sabato 7 gennaio 2017

Uccelli-Fantasma di Nic Pizzolatto

Uccelli-Fantasma


E la città entra in un altro maggio indolente e ribollente. I genitori fanno smorfie mentre spingono i loro figli attraverso il Museum of Westward Expansion, e le chiatte gemono nel Mississippi. La fabbrica della Dowling Industrial ha eruttato qualcosa, e i gas rendono i nostri tramonti di un arancione tra il prugna e il plutonio.
Lavoro dalle undici di sera alle sei del mattino. Il parco è deserto, e io continuo a osservarlo da una piccola finestra in un muro di acciaio a 630 piedi di altezza dal suolo. Novanta acri di erba e alberi di sotto, ponti sul fiume verso est, e le luci di St. Louis a ovest. Perlustro la zona, coperto da un cielo purpureo (non si possono vedere le stelle questo mese), e dopo aver ispezionato le terre con il mio binocolo ufficiale del National Park Service schizzo fuori dalla mia finestra e scivolo sull’apice dell'arco di St. Louis.
Uso un Perigee II, una sacca per paracadute singolo, con chiusura a velcro, prodotto dalla Consolidated Rigging. Contiene una vela Ace rettangolare di 240 piedi, e la mia attrezzatura è nera: casco, ginocchiere e gomitiere, sciarpa per naso e bocca. I miei occhiali protettivi, tuttavia, sono blu, lenti di quarta generazione per la visuale notturna. L'arco, fatto di acciaio proveniente da Pittsburgh, è chiamato Gateway to the West, La Porta per l'Ovest e, quando la mia gamba penzola dalla finestra e i venti forti si infrangono sul mio viso, posso osservare la foresta scura in basso, o voltarmi verso una finestra lontana, oltre la quale St. Louis arde sotto le sue ceneri. In quel momento, sento che potrei sormontare le dormienti intersezioni dei sogni dell’intera nazione. Gichin Funakoshi dice che tutta la verità è contenuta nei sogni.
Il vento esplode con così tanta forza e rumore che potrei essere disintegrato. Tre secondi di caduta libera, più altri venti circa per guidare la vela verso il basso. A volte, mi muovo a spirale in discesa, come l'acqua che fluisce da un tubo di scarico.
Il Museum of Westward Expansion, alla base dell'arco, ha le dimensioni di un campo da football. Ho una borsa per l’equipaggiamento e un'uniforme da ranger nell’atrio; vi entro di corsa dopo un salto, ed esco pochi attimi dopo in veste di Ethan Landry, ranger del parco. In quegli attimi mi affido alla calma oscurità per ricordarmi che il parco è chiuso, e che io sono solo.
Le scale che mi portano in cima ascendono nell'oscurità, e io le salgo due alla volta.
Una radio trasmette della musica, e io ne sento gli intervalli d’interferenza nella cabina telefonica nera. Le ore strisciano lentamente verso il mattino. Da quando non bevo più, trovo una pausa dalla noia leggendo cose come Il Libro dei cinque anelliHagakure;La vita dei samuraiIl Daodejing. Mi piacciono gli scritti di Alce Nero e alcuni saggi di Emerson, ma il pensiero orientale mi sembra molto più chiaro. La chiarezza, penso, è la cosa principale. Trova una via e percorrila.
Cosa che più di tutte spiega i miei salti. La definizione letterale del BASE jumping è gettarsi col paracadute da punti stabili (edifici, torri, ponti, o rilievi naturali), ma per me significa reprimere i sensi e unirsi al vuoto. Il grande samurai Miyamoto Musashi dice che è necessario perdere il sé e diventare un tutt'uno col Mu, il vuoto al centro dell'esistenza al quale tutto ritorna. Così il guerriero trova la vita nella morte. È più duro di come sembra, e ci sono stato vicino solo una volta. Tre anni fa, mentre andavo in kayak sul fiume Buffalo, Arkansas, mi ribaltai e persi l'equipaggiamento. Andai a sbattere contro una roccia e il kayak mi colpì, mi fratturò una caviglia, si capovolse, mise fuori combattimento un molare, e scomparve con la corrente. Martellato dalle onde, mentre ingoiavo acqua ed ero quasi cieco dal dolore, mi aggrappai a una roccia, sapendo che, se fossi stato spazzato via dalla corrente, sarei stato finito. Notai che sulla riva del fiume uno scoiattolo mi stava osservando. Reclinò la sua testolina, come per chiedermi cosa pensassi di voler fare, e si arrampicò su un albero, muovendosi a spirale, dove lo persi di vista fra i rami. Ricordo un senso di calma, staticità, e pensai: «Questa è la mia morte. Interessante».
Quel momento fu uno sguardo fugace al vero universo, una galattica processione che seguitava a marciare senza di me. Quello che Dogen chiama «le diecimila cose». La mia caviglia è guarita, ma andare in kayak ha perso qualcosa dopo quell'esperienza, e io ho scoperto il paracadutismo sportivo, che mi ha condotto dritto al BASE jumping. Ho incominciato ad andare in kayak principalmente perché una delle regole base che ti insegnano durante la disintossicazione è che se hai intenzione di rimanere sobrio, devi mantenerti fisicamente attivo.
Ma se niente di tutto ciò ha molto senso, diciamo solamente che con i turni che mi ritrovo il mio unico legame affettivo è con la gravità, e ci prendiamo i nostri momenti di intimità ogni notte senza luna, intorno alle tre del mattino.
E siamo a maggio. I cieli sono tinti di ametista e verde e, come ho detto, non è possibile vedere le stelle. Di notte le foreste assumono una certa piattezza e sembrano allungarsi in un unico piano, come i campi da pascolo incolti della fattoria dove sono cresciuto. I due fari sul fondo dell'arco non sono un problema – ci cado in mezzo. Anche se non c'è la luna stanotte, sono un po' circospetto per via dell'illuminazione che lo strano cielo crea. Il BASE jumping, in realtà, è illegale negli Stati Uniti. Molti jumper si lanciano nei parchi nazionali, e i ranger dei parchi sono da sempre le loro nemesi. L'ironia della mia vita è così ovvia che non penso nemmeno sia ironia.
Prima di saltare, controllo il parco con il mio binocolo: erba rada, macchie di pini e pioppi dalle foglie larghe, sentieri di cemento che convergono al vecchio palazzo di giustizia, a ovest. Un bagliore – dietro un albero scorgo un fascio luminoso. Metto a fuoco e vedo almeno due persone che si stringono nell'oscurità. Sto per comunicarlo via radio, ma poi vedo cosa ha emesso quel bagliore: lenti di vetro. Uno di loro sta guardando in alto verso l'arco con un binocolo. Alle tre, questa notte mi ha portato qualcosa di nuovo; mi sbarazzo della mia attrezzatura e divento un ranger del parco.
L'ascensore mi porta in basso scoppiettando, e io striscio tra gli alberi e mi accovaccio dietro dei cespugli alti. Scopro tre persone – una ragazza e due ragazzi. Sono abbastanza giovani, e ricordo a me stesso di andarci piano con loro. A ventott'anni posso ancora ricordarmi il brivido dato dallo strisciare in giro di notte. Una volta avevo una ragazza che amava esplorare luoghi proibiti. I nostri nervi fervevano per qualsiasi cosa ci procurassimo, Mabel mi conduceva per luoghi bui pieni di tubature fumanti e segnali di divieto di passaggio, su per rampe di scale fino ai tetti, per finire con un bacio. Non accendo subito la mia torcia e mi avvicino, perché posso sentire le loro voci e voglio sapere cosa stanno dicendo.
Un ragazzo robusto con guance paffute e occhiali sta parlando con un ragazzo più magro con un cappellino da baseball e un impermeabile.
La ragazza, è lei che porta il binocolo, li tira giù e interrompe i due ragazzi: «Penso di aver visto un ranger lassù».
Dopo, un gemito umano fa breccia nell'aria. Mi guardo attorno e vedo l'insorgere di ombre ovunque. Oltre questo boschetto delle persone punteggiano il parco, come minimo una dozzina. Una ragazza e un ragazzo sono stesi sulla schiena, mentre la ragazza indica il cielo. Un'altra coppia sta pomiciando contro un pino, e questo spiega il gemito che ho sentito. Sono inciampato su qualche sogno di giovinezza e lussuria. Per vaghi motivi questo mi fa arrabbiare – questi giovani ragazzi si sono intromessi nel mio momento sacro e necessario.
La torcia avvampa, seguita dalla mia voce più profonda. «Che succede qui? Il parco è chiuso». Intrappolo questi tre ragazzi nel mio fascio di luce; tutti gli altri si danno alla fuga. Le foglie frusciano, e il lieve riverbero dei passi corre attraverso la terra.
Il ragazzo con l'impermeabile alza le mani, le abbassa lentamente, e fa un passo avanti. «Uhm, ciao. Sappiamo che il parco è chiuso. Ci scusiamo. Siamo qui per un compito assegnatoci in classe. Andiamo tutti alla Washington University». La ragazza mi guarda superando con lo sguardo le sue spalle.
Sono ancora arrabbiato, e non appena il ragazzo fa un passo nel mio cerchio di potere, pondero le varie angolature di kokyu nage che potrei usare per lanciare il suo corpo fra il cespugliame. «Siete entrati abusivamente»
«Seguiamo questo corso, Miti e Leggende dell'America Moderna, e, uhm, noi stiamo lavorando al nostro progetto finale... ascolta...»
Ora la ragazza prende la parola. «C'è una leggenda urbana che dice che nelle notti senza luna qualcosa vola giù dall'arco». Non posso distinguere le sfumature dei suoi occhi, ma sono pallidi. «Frank pensa che sia un ragazzo con un paracadute, ma la descrizione suona come un uccello-fantasma»
«Cosa?»
«Un uccello-fantasma. Gli spiriti del tuono dei nativi americani. Giganti, neri, con degli occhi brillanti. La gente li vede da secoli»
«Niente vola giù dall'arco»
Frank (credo) interviene, «Personalmente conosco tre persone, che non si sono mai incontrate fra loro, che mi hanno raccontato di come abbiano visto questa cosa volare giù dall'arco. Tutti e tre hanno descritto qualcosa di completamente nero, con occhi luminosi. Un altro punto in comune? Niente luna in quelle tre notti. Ho fatto delle ricerche. Seicento piedi è un’altezza del tutto plausibile per il BASE jumping. Non puoi stare a guardare per tutto il tempo»
«Sentite, ragazzini. Voi avete superato la recinzione. Questo è illegale. Siete su una proprietà del governo»
«Ci dispiace. Davvero. È solo che... sai»
«Volevamo vedere se fosse vero»
«Non lo è,» dico. «Dovete abbandonare il parco.»
Si trascinano fuori, mormorando delle scuse. La ragazza si volta e mi guarda. Cose delicate brillano sul suo viso – gli occhi, le labbra. Dopo, gli studenti spariscono.
Camminando pesantemente, torno al mio ufficio con in mente i ricordi della mia esperienza al college. Ero il primo della famiglia ad andare all'università, e mi ricordo gli studenti, simili a quei tre ragazzi – abbronzati, sorridenti, che camminavano nel cortile interno di pietra tenendosi per mano, e tutti loro avevano un taglio di capelli diverso dal mio, diversi i vestiti. Imparai che proprio non sapevo come parlare, vestire, o persino sorridere.
Mi ricordo di essermi sentito come un impostore quel primo anno, mentre mi immaginavo di essere al centro di una cospirazione, ma avevo un compagno di stanza che comprò una grande quantità di erba, e mi mostrò come rilassarmi e lasciare che il mondo facesse il suo corso. Un brivido mi attraversa la schiena al ricordo di quei giorni, prima che imparassi la necessità del controllo e trovassi la mia via.
Mentre l'ascensore mi porta in cima, la mia mente ripercorre lo sguardo con il quale la ragazza mi ha lasciato. Miyamoto dice che il vero bushi si separa dal desiderio, ma tra le ombre di questa notte i suoi occhi hanno strattonato qualcosa, che è corso giù nel mio addome, in quel posto dove il chi è conservato, e sono costretto a pensare a Mabel, così passo il resto del mio turno a praticare meditazione guidata. Nella posizione del loto, chiudo i miei occhi e mi focalizzo sul Triangolo Blu, dove io conservo il mio Io senza Ego, cercando di non ricordare la risata di Mabel e le fossette alla base della sua schiena, il sapore del suo sudore, o l'acqua viola nella vasca che la copriva durante la nostra ultima notte insieme. Le interferenze dalla cabina telefonica sibilano, e io le reprimo.
Il mattino è un rumoroso sciabordio di sole bianco, e io sento St. Louis svegliarsi mentre salgo sulla funicolare. Gli uccelli si svegliano, le chiatte si svegliano, tutto chiama qualcos'altro. Una ragazza sta ferma alla base dell'arco in una blusa bianca senza maniche, mentre il vento le avvolge i capelli castani attorno al viso, e persino prima che lei se ne sbarazzi, so già chi sia.
«Il parco non apre fino alle nove,» le dico. Lei mi guarda con i suoi occhi di un verde sbiancato; i suoi capelli sono striati da sfumature di arancione. «Posso aiutarla, signorina?»
«Sei tu, vero?» dice.
«Come, scusa?»
Il vento continua a giocare con i suoi capelli. «Tu sei l'uccello-fantasma, vero? Lo sai che c'è un sito web su di te?»
Il mattino si fa più rumoroso e sembra troppo luminoso. «Cosa?» Se continuo a mentire, quali sono le mie possibilità? Lei è molto più bassa di me, e io considero la possibilità di utilizzare un yonkyo per la pressione del nervo radiale, e renderla incosciente. Ma continuerei ad avere un problema nel momento in cui si sveglia. «Cosa vuoi?»
«Te lo dico in un secondo». Si guarda attorno nel parco e su verso l'arco. «Possiamo andare a parlare da qualche altra parte?»
Una caffetteria che profuma di burro e glassa. Indossa molti braccialetti di corda e argento su un braccio; delle lentiggini scure le macchiano il naso e gli zigomi. Il suo nome è Erica Gleason, e mi sta raccontando la storia delle fenici e degli uccelli del tuono, impegnandosi a dare una spiegazione di qualcosa che non ha ancora detto. «Nel nostro corso uno dei miti che abbiamo studiato era come, attraverso la storia, in ogni cultura, alcune delle cose inspiegabili che la gente vede sono figure ornitologiche nere, enormi cose volatili con gli occhi luminosi. Vengono chiamati in molti modi, ma molte teorie insistono nel dire che i nomi non hanno senso»
«Erica...»
«Nel senso, angeli, demoni, mostri, qualsiasi cosa»
«Erica». Mi sporgo sul tavolo. «Cosa vuoi?»
Lei perde un po' della sua boria, e io sono subito dispiaciuto per aver interrotto quella che chiaramente è una sua passione. Sorseggia il caffè e guarda fuori dalla finestra. La gente si affanna sotto i semafori. I clacson si lamentano, i freni gemono. Di solito sono nel letto a quest'ora, a prepararmi per riposare durante il giorno.
Lei si volta verso di me. «Stavo giusto per dire che sono stata delusa quando ho scoperto che si tratta semplicemente di te»
«Come l’hai saputo, a proposito?»
Lei abbassa il capo e mescola il suo caffè. «Potrei dirlo dal modo in cui ti sei comportato... E io ho visto un ragazzo vestito completamente di nero che mi guardava con dei cannocchiali da una finestra nell'arco». I suoi occhi incontrano i miei con una consolazione. «Non l'ho detto a nessuno»
«Bene. Quindi. Cosa vuoi?»
«Okay. Ecco la questione». Mette giù il suo cucchiaino. «Voglio che me lo insegni»
«Insegnare cosa?»
«Il BASE jumping»
Cerco di dirle che non funziona così. «Non si tratta semplicemente di andare là fuori e fare BASE jumping. Ci vogliono anni per accumulare la conoscenza necessaria per il primo salto. È un processo di conoscenza continua. Ci sono delle volte in cui persino io lascio perdere»
«Ho fatto paracadutismo in passato»
«Quante volte?»
«Due»
«Cristo...» Sbaglio a descrivere i suoi capelli come castani. Sono più come il grano bruciato, con riflessi rame e ruggine. «Questo sport non c'entra niente col dimostrare qualcosa. È molto personale. Della gente c'è morta. Gente molto esperta si è fatta seriamente male ed è morta. Perché vorresti farlo?»
«Perché tu lo fai?» domanda, e l'immagine di Mabel che fluttua senza vita sotto le bolle di sapone alla lavanda fulmina i miei pensieri.
«Devi prima diventare esperta di paracadutismo. E dopo, ci sono comunque altre persone che possono insegnartelo»
«Ascolta, non ho detto niente a nessuno, okay? Non ti ho né denunciato né fatto nient’altro. Cioè, perché poi me ne stai parlando? Cosa aspetti?»
Sa che, riflettendoci su, io ho già accettato. I braccialetti di argento tintinnano sul suo polso; le sue labbra sono sottili e sbiadite; le sue clavicole vengono fuori come un doloroso albatros sul suo petto. Sto pensando Triangolo Blu, Triangolo Blu.
Nel mio appartamento la segreteria lampeggia, mostrando numerosi messaggi, cosa che mi rende inquieto, perché non so chi mi stesse chiamando. Dopo dieci mesi a St. Louis, conosco un proprietario di casa, un postino, e due ranger del parco che pensano io sia un pazzo per fare il turno che faccio. In Hagakure, Tsunetomo scrive che c'è una forza profonda nell'uomo solitario.
Nella segreteria c'è la voce di mio padre. «Ethan, sono tuo padre. Non riesco a trovare tua madre, figliolo, e sto cercando di mettermi in contatto con te. C'è bisogno che tu porti dentro i cavalli»
Il messaggio successivo è di un'ora dopo, la sua voce gutturale e lenta manda fuori parole con tono nasale. «Ethan, sono tuo padre. Non riesco a trovare tua madre, figlio mio, e sto cercando di mettermi in contatto con te. C'è bisogno che tu porti dentro i cavalli. Sembra che stia per piovere». Altri tre messaggi dicono grossomodo la stessa cosa, con l'aggiunta di un suggerimento a raccogliere alcune patate e carote, così che mia madre possa preparare la zuppa vegetale. La nostra fattoria è stata venduta un po' di tempo fa, dopo che mia madre è morta.
Chiamo Green Grove e parlo con la capo-reparto di questi messaggi. Lei mi mette in attesa, e quando torna mi spiega che ieri un'infermiera temporanea stava lavorando nel piano di mio padre, e questo spiega perché lui abbia potuto fare così tante chiamate. Si scusa per l'inconveniente. Nella mia stanza mi stendo su una stuoia di bambù al centro del pavimento e metto una maschera per il sonno sui miei occhi per sbarazzarmi del sole che filtra dalle imposte. Quando cerco di visualizzare una spiaggia su cui poter allineare il mio battito cardiaco con gli intervalli delle onde, vedo invece mio padre, in una mattina in particolare durante la mia prima estate a casa dal college: all'alba io e mia madre lo trovammo fuori in un campo di semplice erba avvolto solo in un lenzuolo a guardare fisso il sole. Quella mattina la luminosità lo travolse. All'inizio pensammo che stesse scherzando, ma negli anni successivi mi sono chiesto cosa stesse guardando esattamente.
Così l'oceano nella mia mente diventa una suono di cinguettii e scriccioli all'alba nella fattoria di mio padre, e dopo Erica incomincia a indottrinarmi con gli spiriti travestiti da uccelli mentre si sbottona la sua blusa bianca. Incapace di dormire, quello che desidero veramente è gettarmi da qualcosa.
Iniziamo un corso accelerato di caduta libera. È un programma di sette passi ideato per insegnare le regole fondamentali del paracadutismo; dopo questo corso, lei ha venti salti per diventare una saltatrice principiante. Ha i soldi per tutto questo. Suo padre è un avvocato della Dowling Industrial. Iniziamo da un piccolo Cessna con motore singolo all’interno del quale l’aria sa di alluminio e petrolio. La nostra panchina sferraglia e si flette; il motore scoppietta. Oltre il portellone c'è un ruggito radioso. Mentre stiamo aspettando che ci diano il segnale, Erica guarda la sua corda di sicurezza e dice, «Ci siamo. Geronimo»
«Non dirlo. Tutti lo dicono»
«Tu cosa dici?»
Ammetto con riluttanza, «Banzai
Lei annuisce e mantiene lo sguardo fermo, duro, che non tradisce nessun timore o eccitazione o paura.
A 12 500 piedi un salto non sembra nemmeno una caduta; è più come essere al centro di un'esplosione fredda. Si può vedere la curvatura del pianeta, la sferica superficie che strattona giù. Guardo il suo corpo ruzzolare, con la tuta di lancio di un rosso brillante, le braccia arcuate sulle spalle in una forma perfetta. Si fa più piccola e penetra nelle nuvole bianche, e io la perdo. Le mie braccia vanno dritte ai miei fianchi e mi tuffo. A circa 140 miglia all'ora vedo la vela del suo paracadute, un rettangolo rosso e increspato sotto di me. Le mie guance si rigonfiano col vento.
A terra lei non riesce a smettere di sorridere, mentre guarda in alto per vedere quello che abbiamo attraversato. Esulta e ride e mi propone di andare a bere qualcosa. Le dico che si tratta solo di un afflusso di adrenalina, e che non bevo.
L'aria di maggio è spessa e pesante, intrappolata sotto quel vapore purpureo che sopportiamo. Di notte mi preoccupo. Mentre sorveglio i suoli del parco, mi chiedo chi ci sia là fuori a guardarmi. Erica mi ha detto del sito web: L'uomo uccello di St. Louis. C'è un'immagine di un uccello nero con le zanne e occhi di fuoco, con spazi per messaggi e testimonianze dalla gente che mi ha visto. Si può ordinare una t-shirt.
Il paracadutismo non ha niente a che fare con il BASE jumping. Da un aeroplano si è troppo in alto e non si ha una vera percezione del fondo.Mu, il vuoto, non è così immediato; si può pure guardarlo di sfuggita, e essere avvolti dalla gravità è più come un abbraccio che come una violenta sottomissione. Premo le mie mani contro gli occhiali e considero la caduta, e la vita sognante della città dormiente sembra incredibilmente lontana mentre il mio riflesso guarda indietro nella finestra e i fasci di luce paralleli brillano dalla base dell'arco come una scala Zen.
Cinque salti dopo Erica mi dice che sua madre è un'artista che dà lezioni in casa, e che ha perso il seno sinistro tre anni fa per via del cancro. Stiamo mangiando un gelato, mentre passeggiamo nel centro commerciale, perché ha voluto comprarsi un nuovo paio di scarpe. Dice, «Sai, speravo davvero che tu fossi un animale sconosciuto, come un uccello-fanstama»
«Lo so. Ci credi in quella roba?»
Solleva le spalle e lecca il suo cono, mentre fa oscillare la busta della Foot Locker. «Penso di sì. Probabilmente. Ci sono sempre delle cose di cui non sappiamo nulla. Una volta negli anni Venti, in Texas, c’è stata una serie di avvistamenti di un uccello nero, grande quanto una città, appollaiato sulla luna. Adoro l'idea»
Strofina via il caramello dal suo labbro con un dito e lo lecca mentre mi fa un gran sorriso, e il mio chi mi colpisce di nuovo all'addome come se avessi ingoiato una piccola bomba.
La sua scuola termina per l'estate, così iniziamo a lanciarci più spesso. Tre volte alla settimana. Incomincia la sera mentre noi usciamo dalla pista di atterraggio. Lei dice che suo padre sta facendo dei turni più lunghi in questo periodo. L'EPA[1] sta dando filo da torcere alla Dowling Industrial.
«In ogni caso cos'è quella roba?», chiedo tracciando un arco nel cielo color lavanda.
Lei mi prende la mano, e smettiamo di camminare. «Non so cosa sia»
All'inizio sono imbarazzato, perché non ho alcun mobile nel mio appartamento, e il mio letto è una stuoia di bambù con un solo lenzuolo sottile. Con la luce sempre più affievolita dalla finestra la peluria sul suo seno e sulla pancia è lucente e bionda. Il sudore si raccoglie in un’insenatura salata nel suo ombellico. La sua pelle è più scura di quella di Mabel, e pesa meno.
Una certa ansia svanisce quanto più andiamo avanti. Il tocco è delicato. Come lo ricordavo, ma diverso.
«Dimmi della tua prima volta» mi dice, il viso arrossato e luccicante, le punte dei suoi capelli attaccate al mio petto.
Le dico del salto dal Bethel Bridge, nel Cypress Park. Non faccio parola della mia perversa curiosità di quella mattina, la chiara idea che avevo, mentre facevo penzolare i piedi dal ponte, di tenere stretto il paracadute piegato per tutta la discesa, e non lasciarlo mai andare dalla mia mano.
«Davvero», dice. «Perché hai iniziato a farlo?»
Sollevo le spalle e fingo di aver sonno. Non faccio parola della notte di quattro anni fa quando ho comprato per Mabel mezzo grammo di eroina e che lei è morta e scivolata nella vasca sotto l'acqua del bagno che avremmo dovuto far insieme quando sarei tornato a casa.
Vorrei spiegare che non sono semplicemente un ricercatore del brivido – che l'arco è il nesso tra la civiltà e le lande selvagge, e lì io occupo uno spazio tra spazi, dove la città e la foresta sono separate da una geometria perfetta di solido acciaio. Ma non parliamo, e quando chiudo i miei occhi, dalle fessure di uno scarlatto bruciante erompono e crepano la perfetta simmetria del mio Triangolo Blu.
La mattina successiva chiamo mio padre alla Green Grove. Lui mi pone le stesse due domande per quattro volte.
Erica vuole che io vada a conoscere sua madre e a «vedere una cosa». Posso indovinare cosa.
Sua madre, Carol, ha i capelli dello stesso colore di quelli di Erica, ma molto più corti. Lei mi chiede come sia lavorare nel serivizo di sicurezza del parco e mi guarda con gentilezza mentre mi descrivo come un amante della natura. Erica è calma. Quando guarda sua madre, entrambe non mantengono il contatto visivo per molto, e io trovo alcune somiglianze nei loro visi. Carol mi chiede dei miei hobby e ha uno sguardo distante nei suoi occhi. La sua voce sembra tremare quando parla; si tocca con assenza un orecchino, come se sia preoccupata di qualcosa ma non vuole crear disagio a nessuno. Mi ricordo che ha perso un seno quando era malata.
Il giardino nel retro è elaborato e ben curato. Un piccolo ruscello ci passa attraverso gorgogliando. Prendo un lungo respiro e confesso, «Non voglio che tu lo faccia».
La sua bocca si apre, ma prima che lei possa rispondere le dico «È troppo pericoloso» e cerco di prenderle la mano.
Lei incrocia le braccia e fa un passo indietro. «Sto bene così. Di cosa stai parlando?». Dalla finestra della cucina è visibile la nuca di sua madre. «Da dove ti viene?»
«È troppo presto. È troppo presto e troppo pericoloso. Non voglio che ti accada nulla». Non faccio parola del fatto che non posso sopportare di uccidere un'altra ragazza.
Il piccolo ruscello sciaborda fra di noi. «No», dice. «Ho ancora intenzione di farlo. Dimenticatelo. Lo farò». In seguito, mi dice che non verrà al nostro appuntamento a 10 000 piedi di altezza, e so che non saremo mai più insieme su un aereo. Mi accompagna nella sua camera da letto, dove la sua attrezzatura è sparpagliata sul pavimento.
«Questo è quello che volevi farmi vedere?»
È una vela Ace 240 e una sacca Perigee II. Neri. «Proprio come i tuoi», mi dice, e si muove verso di me. «So come si fa», mi dice. «E potrei farlo. Ma ti sto chiedendo di farlo per me»
«Dai, Erica, per favore». Mi permette di stringerle le mani.
«Lo farò comunque, okay? Sia che tu lo faccia per me o no. Ma mi fido di te». Mette la sua testa sul mio petto. «Voglio ancora farlo, ma mi fido di te, okay?»
Annuisco.
Faccio ruotare il Perigee II sul pavimento, le imbracature sono verso il basso, e ripongo con solennità il fascio funicolare. È un’attività seria. Divido i gruppi di funicelle e tiro lo slider su per la vela, osservando che il bordo superiore della vela sia appeso tra mie ginocchia e che il bordo posteriore invece sia lontano da me. Lei si siede sul letto guardandomi alle spalle. La stanza profuma di lei, come una giovane, vivace ragazza: alcune combinazioni di fiori e cipria, lozioni e frutta.
Continuo a lavorare con il tessuto tra i gruppi di funicelle fino all'esterno delle funicelle stesse, e continuo a scandagliare in quel modo ogni porzione della vela. È come ripiegare una fisarmonica. L'idea è quella di mantenere tutti i punti di attacco delle funicelle verso il centro della sacca di contenimento, con la tela ripiegata verso l'esterno. Il letto cigola alle mie spalle, e i suoi polpastrelli mi massaggiano la nuca. Ridefinisco con cura le pieghe precedenti. Prendo il centro del bordo posteriore e lo porto in alto e lo tengo sotto il mio pollice. Dopo fascio la parte posteriore e la ripiego su se stessa. Ripongo le funicelle nella tasca inferiore e posiziono la vela nella sacca. Dopo respiro.
Lei mi bacia in testa. «Grazie»
Dormiamo separati questa notte, e io passo due ore nella posizione del loto con la schiena eretta, definendo mentalmente il mio cerchio del potere, cercando di ricostruire il mio Triangolo Blu.
Le primissime luci di un sole che sorge. Una falsa alba dopo che la luna svanisce. Ora i gas nell'aria hanno finalmente iniziato a stabilizzati, così sebbene il cielo sia di un indaco abbastanza normale, la spessa nebbia sotto il Bethel Bridge è opalescente, scintilla di rosa e viola. Lei indossa dei pantaloni larghi e neri e una canottiera, con il Perigee piegato sulla sua spalla, imbottiture sulle sue ginocchia, i capelli nascosti nel caschetto. Anche io ho addosso la mia attrezzatura.
Entrambi guardiamo giù nella nebbia, che luccica e ondeggia sotto il ponte. Gli alberi di pino e gli arbusti sono silenziosi; ogni cosa esiste sotto una sottile, offuscante coltre di aria colorata che ci separa.
«Non si può nemmeno vedere il fondo», le dico.
Lei sta guardando in basso. «E quindi? Conto fino a tre, giusto? E lo vedrò quando sarò laggiù»
«Vorrei non farlo». Le mie mani cominciano a tremare non appena lei sale sulla ringhiera. «Erica...»
«Non devi per forza. Io sì. Ci vediamo giù»
Ha fretta, ingoia i respiri e non riesce a smettere di guardare giù. I suoi occhi sono nel panico, e mi ricordano quelli di sua madre. Dopo, quando noto quella somiglianza, capisco cosa ci sia fra di noi, cosa deve averla spinta verso di me e il vero motivo per cui siamo qui fuori.
«Erica, aspetta. Se pensi che questo ti salverà dall’aver paura... non lo farà. La paura non si ferma. Non lo farà mai»
Lei mi guarda confusa e scuote il capo. «Cosa? Io non... non ho mai detto una cosa del genere». I suoi occhi rimangono fissi sulla nebbia scintillante. «Non l'ho mai detto».
Si alzano rumori di sottofondo: uccelli cinguettanti, cose che si azzuffano sugli alberi e che frusciano nell'erba. L'intelaiatura comincia a rimbombare per via delle macchine in lontanza.
Sulla punta della struttura lei afferra il suo pilotino, le sue nocche sono bianche. Mi guarda e finge un sorriso. «Okay. Ci vediamo a terra». Prende un enorme respiro e si lancia, lasciando uno sbuffo di nebbia che rimane lì dove lei l'ha formato.
Mi precipito sulla ringhiera e guardo giù. No, ascolta, vorrei dire. Quello che noi pensiamo sia un gesto di libertà, vedi, è sintomo della nostra gabbia. Ma lei è andata. Non riesco a vedere oltre la foschia, il buco che lei vi ha fatto si è già richiuso, e mi arrampico sulla cima dell'intelaiatura.
Cosa posso fare se non seguirla fino in fondo?
Prima degli esseri umani qui c'era un fiume profondo, che trasportava tonnellate di vita tra gli oceani. Ora la nebbia oltre il ponte concede solo un solco acciotolato di fredda, secca pietra. Un giardino sotto il gas viola. Le rocce colpiscono i miei piedi quando eseguo il mio atterraggio perfetto.
Al suolo lei è sulle sue ginocchia, la vela le sventola attorno. Il mio paracadute mi segue strisciando come una bandiera nera. Siamo piccoli tra le felci giganti e l'edera che cresce all'interno dei muri frastagliati in questo abisso. La sollevo e comincio a toglierle l'imbracatura. Sta tremando. Si allunga verso la mia schiena per togliere la mia. Una lacrima le riga il viso dietro gli occhiali di protezione. Mi dice che credeva di essere sul punto di morire. Le cinghie scorrono verso il basso e io sento la morta resistenza del mio paracadute scivolare via.
Promettiamo di non farlo mai più.
Compro un materasso fatto di gel che promette di dar sollievo alla sagoma della mia schiena. Compro lenzuala di cotone. Erica mi porta più cuscini di quanti nessuno ha mai avuto bisogno. Cambio i miei orari così lavoro solo per tre turni di notte.
Erica vuole che le insegni le arti marziali, così uso il mio salotto vuoto per mostrarle le figure di aikido che conosco. Tutti gli atterramenti di kokyu nage finiscono con noi che lottiamo e ci sporchiamo sulla moquette.
A lavoro continuo ad apprezzare la vista, ma quando contemplo il Mu e l'obbiettivo del bushi di unirsi al vuoto, i miei piedi sono pesanti. C'è un rimbombo nervoso nel mio stomaco e una leggera vertigine quando guardo giù dalla finestra del mio ufficio. Per quanto riguarda la mia realazione con la gravità: Incomincio a chiedermi se sia mai esistita, dal momento che "gravità", dopo tutto, è solo un nome dato a un particolare fenomeno. Medito sull'isolamento come regola fisica che governa questo universo: la massa attrae altra massa perché la singolarità non è naturale, senziente o no, e l'unità base della vita non è una, ma due. I pianeti e le lune si formano, e le persone si congiungono perché qualcosa nel cosmo cerca di mantenerle unite. Oltre l'arco una tenue tonalità di lilla nell'aria è tutto ciò che rimane di quello che prima era una nuvola pesante che distorceva i nostri cieli in questi ultimi due mesi. La Dowling Industrial ha finito col patteggiare con l'EPA per cinque milioni di dollari e un nuovo sistema di ventilazione che potrebbe risucchiarti gli occhi dalle orbite.
Per la fine di luglio, il padre di Erica lascia la madre.
L’ingresso al Green Grove è falsamente antisettico. La carta da parati rosa e il tappeto sono decenti, ma le piante sono di plastica e una musichetta di sottofondo suona a volume sommesso. La signorina Teschmaucer, la capo-reparto, si avvicina con compassione. Le infermiere al Green Grove indossano delle uniformi celesti con grembiuli blu scuro, e profumano di infermiere, di sapone Ivory e di alcool disinfettante.
Lei mi prende per un braccio e mi accompagna attraverso gli anziani sorridenti, che mi guardano come se io potessi essere qualcuno che una volta hanno amato. «Voglio solo che sia preparato», mi dice, dando un colpetto al mio gomito.
La stanza di mio padre è otto per quindici metri quadrati con i muri beige e una moquette color salmone. Due sedie alte formano una V a sinistra della televisione, che è posizionata su un cassettone di legno standard. Una libreria contro un muro, con alcune foto di mia made e me e i suoi genirori, una Bibbia, alcuni fiori. Il suo letto è fatto alla maniera militare, le lenzuola così tese che ci si potrebbe rimbalzare. Lui ha rifatto così il suo letto per tutta la vita, e mi chiedo se certe cose spariscono veramente, azioni che sono così giuste che non possono essere mai disimparate, non importa cos'altro si dimentica.
Si siede su una sedia a dondolo, indossando la sua vestaglia e il suo pigiama, guardando fuori dalla finestra nell'angolo più lontano della stanza.
«Jacob?», dice la signorina Teschmaucher, guidandomi verso di lui. «C'è Ethan. Tuo figlio, Ethan».
Si volta dalla finestra e guarda in alto verso di me. Il volto di mio padre è una superfice perdutamente allargata di carne e macchie cutanee; ha una mascella ancora prominente e un rimasuglio di capelli bianchi tra la calvizie sulla testa. I suoi occhi blu esaminano lo spazio dove ci troviamo. Lui sorride lentamente e annuisce. La sua mano, secca, tirata, si allunga ad afferrare la mia.
«È' bello vederti... davvero bello», dice, con quel tipo di tono di voce che non si userebbe se non per fingere.
«Ciao papà»
Si volta verso la finestra e ispeziona il bucolico spazio verde che assomiglia a un parco, posizionato nel cuore del complesso di Green Grove. La signorina Teschmaucher e io ci scambiamo degli sguardi, e dopo mio padre tocca la mia mano.
«Sono preoccupato per il prato là fuori. Sembra secco questa stagione».
Mi accovaccio accanto a lui e osservo fuori dalla finestra. «Non è poi così male». Emana lo stesso profumo: tracce di cologna di Brut che si spruzza ogni giorno da quando lo conosco. Gli metto un braccio attorno alla spalla.
Mi chiede, «Conosci Susie Frenesi?»
«No,» gli dico.
Si volta verso la finestra, poi di nuovo verso di me. I suoi occhi brillano di una gioia improvvisa. «Bill? Dove sei stato?»
Prima, avevo uno zio di nome Bill, il fratello più piccolo di mio padre.
«In giro. Sai»
«Sono preoccupato per l'erba là fuori»
Mentre raggiungiamo l’ingresso, la signorina Teschmaucher dice che questa deteriorazione continuerà e che non dovrò sentirmi ferito dalla sua incapacità di ricordare chi sono. Non sono ferito. Lui è il primo a cui tutto sia stato gradualmente rimosso, la sua identità è andata via, anni caduti come la pelle che viene mutata in preparazione per una nuova primavera. Non appena esco dall'edificio, guardo mio padre vicino alla sua finestra ispezionare il prato, e io ho l'improvvisa visione del Mu che lo chiama, il luminoso vuoto che si avvicina a lui con una presa abile e sinistra, portando nella sua luce tutto quello che lui era una volta.
È il momento che le cose siano portate via.
Il momento in cui ho trovato una brochure per il Bridge Day fra i libri di testo di Erica. Il Bridge Day è l'incontro annuale di tutti i praticanti di BASE jumping a Fayetteville, nel West Virginia. Per un giorno a Ottobre il BASE jumping è reso legale sul New River Gorge Bridge.
Lei torna nella sua stanza indossando una canottiera e dei jeans, i suoi capelli tirati indietro, e le sue guance leggermente incavate. Ha perso peso.
Brandisco il volantino. «Non avrai intenzione di farlo sul serio, vero?»
Lei alza le spalle e comincia a raccogliere delle cose, spostando vestiti larghi lì in giro e sistemandoli nei cassetti.
«Ehi. Non lo farai, vero?»
Lei mi guarda e si lascia andare sul suo letto, gettando un braccio sui suoi occhi. «Non lo so. Ci stavo pensando»
«Pensavo che avessimo chiuso con tutto questo. Pensavo ne avessimo già parlato»
Continua a tenere un braccio sugli occhi. «Tu non devi fare nulla che non vuoi», dice. Non cambiando posizione, con una mano usa un telecomando per accendere lo stereo. I Pixies cominciano a cantare troppo forte per una conversazione.
Quella notte non prendo pace nel mio materasso nuovo e oscenamente comodo. I miei pensieri si concentrano sul corpo di una ragazza che cade attraverso lo spazio, con un paracadute che si apre un secondo più tardi per poterne fermare la caduta. Il suo corpo si spezza sulla roccia e sulle pietre, la vela le si poggia dolcemente sul corpo. La gente si ammassa intorno, e quando quel sudario le viene tolto, il volto che io vedo è quello di Mabel. Mi fa male lo stomaco, una serie di crampi che non sentivo da quando ho avuto la mia prima crisi d'astinenza, quattro anni fa.
Dormo sul pavimento.
È un momento di transizione, quando gli occhi dell'estate si chiudono e inizia l'autunno. L’I Ching mi dice che il mio Yin dominante è Terra su Fuoco, che significa “Ferita all'Illuminato”. Confucio consiglia «È di beneficio essere determinato ad attraversare l'angoscia».
Poiché me l'ha chiesto, preparo il paracadute di Erica in vista del Bridge Day. Dopo le dico che non potremo mai più rivederci.
Si arrabbia. «Cosa? Dici sul serio? Solo perché non farò quello che mi hai detto di fare?»
Vuole provocarmi, ma nella mia mente sono un perfetto Triangolo Blu, e il mio cuore è calmo, un lento muoversi di onde in una spiaggia interna. «Perché non voglio essere lì alla tua morte»
«Cosa? Alla mia...» Alza le braccia. «Nessuno è mai morto al Bridge Day»
«Non è vero. Nel 1983 e 1987»
Erica mette le mani sulle anche e guarda con sarcastico disgusto. «Pazienza. Non ho intenzione di essere come qualche folle BASE jumper. Cioè, guarda chi sta parlando. Qual è il tuo problema?»
Il mio Triangolo perdura. Sono un ordine di tre linee perfette, battendo di un color zaffiro freddo. «Non posso perderti» e quello che sto pensando è, Sono stanco che tutti scompaiano.
«Quindi, okay, aspetta». Si siede sul letto e crea un piccolo riquadro con le mani. «Per evitare di perdermi, tu mi lasci?»
Non mi aspetto che ne capisca la logica. Mi chiama codardo. Dice che sono io quello impaurito. Mi volto per andarmene, e lei mi dice che sono come un drogato: Non so fare i conti con la vita e quindi mi isolo con abitudini e idee. Dice che sono il Frankestein della filosofia orientale. Non mi volto di nuovo, perché non penso che ci possa essere altro da dire.
Cosa puoi dire a qualcuno che ami che non sa tollerare le proprie paure?
Faccio un salto al Green Grove durante la giornata, e riconosco mio padre seduto alla sua finestra mentre guarda i rami degli alberi che frusciano per via degli scoiattoli. Non penso spesso a lei.
Un giorno mio padre non è alla sua finestra. Guardo, faccio un'inversione a U, ci passo di nuovo, ma dove c'era lui vedo solo una lastra luminosa di vetro che riflette il sole. So che al momento deve essere da qualche altra parte a Green Grove, eppure mi fermo per osservare, e in quel quadrato piatto e splendente della finestra sento di poter vedere mio padre, forse per la prima volta, con assoluta chiarezza.
Riprendo i miei vecchi turni a lavoro.
Guardo fuori dalla finestra quando arrivano le tre del mattino, mentre stringo la mia imbracatura. Attraverso il vetro, le foreste rimangono ancora misteriose, si allungano senza limite nell'oscurità, mentre dall'altro lato dell'arco una città batte luminosamente, ribolle e vibra con taciti movimenti. Sollevo la sciarpa a coprirmi il naso e abbasso le lenti dei miei occhiali per la visione notturna, e il mondo diventa un'idea confusa di spettri color smeraldo. Ora mi dico che non sto sormontando i sogni della mia cultura, ma che vi sono immerso.
Sono come quel gigante nero appollaiato sulla luna, un'idea che esiste fra la diceria e l'immaginazione, la forma che si spera di vedere quando ci si azzarda a guardare in alto in cerca di qualcosa a tarda notte.
Ora sono come un mito, un UFO, un uccello della tempesta, e questo ruolo si porta le sue concessioni, la sua promessa di rituali e referenza, mentre in basso, da qualche parte nella zona selvaggia o negli appartamenti lungo il fiume, con i telescopi puntati fuori dalle finestre, le persone aspettano di vedermi, pronte a modellarmi in qualsiasi cosa loro decidano di credere che io sia. Apro la finestra e lascio che la mia gamba scivoli fuori. Il vento mi accarezza. Stringo il pilotino.
Ora sono un fantasma.
Banzai.