venerdì 12 giugno 2015

LEI (Racconto di H.P. Lovecraft)

LEI

La notte in cui lo incontrai non riuscivo a prendere sonno, e camminavo come un pazzo per risollevare il mio spirito.
Venire a New York era stato uno sbaglio perché, ovunque cercassi bellezza ed ispirazione artistica – in labirinti di antiche viuzze che giravano senza fine intorno a cortili e piazze deserte, o che partivano dal molo per diramarsi verso altri cortili ed altre piazze sempre deserte, e nelle guglie e nei titanici palazzi moderni  che svettavano, sinistramente babilonesi, verso lune esangui – avvertivo, invece, un vago orrore ed una sensazione di soffocamento che mi opprimevano quasi al punto di prostrarmi ed annichilirmi.
La disillusione era arrivata per gradi.
Al mio primo arrivo, la città mi era apparsa all’ora del tramonto mentre la contemplavo da un ponte disteso superbamente sull’acqua, con le sue torri ed i suoi pinnacoli inauditi che spuntavano tremuli come fiori in boccio da specchi d’acqua di un lilla delicatissimo, in un gioco di riflessi con le nuvole infuocate e le prime stelle della sera.
Poi si rifletteva, rifratta da finestra a finestra, sull’acqua luccicante, dove la luce delle lampade moriva lentamente e neri tentacoli producevano misteriose corrispondenze.
La città era trasformata  così in un cielo stellato sognante, dove suonava una musica  dolcissima, e mi appariva stupenda come Carcassone, Samarcanda,  El Dorado, e tutte le altre città fantastiche appartenenti al mito.
Non ci misi molto a smarrirmi in quel dedalo di viuzze che mi affascinavano tanto: erano stradine strette e sinuose, corridoi che passavano tra muri rossi dell’epoca georgiana dove spuntavano piccolissimi abbaini di vetro, posti su frontoni dorici davanti ai quali avevano transitato berline e lussuose carrozze.
Ed io, conscio di aver trovato quello che da tempo agognavo, mi convinsi di essermi finalmente impadronito di quei tesori che mi avrebbero dato l’ispirazione poetica.
Purtroppo la gioia e la vena artistica non sarebbero mai arrivate.
L’accecante luce del mattino mi rivelò soltanto desolazione ed estraneità, insieme all’ipertrofismo malato della pietra messa a nudo laddove la luna aveva disteso un velo magico di antica bellezza.
La folla rifluiva come un mare nelle strade strapiene, dove passavano sconosciuti dalle spalle curve con l’espressione arcigna e gli occhi stretti: individui subdoli, senza sogni e senza legami con il mondo circostante, del tutto insignificanti per un uomo dagli occhi azzurri di stampo antico come me, che amava dal profondo del cuore le stradine verdeggianti ed i paesini bianchi del New England.
Perciò, al posto dell’ispirazione poetica che avevo sognato, ero oppresso da un buio spaventoso e da un senso di disperata solitudine.
Ed alla fine intuii una verità tremenda che nessuno aveva avuto il coraggio di vedere, l’indicibile segreto dei segreti: quella città di pietra e di rumori, non è una continuazione organica dell’antica New York, come Londra lo è dell’antica Londra, o Parigi dell’antica Parigi.
Quella città è morta.
Il suo cadavere putrescente e malamente imbalsamato, pullula di curiose  creature animate che non c’entrano niente con una città viva.
Una volta fatta tale scoperta, non riuscii più a dormire bene, anche se caddi in una specie di triste rassegnazione cominciando a prendere l’abitudine di uscire per strada soltanto di notte, quando il buio ridesta gli ultimi fantasmi del passato ed i vecchi portoni ricordano le nobili figure degli uomini che un tempo vi passavano.
Confortato dal ricordo, trovai anche l’ispirazione per comporre  qualche poesia e la forza di rimandare il ritorno tra i miei, temendo pensassero che mi fossi arreso perché ero un pusillanime.
Poi, una notte, mentre me ne andavo in giro per combattere l’insonnia, incontrai qualcuno.
Mi trovavo in un bizzarro cortile di Greenwich, il quartiere nel quale mi ero stabilito per la mia ingenuità, poiché credevo che fosse la zona preferita dai poeti e dagli artisti.
Le sue vecchie stradine, e gli angoli sorprendenti di alcune piazze e cortili, mi piacevano molto.
Quando mi accorsi, però, che quei poeti e quegli artisti non erano che buffoni travestiti, il cui modo di vivere oltraggiava la vera bellezza di cui si sostanziano l’arte e la poesia, decisi di restare solo per amore di quegli angoli antichi.
Mi sforzavo di immaginare il quartiere così com’era  all’origine, quando Greenwich, cioè, era ancora un villaggio  tranquillo lontano dalla città.
Prima che spuntasse il giorno, quando anche gli ultimi buontemponi  erano tornati a casa, gironzolavo tutto solo in misteriosi  vicoli e meandri dove si celavano segreti rimasti lì da secoli.
Nutrivo così il mio spirito, procurandomi quei rari sogni e quelle benedette visioni tanto invocati dal poeta che era in me.
L’uomo mi accostò alle due circa di un grigio mattino di agosto, mentre me ne andavo in giro per certi cortili dimenticati la cui esistenza veniva scoperta solo per caso entrando negli androni bui degli edifici prospicienti, pur se anticamente facevano parte di tutto un dedalo di allegre viuzze.
Avevo sentito qualcuno che ne parlava, intuendo che le carte odierne non li riportavano; il fatto stesso che fossero dimenticati, però, li rendeva più seducenti ai miei occhi, e per questo motivo mi ero messo alla loro ricerca con morboso interesse.
Adesso che li avevo scoperti, il mio interesse diventava anche più morboso, in quanto la loro planimetria mi induceva a credere che ve ne fossero molti altri.
Si trattava di cortili bui, nascosti tra stretti muri lisci e facciate di palazzi, o serpeggianti sotto arcate prive di illuminazione, protetti da miriadi di persone che parlavano con accenti stranieri e frequentati da artisti poco loquaci e sfuggenti, le cui attività esigevano il riparo della notte.
Accortosi del mio stato d’animo e di come osservavo attentamente i batacchi dei portoni dai gradini in ferro, grazie alla luce fioca che veniva riflessa sul mio viso dalle traverse traforate, decise di parlarmi senza che io lo incoraggiassi.
La sua faccia era rimasta nell’ombra, ma potevo vedere che aveva un cappello a tese larghe, che io trovai curiosamente adatto al suo mantello fuori moda.
Non so perché, ma avvertii un’inspiegabile inquietudine prima ancora che parlasse.
Era molto magro, quasi scheletrico, e la sua voce, nonostante non fosse particolarmente profonda, era singolarmente roca e pastosa.
Mi disse che aveva notato parecchie volte le mie esplorazioni notturne, e da questo aveva capito che avevamo la stessa venerazione per le testimonianze del passato.
Non desideravo, allora,  la guida di un cicerone avvezzo a simili ricerche, ed in possesso di informazioni locali molto più circostanziate di quelle che un forestiero avrebbe potuto ottenere dalla gente? Mentre parlava, la luce gialla di una finestra all’ultimo piano illuminò brevemente il suo viso.
Sembrava molto vecchio, con una spiccata nobiltà nei tratti che lo faceva apparire addirittura bello, ed era ammantato di una regalità e di un decoro decisamente fuori tempo.
Ma quel volto aveva un qualcosa che mi inquietava almeno quanto mi attraeva.
Probabilmente era troppo pallido, o troppo fermo, o troppo stridente con  l’ambiente, per farmi sentire a mio agio.
Ma andai egualmente con lui, perché in quei giorni tremendi non mi rimaneva che la ricerca delle cose belle del passato per alimentare la fiammella della speranza, e mi sembrò una benedizione del cielo l’aver incontrato un uomo che dimostrava la mia stessa passione, pur se la sua ricerca sembrava si fosse spinta molto più in profondità della mia.
L’atmosfera della notte rendeva laconico l’uomo dal mantello.
Mi condusse per i vicoli per un’ora intera, parlando molto poco, se non per fare qualche rapido commento su un nome, su una data o su un cambiamento; principalmente si esprimeva a gesti.
Ci introducemmo negli androni, seguimmo i corridoi,  salimmo su muretti di mattoni, passammo perfino sotto un camminamento ad archetto, al termine del quale persi l’orientamento per la tortuosità e la lunghezza esagerata.
Vedemmo cose antichissime e tutte stupende, o perlomeno tali sembravano, con quella illuminazione fioca.
Non scorderò mai le colonne ioniche vacillanti, i pilastri rastremati, le urne delle cancellate, le finestre architravate che rifulgevano di luce, e le lanterne a ventaglio che parevano sempre più ingobbite e curiose mentre seguitavamo ad inoltrarci in quella fonte inesauribile di meraviglie ed ignote vestigia.
Non incontravamo nessuno e, con il passare del tempo, le finestre illuminate erano sempre di meno.
Il tipo di illuminazione vista fino a quel momento era costituita da lanterne a petrolio, la cui base rastremata seguiva una foggia molto vecchia.
Più avanti osservai che le candele avevano preso il posto delle lampade e, al termine del nostro giro, dopo aver superato un androne immerso nell’oscurità, dove c’era un cancello di legno incassato in un muro che la mia guida mi indicò con un dito guantato, spuntammo in una stradina la cui unica luce proveniva dalle lanterne.
Lanterne che, non ci si credeva, erano ancora in stile coloniale: coniche e bucherellate.
La stradina conduceva fin sopra la collina – non avrei mai pensato che in una zona di New York potesse esistere una stradina così ripida – e finiva bruscamente di fronte ad un muro ricoperto completamente dai rampicanti, oltre il quale si intravedevano una cupola delicata e le cime degli alberi che si stagliavano al debole chiarore del cielo.
Il muro ospitava un cancello in legno scuro di quercia sormontato da un piccolo archetto, e l’uomo trafficò per aprirlo con un’enorme chiave.
Invitandomi ad entrare nella casa, che era avvolta nel buio, mi condusse per un vialetto di ghiaia, o almeno così mi sembrava, quindi su per una rampa di scale di pietra, al termine della quale trovammo la porta d’ingresso che lui aprì con la medesima chiave.
Non appena fummo dentro, mi aggredì istantaneamente un insopportabile odore di muffa, che doveva essere il prodotto di una putrescenza di secoli.
Evidentemente il mio anfitrione non ci faceva caso; quanto a me, mentre lo seguivo su per una scala curva che conduceva prima in un salone e poi in una stanza che lui chiuse alle nostre spalle, mi astenni dal farglielo notare per non mancare di educazione.
Quindi aprì le tende di tre finestre pannellate che denudarono un cielo di un azzurro elettrico.
Poi mandò indietro le falde del mantello, strofinò un acciarino, accese due candele appartenenti ad un candelabro a dodici  luci, e mi fece un cenno come per pregarmi di parlare a bassa voce.
A quella debole illuminazione, vidi che ci trovavamo in una biblioteca pannellata, molto ampia e di buon gusto, risalente ai primi lustri del ‘700, con magnifici frontoni all’entrata, una squisita cornice dorica ed un delizioso sopracaminetto scolpito e ornato di splendidi fregi.
Lo spazio libero sopra gli scaffali stipati di volumi, era occupato dai quadri degli antenati, i cui ritratti, scuriti dal tempo fino ad essere quasi enigmatici, rivelavano un indiscutibile rassomiglianza con l’uomo che in quel momento mi indicava una sedia accostata ad un bellissimo tavolo in stile Chippendale.
Prima di accomodarsi su un’altra sedia posta di fronte alla mia, il mio ospite rimase in silenzio per un po’, come se si sentisse in imbarazzo.
Quindi, dopo essersi sfilato molto lentamente i guanti ed aver posato il cappello a larghe tese ed il mantello, mi si parò davanti con un atteggiamento teatrale, mostrandomi un abbigliamento d’epoca georgiana, a partire dal codino e dal colletto di crinolina, per finire con i calzoni a sbuffo, le calze di seta e le scarpe con fibbia, particolare, questo, che fino a quel momento mi era sfuggito.
Dopodiché, sedendosi con lentezza esasperante su una sedia dallo schienale a liste, iniziò ad osservarmi minuziosamente.
Adesso che si era tolto il cappello, appariva incredibilmente vecchio, ed allora mi domandai se non fosse stata proprio quella sua eccezionale età, di cui mi accorgevo pienamente soltanto adesso, a mettermi in imbarazzo.
Quando riprese nuovamente a parlare, con mio sollievo, notai che la sua voce insinuante, rauca e rigidamente controllata, a tratti tremolava.
In certi punti non riuscivo a capirlo bene, e rimanevo lì ad ascoltarlo stupito con una sensazione di vaga inquietudine e crescente agitazione.
Di fronte a voi, signore”, iniziò il mio ospite, “vedete un vero eccentrico; tuttavia, trovandovi così perspicace ed interessato, presumo di non dover giustificare con voi il mio abbigliamento.
Amando molto i bei tempi passati, ho fatto ricerche sulle usanze dell’epoca e ne ho adottato la moda e le maniere; un piccolo capriccio che non disturba nessuno, se si fa con naturalezza.
Sono stato così fortunato da ereditare la casa avita dei miei antenati, pur se le sono cresciute intorno due città: prima Greenwich, edificata verso il 1800, e dopo New York, sviluppatasi intorno al 1830.
Sono molteplici i motivi che spinsero la mia famiglia a non lasciare la proprietà, ed intendo onorare anch’io i miei obblighi.
Il signore che ereditò la casa nel 1768, era uno studioso di certe arti occulte, ed a lui si devono alcune scoperte, che devono restare segrete, sulle influenze che si esercitano in questa zona particolare di terreno.
Adesso vorrei mostrarvi certi stupefacenti risultati di queste scoperte, sotto stretto vincolo di segretezza, poiché vi ritengo una persona di onorate intenzioni e lealtà.
Attese che gliene dessi conferma, ed io, ovviamente, annuii.
Come ho detto mi sentivo un po’ inquieto; ma per il mio spirito nulla era più deprimente della realtà diurna di New York e, sia che quell’uomo fosse un originale inoffensivo, sia che fosse un pericoloso squilibrato, non potevo fare altro che dargli retta e saziare la mia sete di bellezza con quello che poteva venirmi da lui.
Perciò restai.
Il mio… avo”, riprese piano, “era convinto che la volontà umana fosse dotata di qualità fantastiche; qualità in grado di influenzare, fatto curioso, non solo le azioni dell’individuo o della società, ma anche tutte le forze e sostanze esistenti in natura, ed addirittura certi elementi e dimensioni ritenuti più universali della natura stessa.
So di certo che derideva qualsiasi principio considerato sacro ed inviolabile, ad esempio il tempo e lo spazio, e che reimpiegava per certi suoi scopi gli strani riti degli indiani sanguemisto che a quel tempo vivevano su questa collina.
Quando questa casa era stata costruita, gli indiani se l’erano presa molto a male, ed avevano cominciato a fare pressioni  sul mio antenato per avere il permesso di entrare nei suoi terreni ad ogni plenilunio.
Seguitarono per anni a scavalcare di nascosto il muro per praticare i loro oscuri riti.
E poi, nel ’68, il nuovo padrone li colse sul fatto, ma rimase ad osservare non visto il loro rito, spinto dalla curiosità.
In seguito decise di fare un patto con loro e, in cambio del permesso di accesso ai suoi terreni, si fece descrivere dettagliatamente l’intero rituale.
Fu così che venne a sapere che a quelle pratiche avevano preso parte, al tempo degli Stati Generali, certi loro avi di sangue misto ed un vecchio olandese.
E poi il mio avo, che gli venga il vaiolo, deve aver fatto ubriacare per una settimana intera i pellerossa con del rum davvero molto cattivo, chi lo sa se con uno scopo preciso, perché poco tempo dopo aver saputo il segreto, era rimasto l’unico essere vivente ad esserne a conoscenza! Voi, signore, siete l’unica persona che non fa parte della famiglia ad apprenderne l’esistenza.
Possa essere fulminato, se avrei rischiato la collera delle Potenze se non avessi visto in voi un sincero amante dell’antico.
Quel tono di chi si sente già intimo mi suscitò repulsione.
Poi il vecchio seguitò a parlare.
Sappiate, però, signore, che quello che il nobile venne a sapere dagli indiani era solo una parte della verità che doveva scoprire più tardi.
Non per niente aveva fatto gli studi ad Oxford, e preso lezioni da un famoso chimico ed astrologo di Parigi.
In sintesi, sapeva che la realtà esterna è solo fumo per la mente.
Gli stupidi si lascino pure ingannare, ma chi ha del cervello non si fa abbindolare da una nuvoletta di fumo, sia pure di ottimo tabacco della Virginia.
Possiamo impadronirci di tutto ciò che desideriamo, e buttare via tutto quello che non vogliamo.
Certo, questo che sto dicendo non è poi del tutto vero, in pratica; però è sufficientemente vero per fare un bello spettacolo, qualche volta.
Sono sicuro che sareste compiaciuto di vedere come si svolgeva la vita una volta, in epoche che avete potuto solo immaginare.
Perciò vi prego, non abbiate paura di quello che state per vedere.
Seguitemi alla finestra e rilassatevi.
Prendendomi per mano, il vecchio mi portò ad una delle due finestre di quella stanza muffita: non appena le sue dita nude mi toccarono, mi si gelò il sangue, ed ebbi l’impulso di sottrarmi alla sua stretta.
Ma un attimo dopo pensai al senso di vuoto e di ribrezzo che mi ispirava la realtà, e decisi risolutamente di seguirlo ovunque mi portasse.
Quando arrivammo alla finestra, l’uomo scostò le tende di seta gialla e mi fece segno di guardare bene di fuori, dove era buio.
Inizialmente mi apparvero soltanto dei lumicini lontani, molto lontani.
Ma poi, come se fosse stata evocata da una mossa indefinita della sua mano, nel buio balenò una luce accecante, ed apparve una foresta lussureggiante – una foresta incontaminata – dove poco prima c’erano stati i tetti delle case.
Sulla destra vedevo luccicare l’Hudson, ed in lontananza brillava la debole fosforescenza di una palude salma punteggiata di lucciole.
Improvvisamente la luce si spense, e sul viso del vecchio negromante, pallido come cera, sfavillò un sorriso malefico.
Era così prima di me… prima del nuovo padrone.
Mi auguro di riuscirci di nuovo.
Una strana debolezza si era impadronita di me: una debolezza che mi infiacchiva perfino di più di quell’orrenda città moderna.
Dio del cielo!”, ansimai.
Riuscite a farlo tutte le volte che volete?” Mentre il vecchio faceva segno di sì col capo, scoprendo i mozziconi neri cui si erano ridotti quelli che in origine dovevano essere stati denti gialli e acuminati, dovetti sorreggermi alle tende, per non perdere i sensi.
Ma non accadde, perché lui riuscì ad acchiapparmi di nuovo con una mano repellente, che era gelida come il ghiaccio, e ripeté quel pauroso gesto.
Sfavillò nuovamente una luce, ma stavolta illuminò una scena che non mi risultava del tutto estranea.
Era Greenwich, l’antica Greenwich, frastagliata come oggi da qualche tetto e qualche caseggiato, ma resa più seducente da strade verdeggianti, campi arati e teneri pascoli.
In lontananza si vedeva sempre il luccichio  della palude però, molto più in là, spuntavano i tetti dell’antica New York.
Le guglie più alte erano quelle della chiesa della Trinità e della chiesa di S.
Paolo, e l’intera scena era offuscata da un fumo leggero di legna bruciata… Mi si fermò il respiro: non tanto per quello che vedevo, quanto  per le possibilità intraviste dalla mia immaginazione al galoppo.
E voi potreste… avreste il coraggio di… andare anche oltre?”, domandai sconvolto, pensando per un attimo che lui condividesse le mie paure.
Ed invece sulla sua faccia ricomparve quel sorriso malvagio.
Anche oltre? Ciò che ho visto io ti trasformerebbe in una statua di pietra! Indietro e indietro… avanti e avanti! Stai a guardare, stupido fifone!” E poi, mentre quell’ultima frase gli moriva in gola, ripeté ancora quel gesto, e nel cielo sfavillò una luce ancora più sfolgorante di prima.
Per tre secondi esatti apparve una scena da finimondo, una visione che mi avrebbe perseguitato per sempre nei sogni.
Vidi cieli pullulanti di incredibili creature volanti ed in basso una città nera, demoniaca, fatta a piani di pietra colossali, le cui oscene torri si protendevano tentacolarmente verso la luna, con milioni di finestre al cui interno brillavano luci infernali.
Poi, ammassata in repellenti gallerie aeree, vidi la sua popolazione: esseri strabici dagli occhi gialli, con orrendi abiti rossi ed arancioni, lanciati in una danza sfrenata al ritmo di tamburi forsennati.
E sentii lo strepito di quei crotali ripugnanti, ed i lamenti deliranti dei corni in sordina, che intonavano una marcia funebre il cui suono incessante si alzava ed abbassava ondeggiando come un mare di bitume.
Sono certo di aver assistito a quello spettacolo, e di avere udito, con una sorta di orecchio interiore, la cacofonia infernale che faceva da contrappunto.
Era l’epitome urlante di tutto l’orrore che quella città putrescente aveva inflitto al mio spirito.
Scordando l’avvertimento di restare zitto, gridai, e gridai, ed intanto le pareti mi giravano intorno.
Non appena la luce scomparve, mi accorsi che anche il vecchio  tremava, ed aveva una faccia contratta e talmente terrorizzata  da gelarmi il sangue: sembrava lo sguardo di un aspide reso rabbioso dai miei urli.
Barcollò, si aggrappò alle tende come avevo fatto io poco prima, ed iniziò a scuotere la testa inferocito,  come un animale braccato.
E sa Iddio se non aveva ragione perché, quando il mio ultimo grido si spense, sentimmo un nuovo suono, un rumore talmente satanico, che fu solo grazie al mio stato di totale allucinazione che non persi la ragione.
Udimmo uno scalpiccio rapido e deciso  venire dalle scale, dietro la porta chiusa, come se stesse arrivando una moltitudine scalza o calzata di pelle.
Quindi si sentì girare lentamente il chiavistello, il cui ottone brillava alla luce fioca delle candele.
Il vecchio mi afferrò il braccio con la sua mano adunca, e l’aria putrida mi portò in faccia il suo fiato.
Si teneva aggrappato alle tende e, mentre dondolava, farfugliava parole incomprensibili.
Il plenilunio… Io ti maledico… Tu, sei stato tu a chiamarli… bastardo… e loro sono venuti a prendermi! I mocassinì… i morti… tornatevene all’inferno, maledetti diavoli rossi! Non ho avvelenato il vostro rum… Non è vero, forse, che non ho rivelato a nessuno il segreto dei vostri riti? Avete tracannato e ci siete rimasti secchi… e adesso ve la prendete con me! Via, andatevene  via! Non scardinate quella serratura: non ho niente per voi! ” In quel momento, i pannelli della porta tremarono sotto l’urto di tre colpi pesanti, ed il negromante, reso folle dal terrore, schiumò bava dalla bocca.
E tale paura, divenendo disperazione,  riaccese in lui tutta la collera nei miei confronti.
Tenendosi ancora aggrappato alle tende con la mano destra, fece un passo verso il tavolo al quale mi afferravo, sollevando contemporaneamente l’artiglio sinistro verso di me.
Le tende, strattonate in quel modo, alla fine cedettero e si staccarono dagli alti ganci, cadendo a terra.
La luna piena, la cui comparsa era stata annunciata dall’elettricità del cielo, fece filtrare uno dei suoi raggi nella stanza.
Quella luce verdognola annullò le candele, e la camera assunse una nuova aria di decadenza che sommerse gli scaffali soffocati dalle ragnatele, le mattonelle traballanti del pavimento, il caminetto, i mobili sgangherati e la tappezzeria tarlata.
Anche il vecchio subì una metamorfosi, che forse proveniva dalla stessa origine, o forse nasceva dalla sua rabbia cieca e dal suo terrore, ed io lo vidi avvizzire ed annerirsi mentre strisciava verso di me per dilaniarmi con i suoi artigli assetati di vendetta.
Gli occhi soltanto rimanevano inalterati, e mi guardavano con un’incandescenza che diventava sempre più luminosa mano a mano che la pelle intorno si carbonizzava ed inceneriva.
I battiti contro la porta adesso erano più insistenti, e stavolta avevano un rumore metallico.
L’essere carbonizzato davanti a me si era ridotto a una testa e due occhi, e cercava di strisciare nella mia direzione sputando oscenità indicibili.
Ormai le ante della porta stavano cedendo sotto i colpi netti e ben calibrati, e scorsi il luccichio di un tomahawk che alla fine spaccava il legno.
Rimasi immobile, perché ero paralizzato, e restai a guardare intontito la porta che si schiantava ammettendo una colata gigantesca ed ameboide di una specie di gelatina nerastra con occhi luccicanti e perversi.
Entrava a fiotti, come un’esplosione di petrolio nella paratia di una nave.
Nel propagarsi travolse una sedia, poi scivolò sotto il tavolo e attraversò tutta la stanza, fermandosi davanti alla testa carbonizzata che mi fissava ancora con quegli occhi.
La circondò, la risucchiò e, alla fine, cominciò a retrocedere, portando con sé la sua invisibile preda.
Non venni sfiorato da quell’orrore: ripassò per la porta buia e ridiscese la scala misteriosa, producendo lo stesso scricchiolio di quando era salita.
In quel momento cominciò a tremare il pavimento, ed io corsi a precipizio giù nel pianerottolo, asfissiato dalle ragnatele e fuori di testa dal terrore.
La luna verde si insinuò dentro le finestre rotte, illuminando il portone semiaperto.
Mentre cercavo di liberarmi dai pezzi di calcinaccio che mi cadevano addosso, vidi una specie di fiumana nera che travolgeva il soffitto, una fiumana nera dove brillavano centinaia di occhi malvagi.
Stava cercando la porta della cantina: una volta individuata, si infilò lì dentro.
Mi resi conto che stava cedendo anche il pavimento del pianerottolo; contemporaneamente, dal piano di sopra arrivava un tonfo, seguito immediatamente dalla caduta, alla finestra ovest, di quella che presumibilmente era la volta del soffitto.
Riuscendo finalmente a liberarmi dai calcinacci, mi catapultai verso la porta d’ingresso.
Incapace di aprirla, agguantai una sedia e ruppi la finestra, poi vi salii sopra, mi gettai e finii su un soffice prato, la cui erba fitta era illuminata dalla luna.
Il muro di recinzione era alto, ed i cancelli chiusi, però, ammucchiando delle cassette trovate in un angolo, mi creai una scala grazie alla quale riuscii a toccare la sommità con le mani e ad issarmi sull’urna di pietra.
Stremato, non vedevo che strane finestre, strani muri e vecchi tetti.
La stradina per la quale ero venuto non si scorgeva e, quel poco che vedevo, venne nascosto improvvisamente dalla nebbia salita dal fiume, che si fece beffe della luna.
Poi, senza alcun preavviso, l’urna alla quale mi tenevo iniziò a tremare, come se venisse contagiata dalla mia confusione mentale e, dopo due secondi, il mio corpo cadde giù per affrontare un ignoto destino.
Stando all’uomo che mi ritrovò, dovevo aver camminato per parecchio tempo sebbene fossi tutto rotto, in quanto sul terreno c’era una lunga scia di sangue che proseguiva oltre lo sguardo.
Una pioggia a dirotto spezzò ben presto quel legame con il teatro dei miei orrori, ed i testimoni non poterono dichiarare altro che di avermi vfsto uscire dal niente, davanti ad un cortiletto buio nelle vicinanze di Perry Street.
Non ho mai cercato di ritrovare quei dedali di viuzze oscure, ed anche se riuscissi a tornarvi, non mi verrebbe mai in mente di mostrarli ad una persona sana di mente.
Non so assolutamente di chi fosse o che cosa fosse la creatura misteriosa che ho incontrato, ma torno a dire che la città è morta, e che brulica di orrori impensati.
Neanche so se “lui” sia davvero scomparso: per quel che mi riguarda, sono tornato a casa mia, nelle innocenti stradine del New England, dove la sera spirano dolcemente i venti leggeri del mare.


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