Era
terrificante che esseri dai passi tanto diversi riuscissero a seguire
una perfetta cadenza così ritmica! Lunghi, empi millenni di
scellerate marce dovevano guidare quell’avanzata di mostruosità
del sottosuolo, che saltellavano, raspavano, zufolavano,
strisciavano, scalpitavano… seguendo il ritmo assurdo di quegli
strumenti nefasti.
E
poi – invoco il Signore affinché allontani dalla mia memoria il
ricordo di quelle leggende sussurrate tra gli arabi – le mummie
senz’anima… i ricettacoli dei kƒ erranti… le legioni di morti
faraonici maledette dai demoni e moltiplicatesi per quaranta secoli…
le mummie composite, condotte attraverso i neri abissi d’onice dal
faraone Khephren e dall’astuta regina Nitocris… Il calpestio
divenne più vicino… che Dio mi scampi e liberi dal trapestio di
quei piedi, di quelle zampe, di quegli zoccoli e di quegli artigli,
che ormai cominciavo a distinguere! In fondo al lastricato, che si
estendeva per una distanza smisurata nelle tenebre senza sole,
baluginò da lontano, nel fetido etere, un barlume di luce, ed io
corsi a nascondermi dietro una di quelle colonne titaniche, per non
vedere l’orrore che veniva nella mia direzione con i suoi milioni
di piedi, avanzando nella ciclopica galleria pregna di terrori
inumani e di soffocante antichità.
Si
succedettero dei guizzi di luce, e lo scalpiccio e il ritmo
dissonante si amplificarono con un’intensità da voltastomaco.
Nell’incerta
luce arancione si condensò una scena raggelante, e dalla mia bocca
uscì un gemito di autentica incredulità, che vinceva perfino il mio
terrore e la mia nausea.
Piedistalli
di colonne che non riuscivo a vedere neppure per metà, con la mia
vista umana… basamenti di costruzioni che avrebbero reso
microscopica la Torre Eiffel, al loro confronto… geroglifici
scolpiti da mani inimmaginabili in antri oscuri dove la luce del sole
non era che una lontana leggenda… Non avrei guardato le creature
che avanzavano marciando: questa fu la risoluzione disperata che
presi quando, al di sopra della lugubre musica e del macabro
scalpiccio, sentii le loro articolazioni scricchiolare e il loro
respiro ansimare.
Che
salvezza che non parlassero! Dio, però…! La luce delle torce
cominciò a proiettare grottesche ombre sulla superficie delle
gigantesche colonne.
Gli
ippopotami non dovrebbero avere mani umane, non dovrebbero
portare torce… gli uomini non dovrebbero avere teste di
coccodrillo… Provai a voltarmi, ma ero circondato dalle ombre,
dagli strepiti e dal fetido lezzo.
Allora
mi tornò in mente un’abitudine che avevo da bambino quando avevo
incubi semiconsci, ed iniziai a ripetere a me stesso: “è solo un
sogno! Un sogno!”.
Ma
fu un vano espediente, e non mi rimase che chiudere gli occhi e
mormorare una preghiera… è questo, almeno, che penso di aver
fatto, dato che le visioni non sono mai completamente certe… ed io
sono sicuro che doveva trattarsi di una visione! Mi domandai se avrei
fatto più ritorno nel mondo e, a tratti, socchiudevo gli occhi per
vedere se ci fosse anche un solo particolare, a parte l’aria
impregnata di esalazioni miasmatiche, le ciclopiche colonne e le
ombre assurde e teriomorfe di quelle mostruosità abominevoli, che mi
consentisse di capire qualcosa di più del luogo in cui mi trovavo.
Le
centinaia di torce adesso brillavano vividamente e, a meno che quel
posto satanico non fosse del tutto privo di pareti, sarei riuscito
tra breve a vederne le delimitazioni o ad individuare un punto
preciso di riferimento.
Invece
fui costretto a richiudere gli occhi, quando mi resi conto del numero
pazzesco delle creature che si stavano assembrando… e quando
intravidi una forma in particolare che incedeva maestosamente, a
ritmo regolare… assolutamente priva di corpo sopra il punto della
vita.
Poi
un infernale ululato, gutturale e spettrale, lacerò l’aria…
quell’aria satura di venefiche esalazioni di nafta e di bitume…
in un coro stregato di mille gole bestemmianti all’unisono.
I
miei occhi si aprirono, e vi si impresse per un istante una scena che
sconvolgerebbe per il panico, il terrore e lo sfinimento qualsiasi
essere umano.
Le
creature, seguendo la direzione della miasmatica corrente, si erano
disposte in fila rituale, e la luce delle torce illuminava i contorni
delle loro teste chine… o per meglio dire, di quelle che avevano
una testa.
Attendevano
adoranti di fronte ad una specie di voragine nera, dalla quale
schizzava a zaffate una torbida putrescenza per poi innalzarsi e
quasi svanire.
Notai
che dai suoi lati, ad angolo retto, si dipartivano due scalinate
titaniche la cui cima scompariva nel buio.
Ero
certo di essere caduto da una delle due.
La
voragine aveva le stesse dimensioni delle colonne: una normale
abitazione sarebbe scomparsa, al suo confronto, ed un intero palazzo
pubblico vi sarebbe entrato senza alcuna difficoltà.
Occupava
uno spazio talmente smisurato, che solo alzando gli occhi si riusciva
a delimitarne i contorni… era così immensa, così orrendamente
nera, così disgustosamente ammorbante… E in quell’antro degno di
Polifemo, le creature stavano lanciando delle cose, presumibilmente
doni od offerte propiziatorie, stando alla loro mimica gestuale.
Davanti
a tutti c’era Khephren: il sogghignante faraone Khephren, o la mia
guida Abdul Reis, cinto dall’aureo pshent, che dettava lunghissime
formule con la voce tenebrosa dei morti.
In
ginocchio accanto a lui scorsi la stupenda Nitocris, che intravidi
per un breve istante di profilo per poi accorgermi che l’intera
parte destra del suo volto era stata rosicchiata dai topi o dai
ghoul, mangiatori di cadaveri.
E
quando vidi con chiarezza cosa stavano lanciando le creature
nell’orrida voragine, probabilmente in offerta alla divinità che
vi dimorava, chiusi nuovamente gli occhi.
Trattandosi
di un rituale piuttosto elaborato, arguii che il Signore del baratro
dovesse essere alquanto importante.
Che
fosse Osiride, o Iside, o forse Horus, o Anubis, oppure qualche
ignoto dio dei morti, più antico ed eccelso di loro? Narra una
leggenda che, molto prima della nascita dei culti degli dèi
conosciuti, venivano eretti nefandi altari ed oscene statue colossali
in onore di un Essere Oscuro… Poi, mentre cercavo di resistere alla
macabra vista delle sepolcrali apparizioni di quelle creature senza
nome, seppi improvvisamente che esisteva una possibilità di
fuga.
Il
camminamento in cui mi trovavo era scarsamente illuminato, e dalle
immani colonne venivano proiettate ombre fitte.
Considerando
che tutti quegli abominevoli mostri erano in deliquio per l’estasi
del rituale, forse potevo strisciare non visto fino ad una delle
scalinate ed arrampicarmi furtivamente verso la libertà, pregando il
Fato e facendo affidamento sulla mia abilità.
In
che luogo mi trovassi né lo sapevo, né lo volevo sapere… e per un
istante sorrisi divertito all’idea di organizzare un’evasione da
quello che era certamente un sogno.
Ero
davvero in una zona sepolta e sconosciuta dei sotterranei del Tempio
di Khephren, quel tempio che viene chiamato ormai da generazioni
Tempio della Sfinge? Anche se non avevo alcun elemento certo
per congetturare, ero assolutamente determinato a risalire alla
vita e alla realtà, sempre che mi assistessero la forza ed il
cervello.
Carponi,
iniziai a strisciare, col cuore in gola, verso la scalinata che mi
pareva più accessibile, cioè quella di sinistra.
Se
mi si chiede di descrivere cosa provai in quei minuti, confesso di
non poterlo fare, ma è facile immaginarlo: basta pensare che, per
paura di essere scoperto, ero obbligato a non distogliere mai lo
sguardo da quell’orrida scena rischiarata dalle torce mosse dal
vento.
Ho
già spiegato che la base della scala era molto distante e buia,
visto che doveva salire senza una curva sino alla balaustra eretta
sopra la voragine.
Conseguentemente,
l’ultima parte della mia avanzata avvenne piuttosto lontano dalla
calca strepitante, pur se il panorama mi atterrì lo stesso.
Finalmente
arrivai agli scalini ed iniziai a salire, sempre accostato alla
parete, e su questa osservai dei rivoltanti disegni.
Per
scivolare via, facevo affidamento sul rapimento estatico con cui
quelle oscenità fissavano la voragine che vomitava aria putrida e i
cibi immondi lanciati da loro stessi vicino all’apertura, per
terra.
I
gradini della colossale scalinata erano enormi blocchi di porfido,
adatti ai piedi di un gigante, e la loro ascesa pareva senza fine.
La
fatica che mi costava quella salita, che aveva anche riacuito i miei
dolori, unita al terrore di essere scoperto, mi fece vivere un
autentico inferno.
Appena
raggiunta la balaustra, avevo stabilito di completare la salita dei
restanti gradini, se ce n’erano, ripromettendomi di non girarmi a
guardare per l’ultima volta l’orda blasfema che scalpitava e si
inchinava adorante a circa trenta metri più in basso.
Ed
invece, un improvviso sollevarsi di quel coro di lugubri zufoli
nel momento in cui stavo per raggiungere la cima, segno evidente che
nessuno aveva notato la mia fuga, mi spinse a fermarmi e a sbirciare
dalla balaustra.
Le
aberranti creature stavano urlando in preda all’esaltazione
all’indirizzo di qualcosa che era uscito dalla fetida voragine per
ghermire le loro ributtanti offerte.
Era
qualcosa di mastodontico e massiccio, anche dall’alto della mia
posizione, qualcosa di giallognolo e lanoso, dotato di una specie di
movimento continuo.
Rassomigliava
forse ad un grosso ippopotamo, ma era fatto in modo molto strano.
All’apparenza
era privo di collo, ma era dotato di cinque teste villose che si
allungavano in fila dal tronco rozzamente cilindrico: la prima,
minuscola; la seconda, piuttosto grossa; la terza e la quarta, di
eguale misura, più grosse di tutte; la quinta, di poco più grande
della prima.
Dalle
cinque teste sporgevano tentacoli curiosamente rigidi, e con questi
l’Essere ghermiva il cibo rivoltante che si era ammucchiato vicino
alla bocca della voragine.
A
volte spiccava salti, altre indietreggiava nella tana bizzarramente:
un modo di muoversi che era talmente assurdo da irritarmi.
Così
restai a fissarlo, sperando che uscisse maggiormente dal suo antro.
E
poi uscì… uscì e, davanti a quella vista, fuggii di corsa su per
la scala buia.
Semincoscente,
salii dissennatamente, senza capire né vedere, miriadi di
gradini e piani inclinati, lungo i quali non mi guidavano né la
vista né la ragione, e che credo di dover lasciare nel mondo
onirico, non essendovi prove razionali… Doveva trattarsi di un
sogno: come avrei fatto, se no, a ritrovarmi all’alba, col respiro
mozzo, sulle dune di Gizah, di fronte al viso beffardo e infuocato
dal sole della Grande Sfinge? La Grande Sfinge! Mio Dio… la vaga
domanda che mi ero posto il mattino precedente, benedetto dal sole…
Maledetto il momento in cui, sogno o non sogno, si palesò ai miei
occhi l’orrore supremo: l’Oscuro Dio dei Morti che ingurgita i
suoi abnormi bocconi negli sterminati abissi, macabramente saziato
con empi cibi da mostruosità senz’anima che non esistono.
L’oscenità
a cinque teste che emerse… l’oscenità a cinque teste grande come
un ippopotamo… l’oscenità a cinque teste… e ciò di cui Esso è
appena una zampa anteriore… Ma sono sopravvissuto, e so che era
soltanto un sogno.
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