venerdì 6 ottobre 2017

La guerra è Dio

Il giudice spezzò lo stinco di un'antilope con il dorso di un'accetta e il midollo caldo sgocciolò fumante sulle pietre. Lo guardarono. L'argomento in discussione era la guerra.
La Bibbia dice che colui che vive di spada perirà di spada, disse il nero.
Il giudice sorrise, la faccia lucida di unto. Quale uomo giusto la penserebbe diversamente? disse.
In effetti la Bibbia considera la guerra un male, disse Irving. Eppure contiene molte storie sanguinose di guerra.
Ciò che gli uomini pensano della guerra non ha importanza, disse il giudice. La guerra perdura nel tempo. Tanto varrebbe chiedere agli uomini cosa pensano della pietra. La guerra c'è sempre stata. Prima che nascesse l'uomo, la guerra lo aspettava. Il mestiere per eccellenza attendeva il suo professionista per eccellenza. Così era e così sarà. Così e non diversamente.
Si voltò verso Brown, che aveva bisbigliato un'obiezione poco chiara. Ah, Davy, disse. E' proprio il tuo mestiere quello che onoriamo qui. Perché non fare piuttosto un piccolo inchino. Ciascuno abbia i dovuti riconoscimenti.
Il mio mestiere?
Certamente.
Qual è il mio mestiere?
La guerra. La guerra è il tuo mestiere. Non è così?
E non è il vostro?
Anche il mio. Non c'è dubbio.
E allora cosa c'entrano tutti quei quaderni e gli ossi e l'altra roba?
La guerra racchiude in sé tutti gli altri mestieri.
E' per questo che la guerra dura nel tempo?
No. Essa perdura perché i giovani la amano e i vecchi la amano nei giovani. Quelli che hanno combattuto e quelli che non hanno combattuto.
Questo lo dite voi.
Il giudice sorrise. Gli uomini sono nati per giocare. Nient'altro. Tutti i bambini sanno che il gioco è più nobile del lavoro. Sanno anche che il valore o merito di un gioco non sta nel gioco stesso, ma piuttosto nel valore di ciò che è messo in gioco. I giochi d'azzardo richiedono una posta per avere senso. I giochi sportivi coinvolgono l'abilità e la forza dei contendenti, e l'umiliazione della sconfitta e l'orgoglio della vittoria sono di per sé una posta sufficiente poiché pertengono al valore degli antagonisti e li definiscono. Ma, sia questione d'azzardo o di valore, tutti i giochi aspirano alla condizione di guerra, perché in essa la posta inghiotte gioco, giocatore, tutto quanto.
Supponiamo, continuò il giudice, che due uomini giochino a carte non avendo niente da puntare se non la vita. Chi non ha mai sentito una storia del genere? Una carta viene girata. Per il giocatore l'interno universo si riversa fragorosamente in quell'istante, che gli dirà se gli tocca di morire per mano di quell'uomo o se toccherà a quell'uomo morire per mano sua. Quale ratifica del valore di un uomo potrebbe essere più sicuro di questa? Spingere il gioco alla sua condizione estrema non ammette alcuna discussione concernente la nozione di fato. La selezione di un uomo a danno di un altro è una preferenza assoluta e irrevocabile, ed è davvero ottuso l'uomo che considera una decisione così profonda priva di un agente o di un significato. In giochi del genere, in cui la posta è l'annichilimento dello sconfitto, le decisioni sono del tutto trasparenti. L'uomo che tiene in mano una particolare combinazione di carte è in forza di ciò rimosso dall'esistenza. Tale è la natura della guerra, in cui la posta in gioco è a un tempo il gioco stesso e l'autorità e la giustificazione. Vista in questi termini, la guerra è la forma più attendibile di divinazione. E' la verifica della propria volontà e della volontà di un altro, all'interno di quella più ampia volontà che è costretta a compiere una selezione proprio perché li lega insieme. La guerra è il gioco per eccellenza perché la guerra è in ultima analisi un'effrazione dell'unità dell'esistenza. La guerra è dio.
Brown osservò il giudice. Voi siete pazzo, Holden. Decisamente pazzo.
Il giudice sorrise.
 
Meridiano di sangue, o rosso di sera nel West – Cormac Mccarthy, pag.255-256.

sabato 7 gennaio 2017

Uccelli-Fantasma di Nic Pizzolatto

Uccelli-Fantasma


E la città entra in un altro maggio indolente e ribollente. I genitori fanno smorfie mentre spingono i loro figli attraverso il Museum of Westward Expansion, e le chiatte gemono nel Mississippi. La fabbrica della Dowling Industrial ha eruttato qualcosa, e i gas rendono i nostri tramonti di un arancione tra il prugna e il plutonio.
Lavoro dalle undici di sera alle sei del mattino. Il parco è deserto, e io continuo a osservarlo da una piccola finestra in un muro di acciaio a 630 piedi di altezza dal suolo. Novanta acri di erba e alberi di sotto, ponti sul fiume verso est, e le luci di St. Louis a ovest. Perlustro la zona, coperto da un cielo purpureo (non si possono vedere le stelle questo mese), e dopo aver ispezionato le terre con il mio binocolo ufficiale del National Park Service schizzo fuori dalla mia finestra e scivolo sull’apice dell'arco di St. Louis.
Uso un Perigee II, una sacca per paracadute singolo, con chiusura a velcro, prodotto dalla Consolidated Rigging. Contiene una vela Ace rettangolare di 240 piedi, e la mia attrezzatura è nera: casco, ginocchiere e gomitiere, sciarpa per naso e bocca. I miei occhiali protettivi, tuttavia, sono blu, lenti di quarta generazione per la visuale notturna. L'arco, fatto di acciaio proveniente da Pittsburgh, è chiamato Gateway to the West, La Porta per l'Ovest e, quando la mia gamba penzola dalla finestra e i venti forti si infrangono sul mio viso, posso osservare la foresta scura in basso, o voltarmi verso una finestra lontana, oltre la quale St. Louis arde sotto le sue ceneri. In quel momento, sento che potrei sormontare le dormienti intersezioni dei sogni dell’intera nazione. Gichin Funakoshi dice che tutta la verità è contenuta nei sogni.
Il vento esplode con così tanta forza e rumore che potrei essere disintegrato. Tre secondi di caduta libera, più altri venti circa per guidare la vela verso il basso. A volte, mi muovo a spirale in discesa, come l'acqua che fluisce da un tubo di scarico.
Il Museum of Westward Expansion, alla base dell'arco, ha le dimensioni di un campo da football. Ho una borsa per l’equipaggiamento e un'uniforme da ranger nell’atrio; vi entro di corsa dopo un salto, ed esco pochi attimi dopo in veste di Ethan Landry, ranger del parco. In quegli attimi mi affido alla calma oscurità per ricordarmi che il parco è chiuso, e che io sono solo.
Le scale che mi portano in cima ascendono nell'oscurità, e io le salgo due alla volta.
Una radio trasmette della musica, e io ne sento gli intervalli d’interferenza nella cabina telefonica nera. Le ore strisciano lentamente verso il mattino. Da quando non bevo più, trovo una pausa dalla noia leggendo cose come Il Libro dei cinque anelliHagakure;La vita dei samuraiIl Daodejing. Mi piacciono gli scritti di Alce Nero e alcuni saggi di Emerson, ma il pensiero orientale mi sembra molto più chiaro. La chiarezza, penso, è la cosa principale. Trova una via e percorrila.
Cosa che più di tutte spiega i miei salti. La definizione letterale del BASE jumping è gettarsi col paracadute da punti stabili (edifici, torri, ponti, o rilievi naturali), ma per me significa reprimere i sensi e unirsi al vuoto. Il grande samurai Miyamoto Musashi dice che è necessario perdere il sé e diventare un tutt'uno col Mu, il vuoto al centro dell'esistenza al quale tutto ritorna. Così il guerriero trova la vita nella morte. È più duro di come sembra, e ci sono stato vicino solo una volta. Tre anni fa, mentre andavo in kayak sul fiume Buffalo, Arkansas, mi ribaltai e persi l'equipaggiamento. Andai a sbattere contro una roccia e il kayak mi colpì, mi fratturò una caviglia, si capovolse, mise fuori combattimento un molare, e scomparve con la corrente. Martellato dalle onde, mentre ingoiavo acqua ed ero quasi cieco dal dolore, mi aggrappai a una roccia, sapendo che, se fossi stato spazzato via dalla corrente, sarei stato finito. Notai che sulla riva del fiume uno scoiattolo mi stava osservando. Reclinò la sua testolina, come per chiedermi cosa pensassi di voler fare, e si arrampicò su un albero, muovendosi a spirale, dove lo persi di vista fra i rami. Ricordo un senso di calma, staticità, e pensai: «Questa è la mia morte. Interessante».
Quel momento fu uno sguardo fugace al vero universo, una galattica processione che seguitava a marciare senza di me. Quello che Dogen chiama «le diecimila cose». La mia caviglia è guarita, ma andare in kayak ha perso qualcosa dopo quell'esperienza, e io ho scoperto il paracadutismo sportivo, che mi ha condotto dritto al BASE jumping. Ho incominciato ad andare in kayak principalmente perché una delle regole base che ti insegnano durante la disintossicazione è che se hai intenzione di rimanere sobrio, devi mantenerti fisicamente attivo.
Ma se niente di tutto ciò ha molto senso, diciamo solamente che con i turni che mi ritrovo il mio unico legame affettivo è con la gravità, e ci prendiamo i nostri momenti di intimità ogni notte senza luna, intorno alle tre del mattino.
E siamo a maggio. I cieli sono tinti di ametista e verde e, come ho detto, non è possibile vedere le stelle. Di notte le foreste assumono una certa piattezza e sembrano allungarsi in un unico piano, come i campi da pascolo incolti della fattoria dove sono cresciuto. I due fari sul fondo dell'arco non sono un problema – ci cado in mezzo. Anche se non c'è la luna stanotte, sono un po' circospetto per via dell'illuminazione che lo strano cielo crea. Il BASE jumping, in realtà, è illegale negli Stati Uniti. Molti jumper si lanciano nei parchi nazionali, e i ranger dei parchi sono da sempre le loro nemesi. L'ironia della mia vita è così ovvia che non penso nemmeno sia ironia.
Prima di saltare, controllo il parco con il mio binocolo: erba rada, macchie di pini e pioppi dalle foglie larghe, sentieri di cemento che convergono al vecchio palazzo di giustizia, a ovest. Un bagliore – dietro un albero scorgo un fascio luminoso. Metto a fuoco e vedo almeno due persone che si stringono nell'oscurità. Sto per comunicarlo via radio, ma poi vedo cosa ha emesso quel bagliore: lenti di vetro. Uno di loro sta guardando in alto verso l'arco con un binocolo. Alle tre, questa notte mi ha portato qualcosa di nuovo; mi sbarazzo della mia attrezzatura e divento un ranger del parco.
L'ascensore mi porta in basso scoppiettando, e io striscio tra gli alberi e mi accovaccio dietro dei cespugli alti. Scopro tre persone – una ragazza e due ragazzi. Sono abbastanza giovani, e ricordo a me stesso di andarci piano con loro. A ventott'anni posso ancora ricordarmi il brivido dato dallo strisciare in giro di notte. Una volta avevo una ragazza che amava esplorare luoghi proibiti. I nostri nervi fervevano per qualsiasi cosa ci procurassimo, Mabel mi conduceva per luoghi bui pieni di tubature fumanti e segnali di divieto di passaggio, su per rampe di scale fino ai tetti, per finire con un bacio. Non accendo subito la mia torcia e mi avvicino, perché posso sentire le loro voci e voglio sapere cosa stanno dicendo.
Un ragazzo robusto con guance paffute e occhiali sta parlando con un ragazzo più magro con un cappellino da baseball e un impermeabile.
La ragazza, è lei che porta il binocolo, li tira giù e interrompe i due ragazzi: «Penso di aver visto un ranger lassù».
Dopo, un gemito umano fa breccia nell'aria. Mi guardo attorno e vedo l'insorgere di ombre ovunque. Oltre questo boschetto delle persone punteggiano il parco, come minimo una dozzina. Una ragazza e un ragazzo sono stesi sulla schiena, mentre la ragazza indica il cielo. Un'altra coppia sta pomiciando contro un pino, e questo spiega il gemito che ho sentito. Sono inciampato su qualche sogno di giovinezza e lussuria. Per vaghi motivi questo mi fa arrabbiare – questi giovani ragazzi si sono intromessi nel mio momento sacro e necessario.
La torcia avvampa, seguita dalla mia voce più profonda. «Che succede qui? Il parco è chiuso». Intrappolo questi tre ragazzi nel mio fascio di luce; tutti gli altri si danno alla fuga. Le foglie frusciano, e il lieve riverbero dei passi corre attraverso la terra.
Il ragazzo con l'impermeabile alza le mani, le abbassa lentamente, e fa un passo avanti. «Uhm, ciao. Sappiamo che il parco è chiuso. Ci scusiamo. Siamo qui per un compito assegnatoci in classe. Andiamo tutti alla Washington University». La ragazza mi guarda superando con lo sguardo le sue spalle.
Sono ancora arrabbiato, e non appena il ragazzo fa un passo nel mio cerchio di potere, pondero le varie angolature di kokyu nage che potrei usare per lanciare il suo corpo fra il cespugliame. «Siete entrati abusivamente»
«Seguiamo questo corso, Miti e Leggende dell'America Moderna, e, uhm, noi stiamo lavorando al nostro progetto finale... ascolta...»
Ora la ragazza prende la parola. «C'è una leggenda urbana che dice che nelle notti senza luna qualcosa vola giù dall'arco». Non posso distinguere le sfumature dei suoi occhi, ma sono pallidi. «Frank pensa che sia un ragazzo con un paracadute, ma la descrizione suona come un uccello-fantasma»
«Cosa?»
«Un uccello-fantasma. Gli spiriti del tuono dei nativi americani. Giganti, neri, con degli occhi brillanti. La gente li vede da secoli»
«Niente vola giù dall'arco»
Frank (credo) interviene, «Personalmente conosco tre persone, che non si sono mai incontrate fra loro, che mi hanno raccontato di come abbiano visto questa cosa volare giù dall'arco. Tutti e tre hanno descritto qualcosa di completamente nero, con occhi luminosi. Un altro punto in comune? Niente luna in quelle tre notti. Ho fatto delle ricerche. Seicento piedi è un’altezza del tutto plausibile per il BASE jumping. Non puoi stare a guardare per tutto il tempo»
«Sentite, ragazzini. Voi avete superato la recinzione. Questo è illegale. Siete su una proprietà del governo»
«Ci dispiace. Davvero. È solo che... sai»
«Volevamo vedere se fosse vero»
«Non lo è,» dico. «Dovete abbandonare il parco.»
Si trascinano fuori, mormorando delle scuse. La ragazza si volta e mi guarda. Cose delicate brillano sul suo viso – gli occhi, le labbra. Dopo, gli studenti spariscono.
Camminando pesantemente, torno al mio ufficio con in mente i ricordi della mia esperienza al college. Ero il primo della famiglia ad andare all'università, e mi ricordo gli studenti, simili a quei tre ragazzi – abbronzati, sorridenti, che camminavano nel cortile interno di pietra tenendosi per mano, e tutti loro avevano un taglio di capelli diverso dal mio, diversi i vestiti. Imparai che proprio non sapevo come parlare, vestire, o persino sorridere.
Mi ricordo di essermi sentito come un impostore quel primo anno, mentre mi immaginavo di essere al centro di una cospirazione, ma avevo un compagno di stanza che comprò una grande quantità di erba, e mi mostrò come rilassarmi e lasciare che il mondo facesse il suo corso. Un brivido mi attraversa la schiena al ricordo di quei giorni, prima che imparassi la necessità del controllo e trovassi la mia via.
Mentre l'ascensore mi porta in cima, la mia mente ripercorre lo sguardo con il quale la ragazza mi ha lasciato. Miyamoto dice che il vero bushi si separa dal desiderio, ma tra le ombre di questa notte i suoi occhi hanno strattonato qualcosa, che è corso giù nel mio addome, in quel posto dove il chi è conservato, e sono costretto a pensare a Mabel, così passo il resto del mio turno a praticare meditazione guidata. Nella posizione del loto, chiudo i miei occhi e mi focalizzo sul Triangolo Blu, dove io conservo il mio Io senza Ego, cercando di non ricordare la risata di Mabel e le fossette alla base della sua schiena, il sapore del suo sudore, o l'acqua viola nella vasca che la copriva durante la nostra ultima notte insieme. Le interferenze dalla cabina telefonica sibilano, e io le reprimo.
Il mattino è un rumoroso sciabordio di sole bianco, e io sento St. Louis svegliarsi mentre salgo sulla funicolare. Gli uccelli si svegliano, le chiatte si svegliano, tutto chiama qualcos'altro. Una ragazza sta ferma alla base dell'arco in una blusa bianca senza maniche, mentre il vento le avvolge i capelli castani attorno al viso, e persino prima che lei se ne sbarazzi, so già chi sia.
«Il parco non apre fino alle nove,» le dico. Lei mi guarda con i suoi occhi di un verde sbiancato; i suoi capelli sono striati da sfumature di arancione. «Posso aiutarla, signorina?»
«Sei tu, vero?» dice.
«Come, scusa?»
Il vento continua a giocare con i suoi capelli. «Tu sei l'uccello-fantasma, vero? Lo sai che c'è un sito web su di te?»
Il mattino si fa più rumoroso e sembra troppo luminoso. «Cosa?» Se continuo a mentire, quali sono le mie possibilità? Lei è molto più bassa di me, e io considero la possibilità di utilizzare un yonkyo per la pressione del nervo radiale, e renderla incosciente. Ma continuerei ad avere un problema nel momento in cui si sveglia. «Cosa vuoi?»
«Te lo dico in un secondo». Si guarda attorno nel parco e su verso l'arco. «Possiamo andare a parlare da qualche altra parte?»
Una caffetteria che profuma di burro e glassa. Indossa molti braccialetti di corda e argento su un braccio; delle lentiggini scure le macchiano il naso e gli zigomi. Il suo nome è Erica Gleason, e mi sta raccontando la storia delle fenici e degli uccelli del tuono, impegnandosi a dare una spiegazione di qualcosa che non ha ancora detto. «Nel nostro corso uno dei miti che abbiamo studiato era come, attraverso la storia, in ogni cultura, alcune delle cose inspiegabili che la gente vede sono figure ornitologiche nere, enormi cose volatili con gli occhi luminosi. Vengono chiamati in molti modi, ma molte teorie insistono nel dire che i nomi non hanno senso»
«Erica...»
«Nel senso, angeli, demoni, mostri, qualsiasi cosa»
«Erica». Mi sporgo sul tavolo. «Cosa vuoi?»
Lei perde un po' della sua boria, e io sono subito dispiaciuto per aver interrotto quella che chiaramente è una sua passione. Sorseggia il caffè e guarda fuori dalla finestra. La gente si affanna sotto i semafori. I clacson si lamentano, i freni gemono. Di solito sono nel letto a quest'ora, a prepararmi per riposare durante il giorno.
Lei si volta verso di me. «Stavo giusto per dire che sono stata delusa quando ho scoperto che si tratta semplicemente di te»
«Come l’hai saputo, a proposito?»
Lei abbassa il capo e mescola il suo caffè. «Potrei dirlo dal modo in cui ti sei comportato... E io ho visto un ragazzo vestito completamente di nero che mi guardava con dei cannocchiali da una finestra nell'arco». I suoi occhi incontrano i miei con una consolazione. «Non l'ho detto a nessuno»
«Bene. Quindi. Cosa vuoi?»
«Okay. Ecco la questione». Mette giù il suo cucchiaino. «Voglio che me lo insegni»
«Insegnare cosa?»
«Il BASE jumping»
Cerco di dirle che non funziona così. «Non si tratta semplicemente di andare là fuori e fare BASE jumping. Ci vogliono anni per accumulare la conoscenza necessaria per il primo salto. È un processo di conoscenza continua. Ci sono delle volte in cui persino io lascio perdere»
«Ho fatto paracadutismo in passato»
«Quante volte?»
«Due»
«Cristo...» Sbaglio a descrivere i suoi capelli come castani. Sono più come il grano bruciato, con riflessi rame e ruggine. «Questo sport non c'entra niente col dimostrare qualcosa. È molto personale. Della gente c'è morta. Gente molto esperta si è fatta seriamente male ed è morta. Perché vorresti farlo?»
«Perché tu lo fai?» domanda, e l'immagine di Mabel che fluttua senza vita sotto le bolle di sapone alla lavanda fulmina i miei pensieri.
«Devi prima diventare esperta di paracadutismo. E dopo, ci sono comunque altre persone che possono insegnartelo»
«Ascolta, non ho detto niente a nessuno, okay? Non ti ho né denunciato né fatto nient’altro. Cioè, perché poi me ne stai parlando? Cosa aspetti?»
Sa che, riflettendoci su, io ho già accettato. I braccialetti di argento tintinnano sul suo polso; le sue labbra sono sottili e sbiadite; le sue clavicole vengono fuori come un doloroso albatros sul suo petto. Sto pensando Triangolo Blu, Triangolo Blu.
Nel mio appartamento la segreteria lampeggia, mostrando numerosi messaggi, cosa che mi rende inquieto, perché non so chi mi stesse chiamando. Dopo dieci mesi a St. Louis, conosco un proprietario di casa, un postino, e due ranger del parco che pensano io sia un pazzo per fare il turno che faccio. In Hagakure, Tsunetomo scrive che c'è una forza profonda nell'uomo solitario.
Nella segreteria c'è la voce di mio padre. «Ethan, sono tuo padre. Non riesco a trovare tua madre, figliolo, e sto cercando di mettermi in contatto con te. C'è bisogno che tu porti dentro i cavalli»
Il messaggio successivo è di un'ora dopo, la sua voce gutturale e lenta manda fuori parole con tono nasale. «Ethan, sono tuo padre. Non riesco a trovare tua madre, figlio mio, e sto cercando di mettermi in contatto con te. C'è bisogno che tu porti dentro i cavalli. Sembra che stia per piovere». Altri tre messaggi dicono grossomodo la stessa cosa, con l'aggiunta di un suggerimento a raccogliere alcune patate e carote, così che mia madre possa preparare la zuppa vegetale. La nostra fattoria è stata venduta un po' di tempo fa, dopo che mia madre è morta.
Chiamo Green Grove e parlo con la capo-reparto di questi messaggi. Lei mi mette in attesa, e quando torna mi spiega che ieri un'infermiera temporanea stava lavorando nel piano di mio padre, e questo spiega perché lui abbia potuto fare così tante chiamate. Si scusa per l'inconveniente. Nella mia stanza mi stendo su una stuoia di bambù al centro del pavimento e metto una maschera per il sonno sui miei occhi per sbarazzarmi del sole che filtra dalle imposte. Quando cerco di visualizzare una spiaggia su cui poter allineare il mio battito cardiaco con gli intervalli delle onde, vedo invece mio padre, in una mattina in particolare durante la mia prima estate a casa dal college: all'alba io e mia madre lo trovammo fuori in un campo di semplice erba avvolto solo in un lenzuolo a guardare fisso il sole. Quella mattina la luminosità lo travolse. All'inizio pensammo che stesse scherzando, ma negli anni successivi mi sono chiesto cosa stesse guardando esattamente.
Così l'oceano nella mia mente diventa una suono di cinguettii e scriccioli all'alba nella fattoria di mio padre, e dopo Erica incomincia a indottrinarmi con gli spiriti travestiti da uccelli mentre si sbottona la sua blusa bianca. Incapace di dormire, quello che desidero veramente è gettarmi da qualcosa.
Iniziamo un corso accelerato di caduta libera. È un programma di sette passi ideato per insegnare le regole fondamentali del paracadutismo; dopo questo corso, lei ha venti salti per diventare una saltatrice principiante. Ha i soldi per tutto questo. Suo padre è un avvocato della Dowling Industrial. Iniziamo da un piccolo Cessna con motore singolo all’interno del quale l’aria sa di alluminio e petrolio. La nostra panchina sferraglia e si flette; il motore scoppietta. Oltre il portellone c'è un ruggito radioso. Mentre stiamo aspettando che ci diano il segnale, Erica guarda la sua corda di sicurezza e dice, «Ci siamo. Geronimo»
«Non dirlo. Tutti lo dicono»
«Tu cosa dici?»
Ammetto con riluttanza, «Banzai
Lei annuisce e mantiene lo sguardo fermo, duro, che non tradisce nessun timore o eccitazione o paura.
A 12 500 piedi un salto non sembra nemmeno una caduta; è più come essere al centro di un'esplosione fredda. Si può vedere la curvatura del pianeta, la sferica superficie che strattona giù. Guardo il suo corpo ruzzolare, con la tuta di lancio di un rosso brillante, le braccia arcuate sulle spalle in una forma perfetta. Si fa più piccola e penetra nelle nuvole bianche, e io la perdo. Le mie braccia vanno dritte ai miei fianchi e mi tuffo. A circa 140 miglia all'ora vedo la vela del suo paracadute, un rettangolo rosso e increspato sotto di me. Le mie guance si rigonfiano col vento.
A terra lei non riesce a smettere di sorridere, mentre guarda in alto per vedere quello che abbiamo attraversato. Esulta e ride e mi propone di andare a bere qualcosa. Le dico che si tratta solo di un afflusso di adrenalina, e che non bevo.
L'aria di maggio è spessa e pesante, intrappolata sotto quel vapore purpureo che sopportiamo. Di notte mi preoccupo. Mentre sorveglio i suoli del parco, mi chiedo chi ci sia là fuori a guardarmi. Erica mi ha detto del sito web: L'uomo uccello di St. Louis. C'è un'immagine di un uccello nero con le zanne e occhi di fuoco, con spazi per messaggi e testimonianze dalla gente che mi ha visto. Si può ordinare una t-shirt.
Il paracadutismo non ha niente a che fare con il BASE jumping. Da un aeroplano si è troppo in alto e non si ha una vera percezione del fondo.Mu, il vuoto, non è così immediato; si può pure guardarlo di sfuggita, e essere avvolti dalla gravità è più come un abbraccio che come una violenta sottomissione. Premo le mie mani contro gli occhiali e considero la caduta, e la vita sognante della città dormiente sembra incredibilmente lontana mentre il mio riflesso guarda indietro nella finestra e i fasci di luce paralleli brillano dalla base dell'arco come una scala Zen.
Cinque salti dopo Erica mi dice che sua madre è un'artista che dà lezioni in casa, e che ha perso il seno sinistro tre anni fa per via del cancro. Stiamo mangiando un gelato, mentre passeggiamo nel centro commerciale, perché ha voluto comprarsi un nuovo paio di scarpe. Dice, «Sai, speravo davvero che tu fossi un animale sconosciuto, come un uccello-fanstama»
«Lo so. Ci credi in quella roba?»
Solleva le spalle e lecca il suo cono, mentre fa oscillare la busta della Foot Locker. «Penso di sì. Probabilmente. Ci sono sempre delle cose di cui non sappiamo nulla. Una volta negli anni Venti, in Texas, c’è stata una serie di avvistamenti di un uccello nero, grande quanto una città, appollaiato sulla luna. Adoro l'idea»
Strofina via il caramello dal suo labbro con un dito e lo lecca mentre mi fa un gran sorriso, e il mio chi mi colpisce di nuovo all'addome come se avessi ingoiato una piccola bomba.
La sua scuola termina per l'estate, così iniziamo a lanciarci più spesso. Tre volte alla settimana. Incomincia la sera mentre noi usciamo dalla pista di atterraggio. Lei dice che suo padre sta facendo dei turni più lunghi in questo periodo. L'EPA[1] sta dando filo da torcere alla Dowling Industrial.
«In ogni caso cos'è quella roba?», chiedo tracciando un arco nel cielo color lavanda.
Lei mi prende la mano, e smettiamo di camminare. «Non so cosa sia»
All'inizio sono imbarazzato, perché non ho alcun mobile nel mio appartamento, e il mio letto è una stuoia di bambù con un solo lenzuolo sottile. Con la luce sempre più affievolita dalla finestra la peluria sul suo seno e sulla pancia è lucente e bionda. Il sudore si raccoglie in un’insenatura salata nel suo ombellico. La sua pelle è più scura di quella di Mabel, e pesa meno.
Una certa ansia svanisce quanto più andiamo avanti. Il tocco è delicato. Come lo ricordavo, ma diverso.
«Dimmi della tua prima volta» mi dice, il viso arrossato e luccicante, le punte dei suoi capelli attaccate al mio petto.
Le dico del salto dal Bethel Bridge, nel Cypress Park. Non faccio parola della mia perversa curiosità di quella mattina, la chiara idea che avevo, mentre facevo penzolare i piedi dal ponte, di tenere stretto il paracadute piegato per tutta la discesa, e non lasciarlo mai andare dalla mia mano.
«Davvero», dice. «Perché hai iniziato a farlo?»
Sollevo le spalle e fingo di aver sonno. Non faccio parola della notte di quattro anni fa quando ho comprato per Mabel mezzo grammo di eroina e che lei è morta e scivolata nella vasca sotto l'acqua del bagno che avremmo dovuto far insieme quando sarei tornato a casa.
Vorrei spiegare che non sono semplicemente un ricercatore del brivido – che l'arco è il nesso tra la civiltà e le lande selvagge, e lì io occupo uno spazio tra spazi, dove la città e la foresta sono separate da una geometria perfetta di solido acciaio. Ma non parliamo, e quando chiudo i miei occhi, dalle fessure di uno scarlatto bruciante erompono e crepano la perfetta simmetria del mio Triangolo Blu.
La mattina successiva chiamo mio padre alla Green Grove. Lui mi pone le stesse due domande per quattro volte.
Erica vuole che io vada a conoscere sua madre e a «vedere una cosa». Posso indovinare cosa.
Sua madre, Carol, ha i capelli dello stesso colore di quelli di Erica, ma molto più corti. Lei mi chiede come sia lavorare nel serivizo di sicurezza del parco e mi guarda con gentilezza mentre mi descrivo come un amante della natura. Erica è calma. Quando guarda sua madre, entrambe non mantengono il contatto visivo per molto, e io trovo alcune somiglianze nei loro visi. Carol mi chiede dei miei hobby e ha uno sguardo distante nei suoi occhi. La sua voce sembra tremare quando parla; si tocca con assenza un orecchino, come se sia preoccupata di qualcosa ma non vuole crear disagio a nessuno. Mi ricordo che ha perso un seno quando era malata.
Il giardino nel retro è elaborato e ben curato. Un piccolo ruscello ci passa attraverso gorgogliando. Prendo un lungo respiro e confesso, «Non voglio che tu lo faccia».
La sua bocca si apre, ma prima che lei possa rispondere le dico «È troppo pericoloso» e cerco di prenderle la mano.
Lei incrocia le braccia e fa un passo indietro. «Sto bene così. Di cosa stai parlando?». Dalla finestra della cucina è visibile la nuca di sua madre. «Da dove ti viene?»
«È troppo presto. È troppo presto e troppo pericoloso. Non voglio che ti accada nulla». Non faccio parola del fatto che non posso sopportare di uccidere un'altra ragazza.
Il piccolo ruscello sciaborda fra di noi. «No», dice. «Ho ancora intenzione di farlo. Dimenticatelo. Lo farò». In seguito, mi dice che non verrà al nostro appuntamento a 10 000 piedi di altezza, e so che non saremo mai più insieme su un aereo. Mi accompagna nella sua camera da letto, dove la sua attrezzatura è sparpagliata sul pavimento.
«Questo è quello che volevi farmi vedere?»
È una vela Ace 240 e una sacca Perigee II. Neri. «Proprio come i tuoi», mi dice, e si muove verso di me. «So come si fa», mi dice. «E potrei farlo. Ma ti sto chiedendo di farlo per me»
«Dai, Erica, per favore». Mi permette di stringerle le mani.
«Lo farò comunque, okay? Sia che tu lo faccia per me o no. Ma mi fido di te». Mette la sua testa sul mio petto. «Voglio ancora farlo, ma mi fido di te, okay?»
Annuisco.
Faccio ruotare il Perigee II sul pavimento, le imbracature sono verso il basso, e ripongo con solennità il fascio funicolare. È un’attività seria. Divido i gruppi di funicelle e tiro lo slider su per la vela, osservando che il bordo superiore della vela sia appeso tra mie ginocchia e che il bordo posteriore invece sia lontano da me. Lei si siede sul letto guardandomi alle spalle. La stanza profuma di lei, come una giovane, vivace ragazza: alcune combinazioni di fiori e cipria, lozioni e frutta.
Continuo a lavorare con il tessuto tra i gruppi di funicelle fino all'esterno delle funicelle stesse, e continuo a scandagliare in quel modo ogni porzione della vela. È come ripiegare una fisarmonica. L'idea è quella di mantenere tutti i punti di attacco delle funicelle verso il centro della sacca di contenimento, con la tela ripiegata verso l'esterno. Il letto cigola alle mie spalle, e i suoi polpastrelli mi massaggiano la nuca. Ridefinisco con cura le pieghe precedenti. Prendo il centro del bordo posteriore e lo porto in alto e lo tengo sotto il mio pollice. Dopo fascio la parte posteriore e la ripiego su se stessa. Ripongo le funicelle nella tasca inferiore e posiziono la vela nella sacca. Dopo respiro.
Lei mi bacia in testa. «Grazie»
Dormiamo separati questa notte, e io passo due ore nella posizione del loto con la schiena eretta, definendo mentalmente il mio cerchio del potere, cercando di ricostruire il mio Triangolo Blu.
Le primissime luci di un sole che sorge. Una falsa alba dopo che la luna svanisce. Ora i gas nell'aria hanno finalmente iniziato a stabilizzati, così sebbene il cielo sia di un indaco abbastanza normale, la spessa nebbia sotto il Bethel Bridge è opalescente, scintilla di rosa e viola. Lei indossa dei pantaloni larghi e neri e una canottiera, con il Perigee piegato sulla sua spalla, imbottiture sulle sue ginocchia, i capelli nascosti nel caschetto. Anche io ho addosso la mia attrezzatura.
Entrambi guardiamo giù nella nebbia, che luccica e ondeggia sotto il ponte. Gli alberi di pino e gli arbusti sono silenziosi; ogni cosa esiste sotto una sottile, offuscante coltre di aria colorata che ci separa.
«Non si può nemmeno vedere il fondo», le dico.
Lei sta guardando in basso. «E quindi? Conto fino a tre, giusto? E lo vedrò quando sarò laggiù»
«Vorrei non farlo». Le mie mani cominciano a tremare non appena lei sale sulla ringhiera. «Erica...»
«Non devi per forza. Io sì. Ci vediamo giù»
Ha fretta, ingoia i respiri e non riesce a smettere di guardare giù. I suoi occhi sono nel panico, e mi ricordano quelli di sua madre. Dopo, quando noto quella somiglianza, capisco cosa ci sia fra di noi, cosa deve averla spinta verso di me e il vero motivo per cui siamo qui fuori.
«Erica, aspetta. Se pensi che questo ti salverà dall’aver paura... non lo farà. La paura non si ferma. Non lo farà mai»
Lei mi guarda confusa e scuote il capo. «Cosa? Io non... non ho mai detto una cosa del genere». I suoi occhi rimangono fissi sulla nebbia scintillante. «Non l'ho mai detto».
Si alzano rumori di sottofondo: uccelli cinguettanti, cose che si azzuffano sugli alberi e che frusciano nell'erba. L'intelaiatura comincia a rimbombare per via delle macchine in lontanza.
Sulla punta della struttura lei afferra il suo pilotino, le sue nocche sono bianche. Mi guarda e finge un sorriso. «Okay. Ci vediamo a terra». Prende un enorme respiro e si lancia, lasciando uno sbuffo di nebbia che rimane lì dove lei l'ha formato.
Mi precipito sulla ringhiera e guardo giù. No, ascolta, vorrei dire. Quello che noi pensiamo sia un gesto di libertà, vedi, è sintomo della nostra gabbia. Ma lei è andata. Non riesco a vedere oltre la foschia, il buco che lei vi ha fatto si è già richiuso, e mi arrampico sulla cima dell'intelaiatura.
Cosa posso fare se non seguirla fino in fondo?
Prima degli esseri umani qui c'era un fiume profondo, che trasportava tonnellate di vita tra gli oceani. Ora la nebbia oltre il ponte concede solo un solco acciotolato di fredda, secca pietra. Un giardino sotto il gas viola. Le rocce colpiscono i miei piedi quando eseguo il mio atterraggio perfetto.
Al suolo lei è sulle sue ginocchia, la vela le sventola attorno. Il mio paracadute mi segue strisciando come una bandiera nera. Siamo piccoli tra le felci giganti e l'edera che cresce all'interno dei muri frastagliati in questo abisso. La sollevo e comincio a toglierle l'imbracatura. Sta tremando. Si allunga verso la mia schiena per togliere la mia. Una lacrima le riga il viso dietro gli occhiali di protezione. Mi dice che credeva di essere sul punto di morire. Le cinghie scorrono verso il basso e io sento la morta resistenza del mio paracadute scivolare via.
Promettiamo di non farlo mai più.
Compro un materasso fatto di gel che promette di dar sollievo alla sagoma della mia schiena. Compro lenzuala di cotone. Erica mi porta più cuscini di quanti nessuno ha mai avuto bisogno. Cambio i miei orari così lavoro solo per tre turni di notte.
Erica vuole che le insegni le arti marziali, così uso il mio salotto vuoto per mostrarle le figure di aikido che conosco. Tutti gli atterramenti di kokyu nage finiscono con noi che lottiamo e ci sporchiamo sulla moquette.
A lavoro continuo ad apprezzare la vista, ma quando contemplo il Mu e l'obbiettivo del bushi di unirsi al vuoto, i miei piedi sono pesanti. C'è un rimbombo nervoso nel mio stomaco e una leggera vertigine quando guardo giù dalla finestra del mio ufficio. Per quanto riguarda la mia realazione con la gravità: Incomincio a chiedermi se sia mai esistita, dal momento che "gravità", dopo tutto, è solo un nome dato a un particolare fenomeno. Medito sull'isolamento come regola fisica che governa questo universo: la massa attrae altra massa perché la singolarità non è naturale, senziente o no, e l'unità base della vita non è una, ma due. I pianeti e le lune si formano, e le persone si congiungono perché qualcosa nel cosmo cerca di mantenerle unite. Oltre l'arco una tenue tonalità di lilla nell'aria è tutto ciò che rimane di quello che prima era una nuvola pesante che distorceva i nostri cieli in questi ultimi due mesi. La Dowling Industrial ha finito col patteggiare con l'EPA per cinque milioni di dollari e un nuovo sistema di ventilazione che potrebbe risucchiarti gli occhi dalle orbite.
Per la fine di luglio, il padre di Erica lascia la madre.
L’ingresso al Green Grove è falsamente antisettico. La carta da parati rosa e il tappeto sono decenti, ma le piante sono di plastica e una musichetta di sottofondo suona a volume sommesso. La signorina Teschmaucer, la capo-reparto, si avvicina con compassione. Le infermiere al Green Grove indossano delle uniformi celesti con grembiuli blu scuro, e profumano di infermiere, di sapone Ivory e di alcool disinfettante.
Lei mi prende per un braccio e mi accompagna attraverso gli anziani sorridenti, che mi guardano come se io potessi essere qualcuno che una volta hanno amato. «Voglio solo che sia preparato», mi dice, dando un colpetto al mio gomito.
La stanza di mio padre è otto per quindici metri quadrati con i muri beige e una moquette color salmone. Due sedie alte formano una V a sinistra della televisione, che è posizionata su un cassettone di legno standard. Una libreria contro un muro, con alcune foto di mia made e me e i suoi genirori, una Bibbia, alcuni fiori. Il suo letto è fatto alla maniera militare, le lenzuola così tese che ci si potrebbe rimbalzare. Lui ha rifatto così il suo letto per tutta la vita, e mi chiedo se certe cose spariscono veramente, azioni che sono così giuste che non possono essere mai disimparate, non importa cos'altro si dimentica.
Si siede su una sedia a dondolo, indossando la sua vestaglia e il suo pigiama, guardando fuori dalla finestra nell'angolo più lontano della stanza.
«Jacob?», dice la signorina Teschmaucher, guidandomi verso di lui. «C'è Ethan. Tuo figlio, Ethan».
Si volta dalla finestra e guarda in alto verso di me. Il volto di mio padre è una superfice perdutamente allargata di carne e macchie cutanee; ha una mascella ancora prominente e un rimasuglio di capelli bianchi tra la calvizie sulla testa. I suoi occhi blu esaminano lo spazio dove ci troviamo. Lui sorride lentamente e annuisce. La sua mano, secca, tirata, si allunga ad afferrare la mia.
«È' bello vederti... davvero bello», dice, con quel tipo di tono di voce che non si userebbe se non per fingere.
«Ciao papà»
Si volta verso la finestra e ispeziona il bucolico spazio verde che assomiglia a un parco, posizionato nel cuore del complesso di Green Grove. La signorina Teschmaucher e io ci scambiamo degli sguardi, e dopo mio padre tocca la mia mano.
«Sono preoccupato per il prato là fuori. Sembra secco questa stagione».
Mi accovaccio accanto a lui e osservo fuori dalla finestra. «Non è poi così male». Emana lo stesso profumo: tracce di cologna di Brut che si spruzza ogni giorno da quando lo conosco. Gli metto un braccio attorno alla spalla.
Mi chiede, «Conosci Susie Frenesi?»
«No,» gli dico.
Si volta verso la finestra, poi di nuovo verso di me. I suoi occhi brillano di una gioia improvvisa. «Bill? Dove sei stato?»
Prima, avevo uno zio di nome Bill, il fratello più piccolo di mio padre.
«In giro. Sai»
«Sono preoccupato per l'erba là fuori»
Mentre raggiungiamo l’ingresso, la signorina Teschmaucher dice che questa deteriorazione continuerà e che non dovrò sentirmi ferito dalla sua incapacità di ricordare chi sono. Non sono ferito. Lui è il primo a cui tutto sia stato gradualmente rimosso, la sua identità è andata via, anni caduti come la pelle che viene mutata in preparazione per una nuova primavera. Non appena esco dall'edificio, guardo mio padre vicino alla sua finestra ispezionare il prato, e io ho l'improvvisa visione del Mu che lo chiama, il luminoso vuoto che si avvicina a lui con una presa abile e sinistra, portando nella sua luce tutto quello che lui era una volta.
È il momento che le cose siano portate via.
Il momento in cui ho trovato una brochure per il Bridge Day fra i libri di testo di Erica. Il Bridge Day è l'incontro annuale di tutti i praticanti di BASE jumping a Fayetteville, nel West Virginia. Per un giorno a Ottobre il BASE jumping è reso legale sul New River Gorge Bridge.
Lei torna nella sua stanza indossando una canottiera e dei jeans, i suoi capelli tirati indietro, e le sue guance leggermente incavate. Ha perso peso.
Brandisco il volantino. «Non avrai intenzione di farlo sul serio, vero?»
Lei alza le spalle e comincia a raccogliere delle cose, spostando vestiti larghi lì in giro e sistemandoli nei cassetti.
«Ehi. Non lo farai, vero?»
Lei mi guarda e si lascia andare sul suo letto, gettando un braccio sui suoi occhi. «Non lo so. Ci stavo pensando»
«Pensavo che avessimo chiuso con tutto questo. Pensavo ne avessimo già parlato»
Continua a tenere un braccio sugli occhi. «Tu non devi fare nulla che non vuoi», dice. Non cambiando posizione, con una mano usa un telecomando per accendere lo stereo. I Pixies cominciano a cantare troppo forte per una conversazione.
Quella notte non prendo pace nel mio materasso nuovo e oscenamente comodo. I miei pensieri si concentrano sul corpo di una ragazza che cade attraverso lo spazio, con un paracadute che si apre un secondo più tardi per poterne fermare la caduta. Il suo corpo si spezza sulla roccia e sulle pietre, la vela le si poggia dolcemente sul corpo. La gente si ammassa intorno, e quando quel sudario le viene tolto, il volto che io vedo è quello di Mabel. Mi fa male lo stomaco, una serie di crampi che non sentivo da quando ho avuto la mia prima crisi d'astinenza, quattro anni fa.
Dormo sul pavimento.
È un momento di transizione, quando gli occhi dell'estate si chiudono e inizia l'autunno. L’I Ching mi dice che il mio Yin dominante è Terra su Fuoco, che significa “Ferita all'Illuminato”. Confucio consiglia «È di beneficio essere determinato ad attraversare l'angoscia».
Poiché me l'ha chiesto, preparo il paracadute di Erica in vista del Bridge Day. Dopo le dico che non potremo mai più rivederci.
Si arrabbia. «Cosa? Dici sul serio? Solo perché non farò quello che mi hai detto di fare?»
Vuole provocarmi, ma nella mia mente sono un perfetto Triangolo Blu, e il mio cuore è calmo, un lento muoversi di onde in una spiaggia interna. «Perché non voglio essere lì alla tua morte»
«Cosa? Alla mia...» Alza le braccia. «Nessuno è mai morto al Bridge Day»
«Non è vero. Nel 1983 e 1987»
Erica mette le mani sulle anche e guarda con sarcastico disgusto. «Pazienza. Non ho intenzione di essere come qualche folle BASE jumper. Cioè, guarda chi sta parlando. Qual è il tuo problema?»
Il mio Triangolo perdura. Sono un ordine di tre linee perfette, battendo di un color zaffiro freddo. «Non posso perderti» e quello che sto pensando è, Sono stanco che tutti scompaiano.
«Quindi, okay, aspetta». Si siede sul letto e crea un piccolo riquadro con le mani. «Per evitare di perdermi, tu mi lasci?»
Non mi aspetto che ne capisca la logica. Mi chiama codardo. Dice che sono io quello impaurito. Mi volto per andarmene, e lei mi dice che sono come un drogato: Non so fare i conti con la vita e quindi mi isolo con abitudini e idee. Dice che sono il Frankestein della filosofia orientale. Non mi volto di nuovo, perché non penso che ci possa essere altro da dire.
Cosa puoi dire a qualcuno che ami che non sa tollerare le proprie paure?
Faccio un salto al Green Grove durante la giornata, e riconosco mio padre seduto alla sua finestra mentre guarda i rami degli alberi che frusciano per via degli scoiattoli. Non penso spesso a lei.
Un giorno mio padre non è alla sua finestra. Guardo, faccio un'inversione a U, ci passo di nuovo, ma dove c'era lui vedo solo una lastra luminosa di vetro che riflette il sole. So che al momento deve essere da qualche altra parte a Green Grove, eppure mi fermo per osservare, e in quel quadrato piatto e splendente della finestra sento di poter vedere mio padre, forse per la prima volta, con assoluta chiarezza.
Riprendo i miei vecchi turni a lavoro.
Guardo fuori dalla finestra quando arrivano le tre del mattino, mentre stringo la mia imbracatura. Attraverso il vetro, le foreste rimangono ancora misteriose, si allungano senza limite nell'oscurità, mentre dall'altro lato dell'arco una città batte luminosamente, ribolle e vibra con taciti movimenti. Sollevo la sciarpa a coprirmi il naso e abbasso le lenti dei miei occhiali per la visione notturna, e il mondo diventa un'idea confusa di spettri color smeraldo. Ora mi dico che non sto sormontando i sogni della mia cultura, ma che vi sono immerso.
Sono come quel gigante nero appollaiato sulla luna, un'idea che esiste fra la diceria e l'immaginazione, la forma che si spera di vedere quando ci si azzarda a guardare in alto in cerca di qualcosa a tarda notte.
Ora sono come un mito, un UFO, un uccello della tempesta, e questo ruolo si porta le sue concessioni, la sua promessa di rituali e referenza, mentre in basso, da qualche parte nella zona selvaggia o negli appartamenti lungo il fiume, con i telescopi puntati fuori dalle finestre, le persone aspettano di vedermi, pronte a modellarmi in qualsiasi cosa loro decidano di credere che io sia. Apro la finestra e lascio che la mia gamba scivoli fuori. Il vento mi accarezza. Stringo il pilotino.
Ora sono un fantasma.
Banzai.


venerdì 23 dicembre 2016

Tra qui e il mar giallo di Nic Pizzolatto

Tra qui e il Mar Giallo


Interstatale 10, dopo mezzanotte, diretti a ovest. El Paso, ora. Il coach Duprene dice di poter guidare fino al mattino. Scivoliamo in avanti su un asfalto vuoto, ma io sto guardando Amanda, raffigurandone l’aspetto dei tempi del liceo: col seno piccolo in un’uniforme da cheerleader, capelli castano ramato, occhi verdi, lentiggini spolverate sul naso. La steppa lascia il posto al deserto, con colori viola e arancione appena percettibili, allucinati. E una tale immensità notturna su una terra piatta e monotona mi fa capire perché certe persone possano aver paura degli spazi aperti.
«Lo vedi?» chiede il coach.
«Cosa?»
Usa una bottiglia di Jose Cuervo per tracciare un arco sul parabrezza. «Tutte le stelle sono sparite. S’è fatto buio pesto».
Mi sporgo dal finestrino, nell’aria esplosiva, e lui ha ragione. Attorno a noi non c’è altro che oscurità e, sebbene il cielo sia invisibile, so che sta per arrivare un temporale. «Sta per piovere».
Mi passa la tequila. «Come fai a saperlo?»
Picchietto la cicatrice sotto il mento. «Mascella rotta».
Il metallo nella mandibola inferiore si contrae, cosa che succede solo quando l’aria è satura di elettricità. Ho una X di acciaio cucita nella mandibola perché quando avevo quattordici anni, convinto delle mie potenzialità, cercai di entrare nella squadra di football. Fu sette anni fa. Il coach, allora, era ancora il coach dei Port Arthur Toreadors. Non avevo mai fatto nel passato delle audizioni, ma sono andato a molte partite. Io ero il ragazzo seduto tranquillo, che si intravedeva tra i padri urlanti, e che stava di fronte al campo per guardare le cheerleader in rosso e blu che saltavano e battevano le mani. La mia cheerleader preferita era la figlia del coach Duprene, Amanda. Dalla pelle di miele. I suoi occhi si chiudevano quando sorrideva. Il tipo di cheerleader che prestava attenzione, anzi si preoccupava del punteggio. Seguiva la partita mentre il resto della squadra agitava i capelli o discuteva di cosa indossare per la festa seguente.
«L’hai detto», dice il coach, e io mi chiedo se non stessi pensando ad alta voce. Lui annuisce al parabrezza schizzato dalla pioggia. Sono abituato a pensare ad alta voce, soprattutto quando mi sposto col furgone. In questo periodo, lavoro ancora per la Lone Star Environmental, a Port Arthur, e i miei giorni trascorrono guidando per le strade con una lavagna, annotando i livelli di fosforo e ammoniaca negli spartiacque, assicurandomi che i contadini non vadano a spargere la merda delle galline sui loro campi. La sera mi si può beccare al Petro Bowl o da Chili, mentre cerco di offrire da bere a maestre delle elementari e segretarie, ma a lavoro guido da solo, dalle cinque alle sette ore, e in quei giorni tendo a narrare i miei pensieri, trasformando le mie osservazioni in racconti. Rilke scrisse «Ama la tua solitudine, per la solitudine è difficile». Ricordo a me stesso di non pensare ad alta voce.
La pioggia diventa più intensa, e prima di raggiungere Las Cruces un torrente straripa, nascondendo la strada sotto una coltre d’acqua. Il metallo si contorce nell’osso della mandibola. I tergicristalli non fanno granché, e il coach accosta, strizzando gli occhi. Prende una pillola da una bottiglietta di plastica marrone.
«È abbastanza tardi». Manda giù la pillola. Ci stendiamo sui sedili, mentre la pioggia martella. Si accascia contro il finestrino e si tira giù il cappellino da baseball. Il coach non è più un coach, ma riceve comunque uno stipendio generoso dalla Port Arthur High, e mantiene il titolo onorario di coordinatore sportivo, che è quello che si ottiene nel Texas orientale con otto vittorie del campionato di distretto e tre titoli a livello nazionale. Lo guardo respirare, rilassato, mentre la pioggia fa sembrare i finestrini dei torrenti, e cerco di collegare l’uomo che dorme così tranquillamente al mio fianco con l’uomo che conoscevo un tempo, il furioso comandante dal viso granitico sugli scalini dell’atrio, sui bordi del campo. Cerco di capire come abbia fatto ad arrivare a questo punto. Lo faccio perché, in questo periodo, una delle mie principali abitudini è quella di cercare collegamenti causali, scovare delle storie, e passo un sacco di tempo a combinarle col passato, come se le risposte fossero lì. Sono in un periodo in cui mi muovo in tondo, e in cui do per buone le parole dei poeti e degli uomini famosi. Ho finito il liceo da quattro anni, vivo nella casa che mia nonna mi ha lasciato e fino a quando il coach e io a un certo punto non raggiungeremo Los Angeles, non smetterò di cercare risposte.
La mia guancia riposa contro il finestrino, perché è freddo, e allevia il pulsare della mia mascella. Il coach comincia a russare.
Ero lì il giorno in cui lei andò via. Tagliavo i prati all’epoca, e la domenica lavoravo nel giardino accanto alla casa del coach Duprene. Una Chevrolet Blezer rossa parcheggiata sul loro vialetto di casa. In quel pick-up c’erano quattro ragazzi della scuola che conoscevo. Il cassone finì con l’abbassarsi per via di scatoloni e borse, e una tavola da surf. Il liceo era finito, e loro si stavano tutti trasferendo in California. Il coach Duprene stava a osservare dal portico, e non salutò con la mano quando il pick-up scivolò via.
Qualcuno, ora possiamo dirlo, avrebbe dovuto fermare quella Chevrolet. Non è un segreto. Lei gira dei film sotto il nome di Mandy LeRock. Ne ho visto solo uno.
Lampi di luce sulla pianura illuminano il mio riflesso sul finestrino piovoso, e mi rendo conto che non sto raccontando tutta la storia. Ci sono due storie qui. Nella prima ci sono io seduto accanto al coach Duprene nel suo pick-up. Stiamo guidando verso Los Angeles per rapire sua figlia.
Nella seconda storia, il riflesso sul vetro, sono un adolescente di nome Bobby che vive con due donne di generazioni diverse, una madre e sua madre, in una vuota landa di pascoli. Quel ragazzo dorme in una stanza senza aria condizionata e taglia i prati per avere una paghetta. È uno studente e un atleta, ma segue solo le lezioni. I suoi voti sono buoni e, nel suo taccuino, disegna sempre lo stesso disegno da ogni prospettiva: un cacciatorpediniere della marina militare mentre subisce il contrattacco a largo della costa del Vietnam del Sud.
Ciò che unisce le storie, il loro collegamento causale, è Amanda Duprene. Eravamo compagni di laboratorio al primo anno. L’ora di biologia è dopo pranzo. Non posso reggere gli esercizi di dissezione, così Amanda si occupa del taglio. Trovo rifugio dall’ammoniaca e dalla formaldeide nel profumo dei suoi capelli e del suo corpo: shampoo, creme, sudore. Il venerdì indossa la sua uniforme da cheerleader. Gran parte di questi lunghi giorni sono alleviati dalla vista del sole che si muove sulla parte posteriore delle gambe di Amanda, da l’una fino alle due del pomeriggio. Questa è la ragazza che sto cercando.
Dopo si verificherà una seconda ricerca.
Sarà compiuta una volta tornati a casa, tramite un’agenzia investigativa di Huston la cui specialità è rintracciare la gente. Si chiama Reunions, Inc.; mi costa 300 dollari e si prende due mesi per dare risultati. Il loro rapporto mi viene inviato via posta in una busta da lettera bianca con stampato sopra il logo della compagnia: due palmi che sorreggono tre persone che si tengono per mano sotto un sole giallo scintillante.
Per ora, dunque, fuori da Las Cruces, sembra che siamo parcheggiati sotto una cascata. Il coach russa. Avrei dovuto portare qualcosa da leggere. Questo è l’accogliente e familiare isolamento che provo a lavoro, quando mangio il mio pranzo nella cabina di un furgone, e leggo, diciamo, un libro di Saint-Exupéry sui piloti nel deserto. Dopo guido il furgone della compagnia per strade sporche che si allungano per miglia e miglia senza incontrare un’abitazione, nebbiosi campi di sparti dorati e grano maturo che si estendono fino all’orizzonte; controllando nelle falde acquifere i picchi di ammoniaca e la fioritura di alghe; girandomi verso il posto vacante accanto al mio a raccontare storie.
La campagna s’increspa con colori incandescenti. Le superfici danno l’impressione di esser state ripulite con degli esplosivi. Ci siamo dati una rinfrescata in un’area di sosta per camion a Tucson, e sto classificando le cose che vedo grazie alle brochure che abbiamo preso lì. Cactus cholla e piante grasse del deserto. Artemisie. Atreplici. Tutte le nuvole sono accatastate su una cima in particolare delle montagne della contea di Manicopa, come un ritratto di un vulcano. A Theba decidiamo di pescare la nostra cena. È pomeriggio inoltrato; una sottile diramazione del fiume Gila divide un campo di alte sterpaglie.
Il coach incomincia a immergersi in una pila di incerata e arnesi nel retro del suo pick-up. «Sai fare un lancio a bobina aperta?» mi chiede.
«No. Non so niente di pesca».
«Davvero?».
«No».
«Bene. Cosa sai?».
«Niente».
«Credo di avere una bobina chiusa qui. Come è possibile che tu sia cresciuto a Port Arthur senza imparare a pescare?»
Sollevo le spalle e lascio che il coach scuota la testa mentre scava in cerca di una canna da pesca. Come dovrei rispondergli? Dovrei raccontargli delle storie su cosa significa crescere ascoltando i ragazzi che raccontano storie di pesca? I termini che usavano erano per me come segrete parole d’ordine: i leader, lo streamer, lo spinning. L’erba è alta e soffice. Il torrente fa un rumore acquoso e raccoglie la luce.
Il coach trova una canna da pesca e dice «Preparerò la lenza per te».
Mi mostra come applicare un peso fatto di pietra. Mi spiega il miglior modo per mettere una salamandra brillante ed elastica sull’amo. Il lancio col mulinello rotante è semplice. Do uno scatto col polso e la salamandra vola, tracciando un filamento luccicante. Ed eccoci qui, il coach Andre Duprene e Robert Corresi che pescano – illegalmente, credo – tra gli alberi di Yucca e pietre colorate. Guardo i polsi dell’allenatore, il modo con cui le sue mani richiamano la lenza non appena è stata lanciata, e imito i suoi movimenti.
Qualsiasi coach dirà che l’imitazione e la ripetizione sono delle tecniche di apprendimento fondamentali. Ma cosa potresti imitare se fossi un ragazzo che per diciassette anni si è svegliato in stanze soffocate da profumi e cipria? Diciamo, per esempio, ogni volta che i tuoi vestiti venivano stesi su un filo, erano attorniati da reggiseni e mutandine rigonfie – quelle di tua madre, striminzite e di pizzo; quelle della nonna allargate e grandi quanto vele. Diciamo che certe cose erano sempre alla periferia dei tuoi sensi: l’odore di calze da donna bagnate, il rosso dei rossetti, le confezioni dei tamponi. Ti sei scottato un’infinità di volte su arricciacapelli dimenticati in giro.
Un sacco di volte eri nervoso e non sapevi perché. L’ora di biologia è il momento più importante dei tuoi giorni. Ore ad aspettare l’autobus dopo la scuola, le cheerleader a guardare gli atleti, quei bei fusti pieni di grazia nei movimenti in campi bruciati dal sole.
Nella primavera dei tuoi 14 anni, due settimane dopo aver letto In our time, fai un’audizione per la squadra di football, e Eric Dempsey ti rompe la mandibola. L’autunno seguente, la mamma di Amanda muore.
Sono così perso in queste fantasticherie che la canna quasi mi schizza dalla mano. «Ehi, Ehi», dico, e l’allenatore mi dice di sollevare, tirare la canna e riavvolgere la bobina. La lenza lampeggia, muove l’acqua, si ferma. Si allenta e risale, e la salamandra è stata strappata via. Il coach tiene su l’amo.
«Ha una cosa che ti appartiene. Quando senti strattonare, tira, fai in modo che abbocchi all’amo. Dopo lavoratelo un po’. Lascialo divincolarsi, e fai in modo che l’amo scavi fino in fondo». Il coach mette un’altra salamandra sull’amo e ritorna al suo posto, circa 50 piedi più in là. Quello strattone alla lenza mi rallegra. Per il resto della sera tengo la canna tra le mani, sorridendo come un idiota. Il coach prende due trote, io ne perdo altre due.
Le cuciniamo su un fuoco che il coach ha acceso in una radura. Trova delle salse piccanti sotto alcuni vestiti nel suo pick-up. Il sole è quasi sparito. Ora sono le nove. Sfumature di blu.
«Ha un buon odore» dico.
«Sono buone». L’allenatore ha un’altra pinta di Jose Cuervo. Il pesce scoppietta e crepita. «Bene», dice, «credo sia meglio mettere le cose in chiaro su come abbiamo intenzione di farlo».
Annuisco. Il fuoco rende i nostri visi arancioni e tremolanti.
Ci salta in mente di individuare l’indirizzo preso dalla videocassetta che posseggo. L’indirizzo appartiene all’American XXXtasy, la produzione dei film di Amanda. Incominciamo da lì. Trovarla. Il coach ha rubato il cloroformio dal laboratorio di chimica. Dopo, dice, assumerà qualcuno per la deprogrammazione. A quanto pare, negli anni ‘70 si è dovuto deprogrammare molte persone, e il coach ripone molta fiducia in questa idea.
Ci sediamo intorno al fuoco che si affievolisce, dividendoci la seconda pinta di Jose Cuervo della notte. Non sono abituato a bere roba forte. Di solito si tratta solo di una Heineken, mentre cerco di parlare con le segretarie al Petro Bowl, tra il martellante fracasso dei birilli. «Da dove continuano a venir fuori queste bottiglie?»
«Sono andato a comprarle prima di partire». Si accende una sigaretta. Il coach indossa dei buoni stivali da cowboy, in pelle d’anguilla bordeaux, e una camicia di jeans che aveva da quando era più magro. Ha conservato una testa piena di capelli rossicci e grigi, ancora tenuti nel suo taglio militare. Mi passa la bottiglia. «Mi hai detto che tuo padre era un militare?»
«Della marina», tracanno la tequila.
«Ero un pilota di jet, sai».
«Lo so».
Fa un lungo tiro alla sigaretta. «E cosa gli è successo?»
«L’USS Mullinix. Si è beccato il contrattacco mentre ricatturavano Quang Tri. Mio padre era sottoufficiale. Non l’ho mai conosciuto». Questa è la storia a cui ho creduto per gran parte della mia vita, e mi sento ancora a mio agio nel raccontarla. «Travis Corresi era uno dei cinque uomini dispersi».
«Maledizione», dice l’allenatore con malinconia, sollevando la bottiglia.
Solo cinque mesi fa, morendo di cancro al pancreas, mia nonna mi ha detto che Travis Corresi non ha mai servito sull’USS Mullinix. Era solo un marinaio mercantile fermatosi a Port Arthur per una settimana nel 1973, quando mia madre aveva quindici anni. Sono usciti insieme solo una volta.
Il coach cicca la cenere nel fuoco. I suoi occhi brillano tra una ragnatela di rughe, e io riesco a immaginare un evento per ogni linea disegnata: volare in Vietnam, allenare i Port Arthur Toreadors per quindici anni, perdere una moglie di nome Marguerite di encefalite, perdere nello stato della California l’unica figlia. La pelle attorno ai suoi occhi è un catalogo di delusioni cesellate nella pelle. Prende il Vicodin ogni due ore. Penso che le cose sarebbero state meglio per lui se avesse avuto un figlio.
Cambiamo discorso per parlare del giorno in cui mi sono rotto la mandibola.
«Me lo ricordo», dice. «Eri tu?», fa un gran sorriso. «Accidenti ragazzo, Dempsey ti ha sistemato bene, eh?»
Riporto la conversazione su Amanda. Incominciamo a bere più velocemente.
La sigaretta trema tra le sue labbra. «Sai, Aveva in sé della gioia pura. Maggie diceva» – fa un lungo tiro ed espira – «quella è una ragazza felice».
Annuisco. «Era sempre allegra».
«Beh». Corruga il viso. «Ma aveva un carattere. Le cose dovevano andare per forza così». Il coach fa un gesto affettato con le dita. Il nostro fuoco arde sotto le ceneri, il bagliore rosso sta morendo. Rimaniamo in silenzio finché non butta fuori il fumo e parla espirando con evidente sforzo. «Non verremo condannati da nessun tribunale».
«Assolutamente». Ricordo di aver detto la stessa cosa due notti fa, durante la conversazione da cui tutto questo ha avuto inizio. Stavamo entrambi bevendo da soli al Petro Bowl, e ho visto un ragazzo alto con una giacca da baseball lasciare un gruppo di adolescenti e avvicinarsi al coach alla fine del bar. Quei ragazzini sghignazzavano mentre guardavano il loro amico porre una domanda al coach. Il coach ha preso per la gola il ragazzo e l’ha lanciato su un tavolo. Ho tirato via il coach, e lui ha continuato a divincolarsi nella mia stretta finché non gli ho detto in un orecchio «Coach, coach. Anche io l’amavo» Abbiamo finito col prendere una bottiglia e sederci nel suo pick-up, a ricordarla ad alta voce.
La testa del coach si abbassa. Le sue mani gli cadono sulla pancia e sospira. «Quando hai detto che siete usciti insieme?»
«Non siamo usciti. Eravamo solo amici»
Annuisce e si solleva mantenendosi su un copertone. Apre il portellone posteriore e sale nel cassone; il metallo cigola, e il resto della roba sferraglia. Grida, «ehi – è lo stesso un rapimento anche se non si chiede un riscatto?»
«Sì»
Ancora sferragliamenti, e, dopo, il fisso raspare di quando russa. Mescolo le braci con un legnetto. Voglio credere che stiamo facendo la cosa giusta – che quella ragazza là a ovest sia la stessa che ho conosciuto al liceo, e tutto ciò di cui lei ha bisogno è ricordare chi sia. Rilke ha detto di «innalzare le sensazioni sommerse dell’ampio passato», ma dopo comprenderò che questo è un consiglio elusivo, perché la memoria non è interpretativa. Dopo mi renderò conto del fatto che le aree di sinapsi in cui risiede il ricordo sono le stesse in cui risiedono brama e desiderio, e a volte la memoria è solo un veicolo per questi due.
Ma persino ora, accanto alla brace del nostro fuoco che si smorza, non credo nelle mie motivazioni. Questo è uno dei miei tratti fondamentali, e quasi affonda le sue radici nella mia mascella rotta – il piccolo pezzo di metallo che attraversa il mio mento mi ricorda che ciò che voglio e ciò che sono autorizzato a fare sono generalmente due cose separate. Per comprende quello che intendo, bisogna immaginarmi a quattordici anni: uno e settanta di altezza, 58 chili, in una imbottitura per le spalle troppo larga e un caschetto che potevo rimuovere senza doverlo aprire.
Il sole di aprile soffoca il campo. Le cheerleader siedono sugli spalti, a giudicare il mondo e nascondere sigarette. Mastico il mio paradenti compulsivamente. Ho passato molto tempo a leggere di Nick Adam, dell’andare in guerra, dell’essere sparato. Incontro sguardi di derisione, che sanno della mia etica, che immaginano teorie riguardo al dolore e all’onore. Quando ci muoviamo per fare una difesa a campo libero, sono il primo volontario.
Il coach Duprene mi mette contro Eric Dempsey, un ragazzo dell’ultimo anno, alto più di uno e ottanta, che è della seconda linea difensiva. È abbastanza crudele. Ma in quel momento, penso «Mi sta prendendo sul serio. Mi sta dando una possibilità».
Quando il fischietto squilla, il coach lancia la palla a Eric. Non esito. Tengo il baricentro basso e allungo la schiena affondando la testa nelle spalle e guardando in alto. Non lo schivo e non punto alle sue ginocchia.
Una ventata improvvisa, e in realtà sento di essermi spezzato. Dolore rosso, agghiacciante. Mi rotolo per terra, il sole mi pugnala gli occhi, l’erba in bocca, gusto di rame caldo, sporco. Prima di spegnermi, do un’occhiata alle ragazze sugli spalti, piccoli punti di colore tutti su una riga.
Così, a 21 anni, credo che la lezione di vita più importante sia che bisogna ridurre i desideri, o questi potrebbero infiammarsi fino a far rompere una mascella. Quella croce di sutura in metallo ha tinto le mie aspettative di paura. I miei occhi guizzano nell’oscurità. Un tronco, una luna, il rumore del vento sulle rocce. Il coach sonnecchia. Suoni immaginati echeggiano nelle mie orecchie: il clangore dei birilli da bowling che cadono, l’artiglieria che scoppia sulla prua di un cacciatorpediniere. La mia mascella dorme. Niente pioggia.
I pali del telefono sembrano croci nel sole. Un grande cartello verde dice BENVENUTI IN CALIFORNIA. La testa dell’allenatore si piega e si rialza. Penso stia prendendo più Vicodin.
«È la prima volta che mi spingo così tanto a ovest» dico.
Il coach guarda la strada in silenzio e con gli occhi annebbiati. Giocherella con la radio e trova una stazione in cui Merle Haggard canta Mama tried. Il giorno in cui sua madre morì, l’interfono chiese ad Amanda di uscire dalla classe di storia. Dal modo in cui raccolse i suoi libri capii che se lo aspettava. La guardai andar via desiderando di raggiungerla attraverso la finestra, mentre lei camminava sul sentiero di cemento. La sua tristezza era così concreta per me, così vicina.
A San Diego prendiamo l’autostrada 15, direzione nord. Più tardi saliamo in uno spazio elevato di segnali: slogan e scritte in grassetto dai colori primari. Le macchine si accalcano attorno a noi. Mi chiedo se mia madre sia mai venuta così lontano. La sua prima cartolina veniva dal Nevada. Ci sono cinque cartoline tutte insieme, conservate in una scatola di scarpe alla base del mio armadio. Metti che un giorno verso la fine dell’ultimo anno di scuola torni a casa e tua madre non c’è più. Tua nonna ti dice che tua madre vuole star via per un po’. Una nota criptica che comincia con «Ora che hai diciassette anni», e parla del fatto che ogni persona ha bisogno di «seguire il proprio cuore». Le chiamate arrivano una volta alla settimana per due mesi.
Non guardo più le cartoline. La scatola di scarpe rimane chiusa.
Le macchine ci spingono e noi ne veniamo fuori, salendo più in alto sul pendio di cemento. Sotto di noi ci sono parcheggi ovunque, come se noi stessimo volando su una città fatta solo di parcheggi. L’aria diventa una coltre radiosa, una nebbia sbiancata. Enormi costruzioni svaniscono in questa foschia. Qualcosa sta bruciando – il tanfo è quello tipico di qualcosa di stantio, in decomposizione.
Il coach aggrotta il viso. «C’è un odore terribile». Biascica le parole. Una Volvo ci suona quando giriamo nella corsia sbagliata. Nel febbraio del mio ultimo anno di scuola raccontarono una storia nello spogliatoio della mio gruppo di atletica leggera. Dicevano che Amanda si era data alla pazza gioia. Tornando da una partita di basket sull’autobus della squadra, era accaduto qualcosa di folle. Ululati e risa. Mi vestii in fretta, cercando di non crederci.
Il pick-up stride sopra le nostre spalle. Il coach chiude la macchina sbattendo il portellone in un parcheggio. «Dobbiamo capire dove diavolo siamo». Le sue pupille ondeggiano in un’oscurità sanguigna. «Tu... devi guidare tu».
Sprofondo nel posto del guidatore. Il motore rimbomba e il coach crolla sul finestrino. Con le mani sul volante, mi sento nuovo e utile. Questo è quello che vediamo: serbatoi secchi di cemento, asfalto ovunque, aria distorta dal caldo. Messicani. Gente che indossa occhiali da sole assomigliante a insetti. Minimarket e cartelloni – immagini di carne muscolosa e abbronzata, scollature. Do uno sguardo ai miei bicipiti magri e pallidi.
Una volta vidi Amanda attraversare un campo da football inondato, calciando l’acqua a piedi nudi, e io escogitai un programma per diventare muscoloso in un anno. Gli appunti sull’auto-miglioramento si accumulano ancora per casa: «un frammento di sacro dovere ti salva dalla grande paura». «Ogni dolore è il risultato del desiderio». «Le persone sono generalmente tanto felici quanto decidono di esserlo». Ma un po’ di tempo dopo Los Angeles, me ne sbarazzo. Le carte scricchiolano quando le colpisco, e i miei passi rimbombano sui pavimenti di legno per tutta la casa.
A una stazione di benzina il coach aspetta nel pick-up mentre un iraniano mi aiuta con la mappa. Dice che il codice postale 91411 è «a valle». Dobbiamo andare ancora più a ovest. Il coach butta giù due pillole di Vicodin. Le strade e i marciapiedi irradiano calore come una padella.
L’American XXXstasy è una parte della schiera di negozi nella San Fernando Valley. L’insegna è un affare di lettere rosse su porte di vetro grigio, colorate per non permettere di vedere l’interno. Poche macchine nel parcheggio. Tramonto. Una collinetta si alza in lontananza alla fine dell’area di negozi, e sulla cima si trova il T.G.I. Friday’s. Il coach sta ancora guardando fuori dal finestrino. Picchietta con le unghie contro il portellone, e accarezza la bottiglia marrone di cloroformio. Non ha detto una parola da quando ci siamo fermati per chiedere indicazioni.
«Perché non rimani qui?» dico. «Fammi andare a vedere cosa riesco a scoprire».
Fa un passo incerto verso fuori, la testa piegata. «Verrò con te».
«Ascolta, Coach. Fammi parlare con loro... mi inventerò qualcosa. Credimi, ho una specie di piano». Gli chiedo di darmi la sua patente e gli ripeto di fidarsi di me. Lo lascio appoggiato alla macchina.
L’ufficio ha una moquette di un verde color lime, pestata e chiazzata di bruciature di sigaretta. Ha un vago odore di disinfettante e vasellina. Una porta dietro la scrivania all’entrata è chiusa. I muri sono decorati da vari poster: La madrina parte IIVengo nel futuro e uno con Mandy LeRock con un impermeabile trasparente sotto un ombrello – La donna della pioggia 5: l’occhio del ciclone. Questo non è il suo seno. Una segretaria mi accoglie, una donna più vecchia con un pelle bruciata – arancione, sottile come carta. Indossa occhiali da vista svasati.
«Posso aiutarla?»
Sorridendo, le mostro le nostre patenti. «Siamo entrambi di Port Arthur, Texas. Abbiamo fatto una lunga, lunga strada».
«Cosa vuole?»
«Lo vede quell’uomo laggiù?» oltre la vetrina il coach sta afflosciato contro il cassone, sbuffando soffi di fumo. «Sua figlia è un’attrice». Indico il poster di Rainwoman. «Il suo vero nome è Amanda Duprene. È del Texas. La stiamo cercando».
«Mi dispiace, ma non abbiamo il permesso di...»
«Signora. Non vogliamo causare problemi. Ma è che – la questione è che... lui sta per morire. Sta per morire e vuole solo vedere la sua unica figlia prima di andarsene».
Lei osserva fuori dalla vetrata, superando con lo sguardo le mie spalle,. Nel parcheggio il coach sembra ripiegato su se stesso. La sua schiena è curva, e tossisce in una mano, il fumo lo ricopre e si dissolve nella luce del tramonto. Sembra veramente malato.
«Stiamo cercando di rintracciarla. Questo è tutto. Non daremo problemi a nessuno».
Per qualche motivo sospira. «Cos’è?»
«Come?»
«Cos’ha?»
«Cancro al pancreas»
«Oh, Signore» mette le mani sulle labbra. «Solo un minuto. Okay? Torno in un attimo». Prende le nostre patenti e va nella stanza sul retro, aprendo la porta solo quel tanto che basta per passarci. Un momento dopo riappare. «Signore, può entrare». Il mio cuore sobbalza, ma oltre la porta c’è solo un’altra scrivania con dietro un ragazzo magro. Da un sacchetto di McDonald’s si spargono per la scrivania delle patatine fritte.
Il suo volto è segnato dalle cicatrici dell’acne. Controlla le nostre patenti. «Siete veramente voi?» dice, mentre succhia i suoi polpastrelli. La segretaria ferma con le mani la porta d’ingresso.
Racconto la storia del cancro del coach mentre osservo le pile di videocassette sul tavolo, spiegando quanto sia stato difficile accompagnare quell’uomo anziano da Port Arthur a qui. L’uomo mastica le patatine mentre parlo. Alla fine mi dice di dargli un numero di telefono e che il massimo che può fare è passarlo ad Amanda. È spiacente, ma non può dare l’indirizzo, soprattutto alla famiglia.
La donna mi ferma davanti la porta d’uscita. Mi passa un pezzettino di carta gialla. «Tu non sai da dove salta fuori questa cosa», dice, e mi dà un colpetto sul braccio. Sul foglio c’è un indirizzo.
Il coach annuisce e cade sul suo posto. Tornati in strada, guarda il cloroformio e dice, «Non so. Non so se usarlo».
Ci mettiamo altre due ore per trovare l’indirizzo.
Una casa stile ranch in Van Nuys. Palme nane e felci, palme increspate e senza fogliame. Una Corvette gialla sul vialetto. Dalla struttura di una finestra a golfo, una luce color limone è adagiata su tre rettangoli di prato verde ben curato. Attorno ci sono case simili, aria calda e accogliente. Parcheggiamo in strada e spegniamo le luci.
«Quindi cosa vuoi fare?»
La sua testa, reclinata, si gira lentamente. «Vattene a casa».
«Andiamo. Ci avviciniamo alla porta? Aspettiamo che esca lei?»
I suoi occhi sono punti smaltati, assorbiti da rughe e pieghe.
«Coach?»
Chiude gli occhi. Respiri affaticati. «Va’ a vedere»
«Io?»
«Va’ a vedere». Stringe il cloroformio in un gesto di rassicurazione.
La luce del portico è spenta, e un bagliore soffuso color rosa viene emesso dal campanello. Cammino verso di quello, attraverso l’oscurità tra le finestre, il campanello come la fine di un tunnel.
Vorrei guardare i suoi occhi verdi, il sorriso che li ha sempre fatti chiudere. Ricordo il suo viso illuminato da una fiamma tremolante del becco di Bunsen, la sua risata che scoppiava come coriandoli. Una volta, l’ho vista allontanare con uno schiaffo la mano di Wendell, uno studente al terzo anno di liceo, dalla sua gonna, e ho sentito il travaglio di un’adolescente. Il modo in cui la sua mente era piena di desideri – un nodo di emozioni che saliva costantemente in superficie, che la inondava, la trasportava attraverso i campi tormentati della periferia, superati i centri commerciali e lunghi acri di erbacce, dritto nei sedili posteriori delle macchine, nei cassoni dei pick-up.
Busso. Di nuovo. «Chi è?» arriva da dietro la pesante porta di legno.
«Amanda Duprene?»
«Chi è?» ripete la voce.
«Ehm, Robert Corresi? Da Port Arthur?». La lampada del portico s’illumina e la luce mi acceca. Il film che ho io si chiama Il garage del Diavolo, e ha la piatta, falsa trama di qualcosa girato in un video. La protagonista della storia ha bisogno di far riparare la macchina, ma non ha abbastanza soldi. La porta si apre per la lunghezza di una catenella di sicurezza, e il muso di un cane nero spunta annusando in quello spazio. Un paio di occhi castani, femminili e iniettati di sangue, scivolano su di me. La porta si chiude, e sento lo scorrere del metallo.
In quel secondo in cui la porta si apre scivolando, prendo coscienza del mio aspetto, anche se mi ricordo di non avere più l’acne e che il mio taglio di capelli è migliore di quello che avevo al liceo. Lei ha la pelle scura, e i suoi capelli rossicci sono stati tinti di nero. Trattiene un Rottweiler marrone e robusto per il collare. La luce all’interno le scolpisce le forme, rendendo la sua vestaglia di un blu quasi traslucido. La sua voce è quella di sempre ma più cruda, profonda. «Io ti conosco».
Si manifesta nella luce, diventando concreta, come se si stesse spostando dal posto dove io l’ho conservata nella mia mente, dritto verso di me. Le sue sopracciglia sono rifinite in onde perfette; le sue guance e il suo petto brillano di creme. Lei mi guarda, gli occhi screziati di rosso, e inclina il capo. «Io ti conosco».
«Robert. Liceo. Eravamo compagni di laboratorio».
Il cane mugola, e lei si accovaccia per grattargli le orecchie. «Silenzio, Pete». Guarda in Alto. «Bobby? Bobby Corresi?».
«Robert. Nessuno mi chiama più Bobby».
«Che ci fai qui?».
«Volevo vederti. Abbiamo guidato a lungo».
Lancia uno sguardo superando le mie spalle «Noi chi?».
«Io e tuo padre. Tuo padre è qui. Abbiamo guidato fin qui per vederti...».
«Cosa?» Amanda si muove e mi supera, e io vedo il coach fermo nell’oscurità dietro il suo pick-up, solo pochi tratti ne sono visibili. Lei lo indica con rabbia. «Perché l’hai portato qui? Cosa vuoi? Portalo via!».
Prima di poter ribattere, un uomo fa un passo nel portico. È quasi del mio peso, ma con muscoli scolpiti e una pelle tostata. Indossa una canottiera bianca, pantaloni da jogging, e un sacco di orecchini. I suoi capelli corti e gelatinati rimangono dritti. Mette un braccio attorno alla vita di Amanda e mi guarda. «Cosa sta succedendo, piccola?».
A mala pena gli dà retta. «Niente». Ritorna su di me, e mi chiede, «perché l’hai portato qui?». Grida guardando oltre le mie spalle. «Rimani lì! Tu non ti avvicini a questa casa!». Il suo cane continua a saltellare, scattare, soffocarsi col suo stesso collare, e ad abbaiare per via della foga nella voce di Amanda. L’uomo accanto a lei muove gli occhi da me al coach, e poi di nuovo su di me. In tutto questo, mi accorgo con severa chiarezza di quanto sia dolce il suo profumo.
Mi guarda con fare accusatorio. «Quindi?».
«Amanda. Posso parlarti? Per favore... solo per un secondo. Abbiamo fatto davvero una lunga strada. Voglio solo parlarti».
I suoi occhi si socchiudono sospettosi, e il suo cane mi annusa la patta dei pantaloni.
«Per favore».
Sbuffa rumorosamente. «Aspetta qui». E sbatte la porta e mi lascia qui, in un cono di luce sul suo porticato. Mormorii arrivano dall’interno della casa. Il fumo delle sigarette del coach s’increspa nella forma di un tulipano spettrale nel lato opposto del suo pick-up.
Quando la porta si apre di nuovo, Amanda punta oltre le mie spalle. «Lui non può entrare. Rimane fuori». L’uomo che le sta vicino cammina fuori dal porticato e urta con forza la mia spalla mentre passa. «Anche Tony resterà qui fuori». Si posiziona dietro di me con le braccia incrociate.
Lei e il cane fanno un passo indietro, e io entro prima in un atrio con una composizione di fiori secchi su un tavolo di marmo niente male, e dopo in una luce soffusa e l’aroma di incenso – al gelsomino, probabilmente – un blu tremolante di una tv in un salotto, con un arredamento di cuscini spessi e marroni. Pareti bordeaux, immagini di paesaggi, un tanfo che arriva dalla cucina. Amanda ammutolisce la tv.
Mi fa cenno di sedermi sul divano, e piega le gambe sotto di lei, coprendole con la vestaglia. Il cane Pete si è steso fra di noi su un cuscino. Sento il mio petto stringersi. Le sue labbra sembrano punte da un’ape, e immagino sia collagene o qualcosa del genere. I suoi respiri sono troppo ritmati e fermi sotto la vestaglia. I suoi occhi sono castani.
«Okay», mi dice «ti do cinque minuti».
«Noi ecco... cioè, io sono venuto per aiutarti, credo. Vogliamo riportarti a casa».
Fa roteare gli occhi e ride. «Bene. Vabbè. Perfetto».
«Senti...».
«No, tu senti. Cosa credi... mi stai giudicando? Tu prendi mio padre là fuori, e, e cosa...» si strofina il naso e parla velocemente. Sebbene qui l’aria sia fresca, sono comparse sul suo sopracciglio delle gocce di sudore. «Voglio dire, cosa sai tu? Noi siamo, cosa, compagni di laboratorio al primo anno di liceo? Così tu mi conosci, o che altro?». Ha delle occhiaie di un grigio marcato. Non posso reggere il suo sguardo.
«Indossi lenti a contatto ora?»
«No». La domanda la confonde. «Ascolta», fa un gesto che comprende tutta la stanza. «Do l’impressione di una che ha bisogno d’aiuto?» Accarezza il cane con forza. «Voglio dire, non prendo droghe da quasi un anno». Fissa le unghie dei piedi tinte di viola. Sulla sua caviglia c’è un tatuaggio cuneiforme. «Non faccio un film da quattro mesi. Voglio dire, non penso neanche di farne altri. Probabilmente. Ho ricevuto delle offerte tipo, dalla tv e cose del genere». Si ravvia i capelli, e spazzola via qualcosa dal cuscino del divano. Ricordo quel suo modo di ravviarsi i capelli. Ha sempre fatto quel gesto. Riconosco così poche cose in lei.
«Ma non sei felice. Meriti di più di questo...».
Getta le mani in aria. «Visto? Questo è quello di cui sto parlando. Tu vieni qui e, cosa, perché non ti piace il modo in cui vivo?»
«Dai...».
«No, dai tu. Sul serio, Bobby. Ho una notizia per te. Il mondo è molto più grande di Port Arthur, Texas. Okay? Molto più grande. Il dannato modo in cui vivo non sono affari tuoi, come non lo sono di quell’altro coglione là fuori».
«Tony?»
Si acciglia con sarcasmo. «Mio padre». Si strofina il naso. «Questa è la mia vita. La mia. Devi preoccuparti della tua di vita, va bene? Io ti vengo a dire come vivere la tua vita? Cosa fai, comunque?»
Esito per un attimo. «Lavoro per la Lone Star Environmental. Supervisiono le falde acquifere».
Applaude. «Wow. Fantastico. Non hai mai lasciato la città, giusto? Non sei mai andato al college, giusto?»
«Non lo so, non ancora, ma...».
Posa la testa su una mano e ride. «Non posso credere che tu sia venuto davvero fin qui. Non posso credere che hai portato qui mio padre ». Mi fissa intensamente. «Hai fegato».
Guardo le immagini alle pareti, quadri con paesaggi calmi e spiagge solitarie, e tutto quello che riesco a pensare è di provare a convincerla di quello in cui ancora credo. «Ti ho vista una volta. Era al secondo anno. All’inizio del secondo anno. Credo che non avessi l’ottava ora quel giorno, ma aveva appena piovuto, e io stavo aspettando che suonasse la campanella, sai? Annoiato, il cielo di quel grigio strano, luminoso ma non blu, e volevo solo andare a casa».
Si tira l’unghia del pollice.
Mantengo lo sguardo fisso sui paesaggi nei quadri mentre parlo. «E ho guardato fuori dalla finestra, e ti ho vista. Stavi camminando per il campo da football con la tua uniforme, ti eri tolta le scarpe... e con tutta calma calciavi l’acqua con i piedi. Potevo vederne gli schizzi. Ti rigiravi ogni tanto. Stavi guardando in alto nel cielo, e ti ho persa nel sole attraverso il vetro. Sai? In quel punto dove la luce del sole si infiammava nel vetro. E hai fatto un passo fuori da quel fascio di luce, calciando l’acqua, con la tua gonna, guardando con molta distrazione. Non si trattava solo del fatto che fossi bella – lo eri, ma non era quello». Tutti gli anni conservati nella mia memoria si condensano nel linguaggio, e credo che questo non sia ancora abbastanza per rivendicarla. «Ricordo che pensavo di sapere cosa ti distraesse. Sai? Sebbene non sapessi come chiamarlo, o metterlo a parole, avevo questa sensazione, un sentimento veramente calmo, e io ero sempre nervoso, credo, ma un sentimento... come se il mondo fosse un posto buono, perché potevo vederlo attraverso i tuoi occhi».
Il cane cerca la mia gamba e si lamenta lentamente, con un pianto soffocato. Un telegiornale riporta una storia silenziosa in tv.
Chiude un po’ la sua vestaglia e tocca la mia guancia. «Bobby. Ascolta, sei un tesoro. Davvero». Fa sparire i suoi occhi con un sorriso tenue che quasi echeggia quello che ricordavo. «Però sono sicura che fossi fatta. Prendevo un sacco di acidi all’epoca».
Le sue dita seguono la mia mascella, fermandosi sul mento. «Sei dolce. Ma devi pensare alla tua vita».
Dato che non posso guardare nulla se non lei, chiudo gli occhi.
Qui è dove tutte le mie storie convergono. Ogni momento perduto fra l’esperienza e la memoria s’incontra a un incrocio: la X di metallo nella mia mandibola, dove le sue dita sono puntate come la canna di una pistola.
«Posso avere altri cinque minuti?»
«No».
Qualcuno lancia un grido, e io apro gli occhi.
Ci spostiamo fuori, da dove viene l’urlo. Qui vicino, appena fuori il porticato, il coach è seduto sul prato e si regge il viso fra le mani. Tony incombe su di lui, i pugni serrati.
Tony fa sporgere la mandibola. «Ha detto che aveva intenzione di entrare. Gli ho detto di no».
È difficile non provare pena per il coach, sgretolato sul prato in quel modo, a dibattersi con un palmo sugli occhi, eppure ci riesco. Vado verso di lui, Tony si ferma davanti a me. «Ne vuoi un po’ anche tu?»
«Tony», Amanda lo chiama alle mie spalle. «Forza. È tutto a posto. Vieni dentro».
Il coach si allunga verso i miei piedi, tenendo il cloroformio in mano come un’offerta impotente. La porta sbatte.
Dico al coach di salire in macchina.
Nel posto del guidatore, lancio il cloroformio fuori dal finestrino. Lui sbatte di nuovo il suo portellone con un livido sull’occhio sinistro. «Ha funzionato alla grande», sbotta.
Lo studio, seguendo le linee del suo viso con gli occhi, e continuo a guardarlo dopo che i nostri sguardi si incontrano. Guarda verso il finestrino, e lo osservo ancora per qualche secondo prima di girare la chiave.
Il motore si accende, sussultando, e ci muoviamo.
Ci sarà una seconda ricerca. A Port Arthur vedo una pubblicità per la Reunion, Inc. Perché c’è un’altra domanda a cui rispondere, un pezzo di inconsapevolezza che non continuerò a sopportare. Li chiamo. Per i due mesi successivi continuo a lavorare per la Lone Star Environmental, lasciando che gli insulsi campi e gli estesi cieli limpidi passino come cornici di una pellicola sovraesposta, senza raccontare storie, e prendendo campioni di terreno e testando l’aria col naso in cerca di contaminazioni. Solo occasionalmente in questo periodo penso sul serio al coach Duprene.
Abbiamo fatto il viaggio di ritorno in silenzio. Io guidavo, e il coach teneva la sua faccia sul finestrino. Altopiani color argilla e orizzonti viola. Una mezza idea di montagne nella foschia distante. Il suo rimorso tanto tangibile quanto la strada sotto le nostre ruote.
Non ci rivedremo più.
La Reunion, Inc mi manda il rapporto che mi è costato 300 dollari. La busta sta sul tavolo della mia cucina per un giorno intero. Il logo della compagnia sembra che stia provando a intimidirmi. Dopo cinque birre apro la busta e prendo due fogli di carta. Questo è quello che dicono:
Travis Corresi è un disperso. L’ultima volta che lo si è visto era un ufficiale in seconda sul SS Mary Charles, una nave mercantile che è affondata nel Mar Giallo nel 1989. Ma, questo, l’ho sempre saputo. Per tutta la mia vita mio padre è sempre stato un morto nel mare.
Tirando ogni stralcio di filosofia, ogni massima nella casa, getto le note, facendo un unico mucchio, e decido che tutto quello che è successo in precedenza è un’unica storia, la stessa e lunga storia, e se questa non finisce, i prossimi dieci anni potrebbero essere come gli ultimi dieci, un periodo di ansiosa immobilità che ti ha visto piegato, nervoso, come un topo nell’angolo, che ti ha lasciato a piangere una vita che non hai mai avuto veramente.
Quella vita è frammentata in scene che a malapena ricordi, il loro significato dovuto solo alla loro incapacità di imporsi l’uno sull’altro, finché questa vita, questi momenti, diventano come un paio di occhi verdi che sei convinto di aver visto una volta, che occhieggiano verso di te nel cielo di una lunga notte errante, mentre ti domandi perché stai guidando a quell’ora, e come sei riuscito a renderlo a te familiare. Anni che non puoi ricordare, perché sei troppo impegnato a mascherare della vera tristezza con una falsa nostalgia.
Così la casa è messa in vendita. L’altra notte hai deciso di non impacchettare nulla, e di passare il tuo tempo a guardare la lunga prateria recintata lungo la strada.
Ora potresti immaginare la tua prossima storia, la tua seconda storia, ma non essere troppo preciso, non avere una visione a cui aggrapparti, non creare un’idea in cui perderti. Non guardare una mappa e non meditare sulla profondità del Mar Giallo; non immaginare la forma delle sue onde. Non ruminare su genitori perduti, o ragazze perdute. Resisti alla necessità di spiegare le loro storie, perché forse non hai afferrato che una risposta non è una soluzione, e che una storia a volte è solo una scusa.
Se proprio devi, concediti di immaginare l’umore generale della storia, i luoghi in cui potrebbe accadere, come sarebbe il clima. Dì a te stesso che sarà quantomeno un mondo in cui ti senti meno abbandonato, e dove sei sostenuto da più di una illusione. Se proprio devi.
Va via prima di cambiare idea.