venerdì 23 dicembre 2016

Tra qui e il mar giallo di Nic Pizzolatto

Tra qui e il Mar Giallo


Interstatale 10, dopo mezzanotte, diretti a ovest. El Paso, ora. Il coach Duprene dice di poter guidare fino al mattino. Scivoliamo in avanti su un asfalto vuoto, ma io sto guardando Amanda, raffigurandone l’aspetto dei tempi del liceo: col seno piccolo in un’uniforme da cheerleader, capelli castano ramato, occhi verdi, lentiggini spolverate sul naso. La steppa lascia il posto al deserto, con colori viola e arancione appena percettibili, allucinati. E una tale immensità notturna su una terra piatta e monotona mi fa capire perché certe persone possano aver paura degli spazi aperti.
«Lo vedi?» chiede il coach.
«Cosa?»
Usa una bottiglia di Jose Cuervo per tracciare un arco sul parabrezza. «Tutte le stelle sono sparite. S’è fatto buio pesto».
Mi sporgo dal finestrino, nell’aria esplosiva, e lui ha ragione. Attorno a noi non c’è altro che oscurità e, sebbene il cielo sia invisibile, so che sta per arrivare un temporale. «Sta per piovere».
Mi passa la tequila. «Come fai a saperlo?»
Picchietto la cicatrice sotto il mento. «Mascella rotta».
Il metallo nella mandibola inferiore si contrae, cosa che succede solo quando l’aria è satura di elettricità. Ho una X di acciaio cucita nella mandibola perché quando avevo quattordici anni, convinto delle mie potenzialità, cercai di entrare nella squadra di football. Fu sette anni fa. Il coach, allora, era ancora il coach dei Port Arthur Toreadors. Non avevo mai fatto nel passato delle audizioni, ma sono andato a molte partite. Io ero il ragazzo seduto tranquillo, che si intravedeva tra i padri urlanti, e che stava di fronte al campo per guardare le cheerleader in rosso e blu che saltavano e battevano le mani. La mia cheerleader preferita era la figlia del coach Duprene, Amanda. Dalla pelle di miele. I suoi occhi si chiudevano quando sorrideva. Il tipo di cheerleader che prestava attenzione, anzi si preoccupava del punteggio. Seguiva la partita mentre il resto della squadra agitava i capelli o discuteva di cosa indossare per la festa seguente.
«L’hai detto», dice il coach, e io mi chiedo se non stessi pensando ad alta voce. Lui annuisce al parabrezza schizzato dalla pioggia. Sono abituato a pensare ad alta voce, soprattutto quando mi sposto col furgone. In questo periodo, lavoro ancora per la Lone Star Environmental, a Port Arthur, e i miei giorni trascorrono guidando per le strade con una lavagna, annotando i livelli di fosforo e ammoniaca negli spartiacque, assicurandomi che i contadini non vadano a spargere la merda delle galline sui loro campi. La sera mi si può beccare al Petro Bowl o da Chili, mentre cerco di offrire da bere a maestre delle elementari e segretarie, ma a lavoro guido da solo, dalle cinque alle sette ore, e in quei giorni tendo a narrare i miei pensieri, trasformando le mie osservazioni in racconti. Rilke scrisse «Ama la tua solitudine, per la solitudine è difficile». Ricordo a me stesso di non pensare ad alta voce.
La pioggia diventa più intensa, e prima di raggiungere Las Cruces un torrente straripa, nascondendo la strada sotto una coltre d’acqua. Il metallo si contorce nell’osso della mandibola. I tergicristalli non fanno granché, e il coach accosta, strizzando gli occhi. Prende una pillola da una bottiglietta di plastica marrone.
«È abbastanza tardi». Manda giù la pillola. Ci stendiamo sui sedili, mentre la pioggia martella. Si accascia contro il finestrino e si tira giù il cappellino da baseball. Il coach non è più un coach, ma riceve comunque uno stipendio generoso dalla Port Arthur High, e mantiene il titolo onorario di coordinatore sportivo, che è quello che si ottiene nel Texas orientale con otto vittorie del campionato di distretto e tre titoli a livello nazionale. Lo guardo respirare, rilassato, mentre la pioggia fa sembrare i finestrini dei torrenti, e cerco di collegare l’uomo che dorme così tranquillamente al mio fianco con l’uomo che conoscevo un tempo, il furioso comandante dal viso granitico sugli scalini dell’atrio, sui bordi del campo. Cerco di capire come abbia fatto ad arrivare a questo punto. Lo faccio perché, in questo periodo, una delle mie principali abitudini è quella di cercare collegamenti causali, scovare delle storie, e passo un sacco di tempo a combinarle col passato, come se le risposte fossero lì. Sono in un periodo in cui mi muovo in tondo, e in cui do per buone le parole dei poeti e degli uomini famosi. Ho finito il liceo da quattro anni, vivo nella casa che mia nonna mi ha lasciato e fino a quando il coach e io a un certo punto non raggiungeremo Los Angeles, non smetterò di cercare risposte.
La mia guancia riposa contro il finestrino, perché è freddo, e allevia il pulsare della mia mascella. Il coach comincia a russare.
Ero lì il giorno in cui lei andò via. Tagliavo i prati all’epoca, e la domenica lavoravo nel giardino accanto alla casa del coach Duprene. Una Chevrolet Blezer rossa parcheggiata sul loro vialetto di casa. In quel pick-up c’erano quattro ragazzi della scuola che conoscevo. Il cassone finì con l’abbassarsi per via di scatoloni e borse, e una tavola da surf. Il liceo era finito, e loro si stavano tutti trasferendo in California. Il coach Duprene stava a osservare dal portico, e non salutò con la mano quando il pick-up scivolò via.
Qualcuno, ora possiamo dirlo, avrebbe dovuto fermare quella Chevrolet. Non è un segreto. Lei gira dei film sotto il nome di Mandy LeRock. Ne ho visto solo uno.
Lampi di luce sulla pianura illuminano il mio riflesso sul finestrino piovoso, e mi rendo conto che non sto raccontando tutta la storia. Ci sono due storie qui. Nella prima ci sono io seduto accanto al coach Duprene nel suo pick-up. Stiamo guidando verso Los Angeles per rapire sua figlia.
Nella seconda storia, il riflesso sul vetro, sono un adolescente di nome Bobby che vive con due donne di generazioni diverse, una madre e sua madre, in una vuota landa di pascoli. Quel ragazzo dorme in una stanza senza aria condizionata e taglia i prati per avere una paghetta. È uno studente e un atleta, ma segue solo le lezioni. I suoi voti sono buoni e, nel suo taccuino, disegna sempre lo stesso disegno da ogni prospettiva: un cacciatorpediniere della marina militare mentre subisce il contrattacco a largo della costa del Vietnam del Sud.
Ciò che unisce le storie, il loro collegamento causale, è Amanda Duprene. Eravamo compagni di laboratorio al primo anno. L’ora di biologia è dopo pranzo. Non posso reggere gli esercizi di dissezione, così Amanda si occupa del taglio. Trovo rifugio dall’ammoniaca e dalla formaldeide nel profumo dei suoi capelli e del suo corpo: shampoo, creme, sudore. Il venerdì indossa la sua uniforme da cheerleader. Gran parte di questi lunghi giorni sono alleviati dalla vista del sole che si muove sulla parte posteriore delle gambe di Amanda, da l’una fino alle due del pomeriggio. Questa è la ragazza che sto cercando.
Dopo si verificherà una seconda ricerca.
Sarà compiuta una volta tornati a casa, tramite un’agenzia investigativa di Huston la cui specialità è rintracciare la gente. Si chiama Reunions, Inc.; mi costa 300 dollari e si prende due mesi per dare risultati. Il loro rapporto mi viene inviato via posta in una busta da lettera bianca con stampato sopra il logo della compagnia: due palmi che sorreggono tre persone che si tengono per mano sotto un sole giallo scintillante.
Per ora, dunque, fuori da Las Cruces, sembra che siamo parcheggiati sotto una cascata. Il coach russa. Avrei dovuto portare qualcosa da leggere. Questo è l’accogliente e familiare isolamento che provo a lavoro, quando mangio il mio pranzo nella cabina di un furgone, e leggo, diciamo, un libro di Saint-Exupéry sui piloti nel deserto. Dopo guido il furgone della compagnia per strade sporche che si allungano per miglia e miglia senza incontrare un’abitazione, nebbiosi campi di sparti dorati e grano maturo che si estendono fino all’orizzonte; controllando nelle falde acquifere i picchi di ammoniaca e la fioritura di alghe; girandomi verso il posto vacante accanto al mio a raccontare storie.
La campagna s’increspa con colori incandescenti. Le superfici danno l’impressione di esser state ripulite con degli esplosivi. Ci siamo dati una rinfrescata in un’area di sosta per camion a Tucson, e sto classificando le cose che vedo grazie alle brochure che abbiamo preso lì. Cactus cholla e piante grasse del deserto. Artemisie. Atreplici. Tutte le nuvole sono accatastate su una cima in particolare delle montagne della contea di Manicopa, come un ritratto di un vulcano. A Theba decidiamo di pescare la nostra cena. È pomeriggio inoltrato; una sottile diramazione del fiume Gila divide un campo di alte sterpaglie.
Il coach incomincia a immergersi in una pila di incerata e arnesi nel retro del suo pick-up. «Sai fare un lancio a bobina aperta?» mi chiede.
«No. Non so niente di pesca».
«Davvero?».
«No».
«Bene. Cosa sai?».
«Niente».
«Credo di avere una bobina chiusa qui. Come è possibile che tu sia cresciuto a Port Arthur senza imparare a pescare?»
Sollevo le spalle e lascio che il coach scuota la testa mentre scava in cerca di una canna da pesca. Come dovrei rispondergli? Dovrei raccontargli delle storie su cosa significa crescere ascoltando i ragazzi che raccontano storie di pesca? I termini che usavano erano per me come segrete parole d’ordine: i leader, lo streamer, lo spinning. L’erba è alta e soffice. Il torrente fa un rumore acquoso e raccoglie la luce.
Il coach trova una canna da pesca e dice «Preparerò la lenza per te».
Mi mostra come applicare un peso fatto di pietra. Mi spiega il miglior modo per mettere una salamandra brillante ed elastica sull’amo. Il lancio col mulinello rotante è semplice. Do uno scatto col polso e la salamandra vola, tracciando un filamento luccicante. Ed eccoci qui, il coach Andre Duprene e Robert Corresi che pescano – illegalmente, credo – tra gli alberi di Yucca e pietre colorate. Guardo i polsi dell’allenatore, il modo con cui le sue mani richiamano la lenza non appena è stata lanciata, e imito i suoi movimenti.
Qualsiasi coach dirà che l’imitazione e la ripetizione sono delle tecniche di apprendimento fondamentali. Ma cosa potresti imitare se fossi un ragazzo che per diciassette anni si è svegliato in stanze soffocate da profumi e cipria? Diciamo, per esempio, ogni volta che i tuoi vestiti venivano stesi su un filo, erano attorniati da reggiseni e mutandine rigonfie – quelle di tua madre, striminzite e di pizzo; quelle della nonna allargate e grandi quanto vele. Diciamo che certe cose erano sempre alla periferia dei tuoi sensi: l’odore di calze da donna bagnate, il rosso dei rossetti, le confezioni dei tamponi. Ti sei scottato un’infinità di volte su arricciacapelli dimenticati in giro.
Un sacco di volte eri nervoso e non sapevi perché. L’ora di biologia è il momento più importante dei tuoi giorni. Ore ad aspettare l’autobus dopo la scuola, le cheerleader a guardare gli atleti, quei bei fusti pieni di grazia nei movimenti in campi bruciati dal sole.
Nella primavera dei tuoi 14 anni, due settimane dopo aver letto In our time, fai un’audizione per la squadra di football, e Eric Dempsey ti rompe la mandibola. L’autunno seguente, la mamma di Amanda muore.
Sono così perso in queste fantasticherie che la canna quasi mi schizza dalla mano. «Ehi, Ehi», dico, e l’allenatore mi dice di sollevare, tirare la canna e riavvolgere la bobina. La lenza lampeggia, muove l’acqua, si ferma. Si allenta e risale, e la salamandra è stata strappata via. Il coach tiene su l’amo.
«Ha una cosa che ti appartiene. Quando senti strattonare, tira, fai in modo che abbocchi all’amo. Dopo lavoratelo un po’. Lascialo divincolarsi, e fai in modo che l’amo scavi fino in fondo». Il coach mette un’altra salamandra sull’amo e ritorna al suo posto, circa 50 piedi più in là. Quello strattone alla lenza mi rallegra. Per il resto della sera tengo la canna tra le mani, sorridendo come un idiota. Il coach prende due trote, io ne perdo altre due.
Le cuciniamo su un fuoco che il coach ha acceso in una radura. Trova delle salse piccanti sotto alcuni vestiti nel suo pick-up. Il sole è quasi sparito. Ora sono le nove. Sfumature di blu.
«Ha un buon odore» dico.
«Sono buone». L’allenatore ha un’altra pinta di Jose Cuervo. Il pesce scoppietta e crepita. «Bene», dice, «credo sia meglio mettere le cose in chiaro su come abbiamo intenzione di farlo».
Annuisco. Il fuoco rende i nostri visi arancioni e tremolanti.
Ci salta in mente di individuare l’indirizzo preso dalla videocassetta che posseggo. L’indirizzo appartiene all’American XXXtasy, la produzione dei film di Amanda. Incominciamo da lì. Trovarla. Il coach ha rubato il cloroformio dal laboratorio di chimica. Dopo, dice, assumerà qualcuno per la deprogrammazione. A quanto pare, negli anni ‘70 si è dovuto deprogrammare molte persone, e il coach ripone molta fiducia in questa idea.
Ci sediamo intorno al fuoco che si affievolisce, dividendoci la seconda pinta di Jose Cuervo della notte. Non sono abituato a bere roba forte. Di solito si tratta solo di una Heineken, mentre cerco di parlare con le segretarie al Petro Bowl, tra il martellante fracasso dei birilli. «Da dove continuano a venir fuori queste bottiglie?»
«Sono andato a comprarle prima di partire». Si accende una sigaretta. Il coach indossa dei buoni stivali da cowboy, in pelle d’anguilla bordeaux, e una camicia di jeans che aveva da quando era più magro. Ha conservato una testa piena di capelli rossicci e grigi, ancora tenuti nel suo taglio militare. Mi passa la bottiglia. «Mi hai detto che tuo padre era un militare?»
«Della marina», tracanno la tequila.
«Ero un pilota di jet, sai».
«Lo so».
Fa un lungo tiro alla sigaretta. «E cosa gli è successo?»
«L’USS Mullinix. Si è beccato il contrattacco mentre ricatturavano Quang Tri. Mio padre era sottoufficiale. Non l’ho mai conosciuto». Questa è la storia a cui ho creduto per gran parte della mia vita, e mi sento ancora a mio agio nel raccontarla. «Travis Corresi era uno dei cinque uomini dispersi».
«Maledizione», dice l’allenatore con malinconia, sollevando la bottiglia.
Solo cinque mesi fa, morendo di cancro al pancreas, mia nonna mi ha detto che Travis Corresi non ha mai servito sull’USS Mullinix. Era solo un marinaio mercantile fermatosi a Port Arthur per una settimana nel 1973, quando mia madre aveva quindici anni. Sono usciti insieme solo una volta.
Il coach cicca la cenere nel fuoco. I suoi occhi brillano tra una ragnatela di rughe, e io riesco a immaginare un evento per ogni linea disegnata: volare in Vietnam, allenare i Port Arthur Toreadors per quindici anni, perdere una moglie di nome Marguerite di encefalite, perdere nello stato della California l’unica figlia. La pelle attorno ai suoi occhi è un catalogo di delusioni cesellate nella pelle. Prende il Vicodin ogni due ore. Penso che le cose sarebbero state meglio per lui se avesse avuto un figlio.
Cambiamo discorso per parlare del giorno in cui mi sono rotto la mandibola.
«Me lo ricordo», dice. «Eri tu?», fa un gran sorriso. «Accidenti ragazzo, Dempsey ti ha sistemato bene, eh?»
Riporto la conversazione su Amanda. Incominciamo a bere più velocemente.
La sigaretta trema tra le sue labbra. «Sai, Aveva in sé della gioia pura. Maggie diceva» – fa un lungo tiro ed espira – «quella è una ragazza felice».
Annuisco. «Era sempre allegra».
«Beh». Corruga il viso. «Ma aveva un carattere. Le cose dovevano andare per forza così». Il coach fa un gesto affettato con le dita. Il nostro fuoco arde sotto le ceneri, il bagliore rosso sta morendo. Rimaniamo in silenzio finché non butta fuori il fumo e parla espirando con evidente sforzo. «Non verremo condannati da nessun tribunale».
«Assolutamente». Ricordo di aver detto la stessa cosa due notti fa, durante la conversazione da cui tutto questo ha avuto inizio. Stavamo entrambi bevendo da soli al Petro Bowl, e ho visto un ragazzo alto con una giacca da baseball lasciare un gruppo di adolescenti e avvicinarsi al coach alla fine del bar. Quei ragazzini sghignazzavano mentre guardavano il loro amico porre una domanda al coach. Il coach ha preso per la gola il ragazzo e l’ha lanciato su un tavolo. Ho tirato via il coach, e lui ha continuato a divincolarsi nella mia stretta finché non gli ho detto in un orecchio «Coach, coach. Anche io l’amavo» Abbiamo finito col prendere una bottiglia e sederci nel suo pick-up, a ricordarla ad alta voce.
La testa del coach si abbassa. Le sue mani gli cadono sulla pancia e sospira. «Quando hai detto che siete usciti insieme?»
«Non siamo usciti. Eravamo solo amici»
Annuisce e si solleva mantenendosi su un copertone. Apre il portellone posteriore e sale nel cassone; il metallo cigola, e il resto della roba sferraglia. Grida, «ehi – è lo stesso un rapimento anche se non si chiede un riscatto?»
«Sì»
Ancora sferragliamenti, e, dopo, il fisso raspare di quando russa. Mescolo le braci con un legnetto. Voglio credere che stiamo facendo la cosa giusta – che quella ragazza là a ovest sia la stessa che ho conosciuto al liceo, e tutto ciò di cui lei ha bisogno è ricordare chi sia. Rilke ha detto di «innalzare le sensazioni sommerse dell’ampio passato», ma dopo comprenderò che questo è un consiglio elusivo, perché la memoria non è interpretativa. Dopo mi renderò conto del fatto che le aree di sinapsi in cui risiede il ricordo sono le stesse in cui risiedono brama e desiderio, e a volte la memoria è solo un veicolo per questi due.
Ma persino ora, accanto alla brace del nostro fuoco che si smorza, non credo nelle mie motivazioni. Questo è uno dei miei tratti fondamentali, e quasi affonda le sue radici nella mia mascella rotta – il piccolo pezzo di metallo che attraversa il mio mento mi ricorda che ciò che voglio e ciò che sono autorizzato a fare sono generalmente due cose separate. Per comprende quello che intendo, bisogna immaginarmi a quattordici anni: uno e settanta di altezza, 58 chili, in una imbottitura per le spalle troppo larga e un caschetto che potevo rimuovere senza doverlo aprire.
Il sole di aprile soffoca il campo. Le cheerleader siedono sugli spalti, a giudicare il mondo e nascondere sigarette. Mastico il mio paradenti compulsivamente. Ho passato molto tempo a leggere di Nick Adam, dell’andare in guerra, dell’essere sparato. Incontro sguardi di derisione, che sanno della mia etica, che immaginano teorie riguardo al dolore e all’onore. Quando ci muoviamo per fare una difesa a campo libero, sono il primo volontario.
Il coach Duprene mi mette contro Eric Dempsey, un ragazzo dell’ultimo anno, alto più di uno e ottanta, che è della seconda linea difensiva. È abbastanza crudele. Ma in quel momento, penso «Mi sta prendendo sul serio. Mi sta dando una possibilità».
Quando il fischietto squilla, il coach lancia la palla a Eric. Non esito. Tengo il baricentro basso e allungo la schiena affondando la testa nelle spalle e guardando in alto. Non lo schivo e non punto alle sue ginocchia.
Una ventata improvvisa, e in realtà sento di essermi spezzato. Dolore rosso, agghiacciante. Mi rotolo per terra, il sole mi pugnala gli occhi, l’erba in bocca, gusto di rame caldo, sporco. Prima di spegnermi, do un’occhiata alle ragazze sugli spalti, piccoli punti di colore tutti su una riga.
Così, a 21 anni, credo che la lezione di vita più importante sia che bisogna ridurre i desideri, o questi potrebbero infiammarsi fino a far rompere una mascella. Quella croce di sutura in metallo ha tinto le mie aspettative di paura. I miei occhi guizzano nell’oscurità. Un tronco, una luna, il rumore del vento sulle rocce. Il coach sonnecchia. Suoni immaginati echeggiano nelle mie orecchie: il clangore dei birilli da bowling che cadono, l’artiglieria che scoppia sulla prua di un cacciatorpediniere. La mia mascella dorme. Niente pioggia.
I pali del telefono sembrano croci nel sole. Un grande cartello verde dice BENVENUTI IN CALIFORNIA. La testa dell’allenatore si piega e si rialza. Penso stia prendendo più Vicodin.
«È la prima volta che mi spingo così tanto a ovest» dico.
Il coach guarda la strada in silenzio e con gli occhi annebbiati. Giocherella con la radio e trova una stazione in cui Merle Haggard canta Mama tried. Il giorno in cui sua madre morì, l’interfono chiese ad Amanda di uscire dalla classe di storia. Dal modo in cui raccolse i suoi libri capii che se lo aspettava. La guardai andar via desiderando di raggiungerla attraverso la finestra, mentre lei camminava sul sentiero di cemento. La sua tristezza era così concreta per me, così vicina.
A San Diego prendiamo l’autostrada 15, direzione nord. Più tardi saliamo in uno spazio elevato di segnali: slogan e scritte in grassetto dai colori primari. Le macchine si accalcano attorno a noi. Mi chiedo se mia madre sia mai venuta così lontano. La sua prima cartolina veniva dal Nevada. Ci sono cinque cartoline tutte insieme, conservate in una scatola di scarpe alla base del mio armadio. Metti che un giorno verso la fine dell’ultimo anno di scuola torni a casa e tua madre non c’è più. Tua nonna ti dice che tua madre vuole star via per un po’. Una nota criptica che comincia con «Ora che hai diciassette anni», e parla del fatto che ogni persona ha bisogno di «seguire il proprio cuore». Le chiamate arrivano una volta alla settimana per due mesi.
Non guardo più le cartoline. La scatola di scarpe rimane chiusa.
Le macchine ci spingono e noi ne veniamo fuori, salendo più in alto sul pendio di cemento. Sotto di noi ci sono parcheggi ovunque, come se noi stessimo volando su una città fatta solo di parcheggi. L’aria diventa una coltre radiosa, una nebbia sbiancata. Enormi costruzioni svaniscono in questa foschia. Qualcosa sta bruciando – il tanfo è quello tipico di qualcosa di stantio, in decomposizione.
Il coach aggrotta il viso. «C’è un odore terribile». Biascica le parole. Una Volvo ci suona quando giriamo nella corsia sbagliata. Nel febbraio del mio ultimo anno di scuola raccontarono una storia nello spogliatoio della mio gruppo di atletica leggera. Dicevano che Amanda si era data alla pazza gioia. Tornando da una partita di basket sull’autobus della squadra, era accaduto qualcosa di folle. Ululati e risa. Mi vestii in fretta, cercando di non crederci.
Il pick-up stride sopra le nostre spalle. Il coach chiude la macchina sbattendo il portellone in un parcheggio. «Dobbiamo capire dove diavolo siamo». Le sue pupille ondeggiano in un’oscurità sanguigna. «Tu... devi guidare tu».
Sprofondo nel posto del guidatore. Il motore rimbomba e il coach crolla sul finestrino. Con le mani sul volante, mi sento nuovo e utile. Questo è quello che vediamo: serbatoi secchi di cemento, asfalto ovunque, aria distorta dal caldo. Messicani. Gente che indossa occhiali da sole assomigliante a insetti. Minimarket e cartelloni – immagini di carne muscolosa e abbronzata, scollature. Do uno sguardo ai miei bicipiti magri e pallidi.
Una volta vidi Amanda attraversare un campo da football inondato, calciando l’acqua a piedi nudi, e io escogitai un programma per diventare muscoloso in un anno. Gli appunti sull’auto-miglioramento si accumulano ancora per casa: «un frammento di sacro dovere ti salva dalla grande paura». «Ogni dolore è il risultato del desiderio». «Le persone sono generalmente tanto felici quanto decidono di esserlo». Ma un po’ di tempo dopo Los Angeles, me ne sbarazzo. Le carte scricchiolano quando le colpisco, e i miei passi rimbombano sui pavimenti di legno per tutta la casa.
A una stazione di benzina il coach aspetta nel pick-up mentre un iraniano mi aiuta con la mappa. Dice che il codice postale 91411 è «a valle». Dobbiamo andare ancora più a ovest. Il coach butta giù due pillole di Vicodin. Le strade e i marciapiedi irradiano calore come una padella.
L’American XXXstasy è una parte della schiera di negozi nella San Fernando Valley. L’insegna è un affare di lettere rosse su porte di vetro grigio, colorate per non permettere di vedere l’interno. Poche macchine nel parcheggio. Tramonto. Una collinetta si alza in lontananza alla fine dell’area di negozi, e sulla cima si trova il T.G.I. Friday’s. Il coach sta ancora guardando fuori dal finestrino. Picchietta con le unghie contro il portellone, e accarezza la bottiglia marrone di cloroformio. Non ha detto una parola da quando ci siamo fermati per chiedere indicazioni.
«Perché non rimani qui?» dico. «Fammi andare a vedere cosa riesco a scoprire».
Fa un passo incerto verso fuori, la testa piegata. «Verrò con te».
«Ascolta, Coach. Fammi parlare con loro... mi inventerò qualcosa. Credimi, ho una specie di piano». Gli chiedo di darmi la sua patente e gli ripeto di fidarsi di me. Lo lascio appoggiato alla macchina.
L’ufficio ha una moquette di un verde color lime, pestata e chiazzata di bruciature di sigaretta. Ha un vago odore di disinfettante e vasellina. Una porta dietro la scrivania all’entrata è chiusa. I muri sono decorati da vari poster: La madrina parte IIVengo nel futuro e uno con Mandy LeRock con un impermeabile trasparente sotto un ombrello – La donna della pioggia 5: l’occhio del ciclone. Questo non è il suo seno. Una segretaria mi accoglie, una donna più vecchia con un pelle bruciata – arancione, sottile come carta. Indossa occhiali da vista svasati.
«Posso aiutarla?»
Sorridendo, le mostro le nostre patenti. «Siamo entrambi di Port Arthur, Texas. Abbiamo fatto una lunga, lunga strada».
«Cosa vuole?»
«Lo vede quell’uomo laggiù?» oltre la vetrina il coach sta afflosciato contro il cassone, sbuffando soffi di fumo. «Sua figlia è un’attrice». Indico il poster di Rainwoman. «Il suo vero nome è Amanda Duprene. È del Texas. La stiamo cercando».
«Mi dispiace, ma non abbiamo il permesso di...»
«Signora. Non vogliamo causare problemi. Ma è che – la questione è che... lui sta per morire. Sta per morire e vuole solo vedere la sua unica figlia prima di andarsene».
Lei osserva fuori dalla vetrata, superando con lo sguardo le mie spalle,. Nel parcheggio il coach sembra ripiegato su se stesso. La sua schiena è curva, e tossisce in una mano, il fumo lo ricopre e si dissolve nella luce del tramonto. Sembra veramente malato.
«Stiamo cercando di rintracciarla. Questo è tutto. Non daremo problemi a nessuno».
Per qualche motivo sospira. «Cos’è?»
«Come?»
«Cos’ha?»
«Cancro al pancreas»
«Oh, Signore» mette le mani sulle labbra. «Solo un minuto. Okay? Torno in un attimo». Prende le nostre patenti e va nella stanza sul retro, aprendo la porta solo quel tanto che basta per passarci. Un momento dopo riappare. «Signore, può entrare». Il mio cuore sobbalza, ma oltre la porta c’è solo un’altra scrivania con dietro un ragazzo magro. Da un sacchetto di McDonald’s si spargono per la scrivania delle patatine fritte.
Il suo volto è segnato dalle cicatrici dell’acne. Controlla le nostre patenti. «Siete veramente voi?» dice, mentre succhia i suoi polpastrelli. La segretaria ferma con le mani la porta d’ingresso.
Racconto la storia del cancro del coach mentre osservo le pile di videocassette sul tavolo, spiegando quanto sia stato difficile accompagnare quell’uomo anziano da Port Arthur a qui. L’uomo mastica le patatine mentre parlo. Alla fine mi dice di dargli un numero di telefono e che il massimo che può fare è passarlo ad Amanda. È spiacente, ma non può dare l’indirizzo, soprattutto alla famiglia.
La donna mi ferma davanti la porta d’uscita. Mi passa un pezzettino di carta gialla. «Tu non sai da dove salta fuori questa cosa», dice, e mi dà un colpetto sul braccio. Sul foglio c’è un indirizzo.
Il coach annuisce e cade sul suo posto. Tornati in strada, guarda il cloroformio e dice, «Non so. Non so se usarlo».
Ci mettiamo altre due ore per trovare l’indirizzo.
Una casa stile ranch in Van Nuys. Palme nane e felci, palme increspate e senza fogliame. Una Corvette gialla sul vialetto. Dalla struttura di una finestra a golfo, una luce color limone è adagiata su tre rettangoli di prato verde ben curato. Attorno ci sono case simili, aria calda e accogliente. Parcheggiamo in strada e spegniamo le luci.
«Quindi cosa vuoi fare?»
La sua testa, reclinata, si gira lentamente. «Vattene a casa».
«Andiamo. Ci avviciniamo alla porta? Aspettiamo che esca lei?»
I suoi occhi sono punti smaltati, assorbiti da rughe e pieghe.
«Coach?»
Chiude gli occhi. Respiri affaticati. «Va’ a vedere»
«Io?»
«Va’ a vedere». Stringe il cloroformio in un gesto di rassicurazione.
La luce del portico è spenta, e un bagliore soffuso color rosa viene emesso dal campanello. Cammino verso di quello, attraverso l’oscurità tra le finestre, il campanello come la fine di un tunnel.
Vorrei guardare i suoi occhi verdi, il sorriso che li ha sempre fatti chiudere. Ricordo il suo viso illuminato da una fiamma tremolante del becco di Bunsen, la sua risata che scoppiava come coriandoli. Una volta, l’ho vista allontanare con uno schiaffo la mano di Wendell, uno studente al terzo anno di liceo, dalla sua gonna, e ho sentito il travaglio di un’adolescente. Il modo in cui la sua mente era piena di desideri – un nodo di emozioni che saliva costantemente in superficie, che la inondava, la trasportava attraverso i campi tormentati della periferia, superati i centri commerciali e lunghi acri di erbacce, dritto nei sedili posteriori delle macchine, nei cassoni dei pick-up.
Busso. Di nuovo. «Chi è?» arriva da dietro la pesante porta di legno.
«Amanda Duprene?»
«Chi è?» ripete la voce.
«Ehm, Robert Corresi? Da Port Arthur?». La lampada del portico s’illumina e la luce mi acceca. Il film che ho io si chiama Il garage del Diavolo, e ha la piatta, falsa trama di qualcosa girato in un video. La protagonista della storia ha bisogno di far riparare la macchina, ma non ha abbastanza soldi. La porta si apre per la lunghezza di una catenella di sicurezza, e il muso di un cane nero spunta annusando in quello spazio. Un paio di occhi castani, femminili e iniettati di sangue, scivolano su di me. La porta si chiude, e sento lo scorrere del metallo.
In quel secondo in cui la porta si apre scivolando, prendo coscienza del mio aspetto, anche se mi ricordo di non avere più l’acne e che il mio taglio di capelli è migliore di quello che avevo al liceo. Lei ha la pelle scura, e i suoi capelli rossicci sono stati tinti di nero. Trattiene un Rottweiler marrone e robusto per il collare. La luce all’interno le scolpisce le forme, rendendo la sua vestaglia di un blu quasi traslucido. La sua voce è quella di sempre ma più cruda, profonda. «Io ti conosco».
Si manifesta nella luce, diventando concreta, come se si stesse spostando dal posto dove io l’ho conservata nella mia mente, dritto verso di me. Le sue sopracciglia sono rifinite in onde perfette; le sue guance e il suo petto brillano di creme. Lei mi guarda, gli occhi screziati di rosso, e inclina il capo. «Io ti conosco».
«Robert. Liceo. Eravamo compagni di laboratorio».
Il cane mugola, e lei si accovaccia per grattargli le orecchie. «Silenzio, Pete». Guarda in Alto. «Bobby? Bobby Corresi?».
«Robert. Nessuno mi chiama più Bobby».
«Che ci fai qui?».
«Volevo vederti. Abbiamo guidato a lungo».
Lancia uno sguardo superando le mie spalle «Noi chi?».
«Io e tuo padre. Tuo padre è qui. Abbiamo guidato fin qui per vederti...».
«Cosa?» Amanda si muove e mi supera, e io vedo il coach fermo nell’oscurità dietro il suo pick-up, solo pochi tratti ne sono visibili. Lei lo indica con rabbia. «Perché l’hai portato qui? Cosa vuoi? Portalo via!».
Prima di poter ribattere, un uomo fa un passo nel portico. È quasi del mio peso, ma con muscoli scolpiti e una pelle tostata. Indossa una canottiera bianca, pantaloni da jogging, e un sacco di orecchini. I suoi capelli corti e gelatinati rimangono dritti. Mette un braccio attorno alla vita di Amanda e mi guarda. «Cosa sta succedendo, piccola?».
A mala pena gli dà retta. «Niente». Ritorna su di me, e mi chiede, «perché l’hai portato qui?». Grida guardando oltre le mie spalle. «Rimani lì! Tu non ti avvicini a questa casa!». Il suo cane continua a saltellare, scattare, soffocarsi col suo stesso collare, e ad abbaiare per via della foga nella voce di Amanda. L’uomo accanto a lei muove gli occhi da me al coach, e poi di nuovo su di me. In tutto questo, mi accorgo con severa chiarezza di quanto sia dolce il suo profumo.
Mi guarda con fare accusatorio. «Quindi?».
«Amanda. Posso parlarti? Per favore... solo per un secondo. Abbiamo fatto davvero una lunga strada. Voglio solo parlarti».
I suoi occhi si socchiudono sospettosi, e il suo cane mi annusa la patta dei pantaloni.
«Per favore».
Sbuffa rumorosamente. «Aspetta qui». E sbatte la porta e mi lascia qui, in un cono di luce sul suo porticato. Mormorii arrivano dall’interno della casa. Il fumo delle sigarette del coach s’increspa nella forma di un tulipano spettrale nel lato opposto del suo pick-up.
Quando la porta si apre di nuovo, Amanda punta oltre le mie spalle. «Lui non può entrare. Rimane fuori». L’uomo che le sta vicino cammina fuori dal porticato e urta con forza la mia spalla mentre passa. «Anche Tony resterà qui fuori». Si posiziona dietro di me con le braccia incrociate.
Lei e il cane fanno un passo indietro, e io entro prima in un atrio con una composizione di fiori secchi su un tavolo di marmo niente male, e dopo in una luce soffusa e l’aroma di incenso – al gelsomino, probabilmente – un blu tremolante di una tv in un salotto, con un arredamento di cuscini spessi e marroni. Pareti bordeaux, immagini di paesaggi, un tanfo che arriva dalla cucina. Amanda ammutolisce la tv.
Mi fa cenno di sedermi sul divano, e piega le gambe sotto di lei, coprendole con la vestaglia. Il cane Pete si è steso fra di noi su un cuscino. Sento il mio petto stringersi. Le sue labbra sembrano punte da un’ape, e immagino sia collagene o qualcosa del genere. I suoi respiri sono troppo ritmati e fermi sotto la vestaglia. I suoi occhi sono castani.
«Okay», mi dice «ti do cinque minuti».
«Noi ecco... cioè, io sono venuto per aiutarti, credo. Vogliamo riportarti a casa».
Fa roteare gli occhi e ride. «Bene. Vabbè. Perfetto».
«Senti...».
«No, tu senti. Cosa credi... mi stai giudicando? Tu prendi mio padre là fuori, e, e cosa...» si strofina il naso e parla velocemente. Sebbene qui l’aria sia fresca, sono comparse sul suo sopracciglio delle gocce di sudore. «Voglio dire, cosa sai tu? Noi siamo, cosa, compagni di laboratorio al primo anno di liceo? Così tu mi conosci, o che altro?». Ha delle occhiaie di un grigio marcato. Non posso reggere il suo sguardo.
«Indossi lenti a contatto ora?»
«No». La domanda la confonde. «Ascolta», fa un gesto che comprende tutta la stanza. «Do l’impressione di una che ha bisogno d’aiuto?» Accarezza il cane con forza. «Voglio dire, non prendo droghe da quasi un anno». Fissa le unghie dei piedi tinte di viola. Sulla sua caviglia c’è un tatuaggio cuneiforme. «Non faccio un film da quattro mesi. Voglio dire, non penso neanche di farne altri. Probabilmente. Ho ricevuto delle offerte tipo, dalla tv e cose del genere». Si ravvia i capelli, e spazzola via qualcosa dal cuscino del divano. Ricordo quel suo modo di ravviarsi i capelli. Ha sempre fatto quel gesto. Riconosco così poche cose in lei.
«Ma non sei felice. Meriti di più di questo...».
Getta le mani in aria. «Visto? Questo è quello di cui sto parlando. Tu vieni qui e, cosa, perché non ti piace il modo in cui vivo?»
«Dai...».
«No, dai tu. Sul serio, Bobby. Ho una notizia per te. Il mondo è molto più grande di Port Arthur, Texas. Okay? Molto più grande. Il dannato modo in cui vivo non sono affari tuoi, come non lo sono di quell’altro coglione là fuori».
«Tony?»
Si acciglia con sarcasmo. «Mio padre». Si strofina il naso. «Questa è la mia vita. La mia. Devi preoccuparti della tua di vita, va bene? Io ti vengo a dire come vivere la tua vita? Cosa fai, comunque?»
Esito per un attimo. «Lavoro per la Lone Star Environmental. Supervisiono le falde acquifere».
Applaude. «Wow. Fantastico. Non hai mai lasciato la città, giusto? Non sei mai andato al college, giusto?»
«Non lo so, non ancora, ma...».
Posa la testa su una mano e ride. «Non posso credere che tu sia venuto davvero fin qui. Non posso credere che hai portato qui mio padre ». Mi fissa intensamente. «Hai fegato».
Guardo le immagini alle pareti, quadri con paesaggi calmi e spiagge solitarie, e tutto quello che riesco a pensare è di provare a convincerla di quello in cui ancora credo. «Ti ho vista una volta. Era al secondo anno. All’inizio del secondo anno. Credo che non avessi l’ottava ora quel giorno, ma aveva appena piovuto, e io stavo aspettando che suonasse la campanella, sai? Annoiato, il cielo di quel grigio strano, luminoso ma non blu, e volevo solo andare a casa».
Si tira l’unghia del pollice.
Mantengo lo sguardo fisso sui paesaggi nei quadri mentre parlo. «E ho guardato fuori dalla finestra, e ti ho vista. Stavi camminando per il campo da football con la tua uniforme, ti eri tolta le scarpe... e con tutta calma calciavi l’acqua con i piedi. Potevo vederne gli schizzi. Ti rigiravi ogni tanto. Stavi guardando in alto nel cielo, e ti ho persa nel sole attraverso il vetro. Sai? In quel punto dove la luce del sole si infiammava nel vetro. E hai fatto un passo fuori da quel fascio di luce, calciando l’acqua, con la tua gonna, guardando con molta distrazione. Non si trattava solo del fatto che fossi bella – lo eri, ma non era quello». Tutti gli anni conservati nella mia memoria si condensano nel linguaggio, e credo che questo non sia ancora abbastanza per rivendicarla. «Ricordo che pensavo di sapere cosa ti distraesse. Sai? Sebbene non sapessi come chiamarlo, o metterlo a parole, avevo questa sensazione, un sentimento veramente calmo, e io ero sempre nervoso, credo, ma un sentimento... come se il mondo fosse un posto buono, perché potevo vederlo attraverso i tuoi occhi».
Il cane cerca la mia gamba e si lamenta lentamente, con un pianto soffocato. Un telegiornale riporta una storia silenziosa in tv.
Chiude un po’ la sua vestaglia e tocca la mia guancia. «Bobby. Ascolta, sei un tesoro. Davvero». Fa sparire i suoi occhi con un sorriso tenue che quasi echeggia quello che ricordavo. «Però sono sicura che fossi fatta. Prendevo un sacco di acidi all’epoca».
Le sue dita seguono la mia mascella, fermandosi sul mento. «Sei dolce. Ma devi pensare alla tua vita».
Dato che non posso guardare nulla se non lei, chiudo gli occhi.
Qui è dove tutte le mie storie convergono. Ogni momento perduto fra l’esperienza e la memoria s’incontra a un incrocio: la X di metallo nella mia mandibola, dove le sue dita sono puntate come la canna di una pistola.
«Posso avere altri cinque minuti?»
«No».
Qualcuno lancia un grido, e io apro gli occhi.
Ci spostiamo fuori, da dove viene l’urlo. Qui vicino, appena fuori il porticato, il coach è seduto sul prato e si regge il viso fra le mani. Tony incombe su di lui, i pugni serrati.
Tony fa sporgere la mandibola. «Ha detto che aveva intenzione di entrare. Gli ho detto di no».
È difficile non provare pena per il coach, sgretolato sul prato in quel modo, a dibattersi con un palmo sugli occhi, eppure ci riesco. Vado verso di lui, Tony si ferma davanti a me. «Ne vuoi un po’ anche tu?»
«Tony», Amanda lo chiama alle mie spalle. «Forza. È tutto a posto. Vieni dentro».
Il coach si allunga verso i miei piedi, tenendo il cloroformio in mano come un’offerta impotente. La porta sbatte.
Dico al coach di salire in macchina.
Nel posto del guidatore, lancio il cloroformio fuori dal finestrino. Lui sbatte di nuovo il suo portellone con un livido sull’occhio sinistro. «Ha funzionato alla grande», sbotta.
Lo studio, seguendo le linee del suo viso con gli occhi, e continuo a guardarlo dopo che i nostri sguardi si incontrano. Guarda verso il finestrino, e lo osservo ancora per qualche secondo prima di girare la chiave.
Il motore si accende, sussultando, e ci muoviamo.
Ci sarà una seconda ricerca. A Port Arthur vedo una pubblicità per la Reunion, Inc. Perché c’è un’altra domanda a cui rispondere, un pezzo di inconsapevolezza che non continuerò a sopportare. Li chiamo. Per i due mesi successivi continuo a lavorare per la Lone Star Environmental, lasciando che gli insulsi campi e gli estesi cieli limpidi passino come cornici di una pellicola sovraesposta, senza raccontare storie, e prendendo campioni di terreno e testando l’aria col naso in cerca di contaminazioni. Solo occasionalmente in questo periodo penso sul serio al coach Duprene.
Abbiamo fatto il viaggio di ritorno in silenzio. Io guidavo, e il coach teneva la sua faccia sul finestrino. Altopiani color argilla e orizzonti viola. Una mezza idea di montagne nella foschia distante. Il suo rimorso tanto tangibile quanto la strada sotto le nostre ruote.
Non ci rivedremo più.
La Reunion, Inc mi manda il rapporto che mi è costato 300 dollari. La busta sta sul tavolo della mia cucina per un giorno intero. Il logo della compagnia sembra che stia provando a intimidirmi. Dopo cinque birre apro la busta e prendo due fogli di carta. Questo è quello che dicono:
Travis Corresi è un disperso. L’ultima volta che lo si è visto era un ufficiale in seconda sul SS Mary Charles, una nave mercantile che è affondata nel Mar Giallo nel 1989. Ma, questo, l’ho sempre saputo. Per tutta la mia vita mio padre è sempre stato un morto nel mare.
Tirando ogni stralcio di filosofia, ogni massima nella casa, getto le note, facendo un unico mucchio, e decido che tutto quello che è successo in precedenza è un’unica storia, la stessa e lunga storia, e se questa non finisce, i prossimi dieci anni potrebbero essere come gli ultimi dieci, un periodo di ansiosa immobilità che ti ha visto piegato, nervoso, come un topo nell’angolo, che ti ha lasciato a piangere una vita che non hai mai avuto veramente.
Quella vita è frammentata in scene che a malapena ricordi, il loro significato dovuto solo alla loro incapacità di imporsi l’uno sull’altro, finché questa vita, questi momenti, diventano come un paio di occhi verdi che sei convinto di aver visto una volta, che occhieggiano verso di te nel cielo di una lunga notte errante, mentre ti domandi perché stai guidando a quell’ora, e come sei riuscito a renderlo a te familiare. Anni che non puoi ricordare, perché sei troppo impegnato a mascherare della vera tristezza con una falsa nostalgia.
Così la casa è messa in vendita. L’altra notte hai deciso di non impacchettare nulla, e di passare il tuo tempo a guardare la lunga prateria recintata lungo la strada.
Ora potresti immaginare la tua prossima storia, la tua seconda storia, ma non essere troppo preciso, non avere una visione a cui aggrapparti, non creare un’idea in cui perderti. Non guardare una mappa e non meditare sulla profondità del Mar Giallo; non immaginare la forma delle sue onde. Non ruminare su genitori perduti, o ragazze perdute. Resisti alla necessità di spiegare le loro storie, perché forse non hai afferrato che una risposta non è una soluzione, e che una storia a volte è solo una scusa.
Se proprio devi, concediti di immaginare l’umore generale della storia, i luoghi in cui potrebbe accadere, come sarebbe il clima. Dì a te stesso che sarà quantomeno un mondo in cui ti senti meno abbandonato, e dove sei sostenuto da più di una illusione. Se proprio devi.
Va via prima di cambiare idea.




giovedì 20 ottobre 2016

Una favola maledettamente inquietante

“And when they seem to be growing up, which is against the rules, Peter thins them out.”

“Tutti erano assetati di sangue ed i bambini non facevano eccezione, ma quella notte erano fuori solo per dare il bentornato al proprio capitano. Il numero dei bambini sull'isola non è costante, varia a seconda di quanti ne vengono uccisi. E quando sembra che il loro numero cresca troppo, cosa che è contro le regole, Peter interviene per ridurlo.”

Ecco quello che avete appena letto non è un estratto di un racconto del terrore magari di King o Ligotti o Lovecraft. Per nulla. Si tratta di un passaggio (tratto dal capitolo 5) estratto dalla novella “Peter e Wendy” dello scrittore J. M. Barrie – 1912. Proprio così. Avete capito bene, sto parlando di Peter Pan.
Ecco, qualche giorno fa, un mio amico mi ha fatto venire a conoscenza di questo episodio: “Te lo sai che molte storie della Disney sono racconti dell'orrore?” mi dice.
“Non dire stronzate, dai.” gli rispondo.
“Giuro. Prova a leggerti qualcosa, prova con le novelle che hanno originato i personaggi più importanti. Prova con Peter Pan.”
Tac. Sono andato in libreria, – il libretto non era disponibile perciò me lo son fatto ordinare – dopo qualche giorno è arrivato, l'ho letto e sono rimasto letteralmente scioccato. Ecco, a me Peter Pan mi ha sempre inquietato, così, senza un'apparente motivo, sin da piccolo: vola, uccide i pirati e piace a tutti (beh, quasi a tutti). Ma non avevo mai capito il perché, semplice apparenza, credo.
Adesso lo so.
Leggendo quel passaggio, che non esplicita nulla di più, non si riesce a capire cosa intenda in senso stretto quel “interviene per ridurlo” però non è molto difficile da interpretare; le cose sono due: o riporta i Bambini Perduti indietro, sulla Terra, o li ammazza stesso lì, sull'isola che non c'è. Leggendo qualche articolo sul web che tratta questa vicenda, qualcuno ha azzardato l'ipotesi che probabilmente, quindi, i pirati altro non sono che ex-Bambini Perduti riusciti a scampare alla morte per mano di Peter Pan.
Ecco, cazzo, è inquietante. È una favola maledettamente inquietante. Volevo dirvelo. 

martedì 17 maggio 2016

Poe e il paradosso di Olbers

Scriveva Poe nel suo poema in prosa Eureka:

Se la successione delle stelle fosse infinita, lo sfondo del cielo avrebbe una luminosità uniforme, come quella della nostra Galassia – perché non potrebbe esserci assolutamente nessun punto, in tutto lo sfondo, privo di una stella. Il solo modo, perciò, in cui potremmo comprendere i vuoti osservati dai nostri telescopi in tutte le direzioni, sarebbe di supporre che la distanza dello sfondo è così grande che nessun raggio luminoso possa aver ancora avuto il tempo di raggiungerci.”

Ci aveva visto lungo, mi viene da dire, il buon Edgar riguardo il paradosso di Olbers. In Eureka scriveva che "l'universo ha un'origine nel passato e che è in evoluzione.", un'idea pionieristica, quasi assurda per quell'epoca (metà dell'Ottocento), ma forse corretta.
Ma cos'è il paradosso di Olbers? In parole semplici, è la risposta alla domanda: Perché il cielo notturno è buio?
Se l'universo è pieno di stelle e galassie, per quale motivo la luce proveniente da queste non si somma, rendendo il firmamento sempre luminoso?
Se l'universo, lo spazio, fosse infinitamente grande e fosse sempre esistito, ci aspetteremmo che il cielo notturno sia chiaro, perché sarebbe illuminato dalla luce di tutte queste stelle/galassie. In ogni direzione tu, io, noi guardassimo nello spazio, troveremmo una stella. Invece no; per esperienza sappiamo che lo spazio è scuro.
Nel corso degli anni molti scienziati hanno proposto la loro soluzione; la teoria più accreditata è che l'universo ha un'età finita (intorno ai 15 miliardi di anni) per cui noi possiamo vedere solamente la luce delle stelle/galassie/ammassi che si trovano a meno di 15 miliardi di anni da noi perché la loro luce non ha ancora fatto in tempo a raggiungerci e quindi non può ancora illuminare il "nostro" cielo. La luce, in fin dei conti, ha comunque una velocità finita.
Altra teoria prodotta nel 1929 da Edwin Hubble: l'universo si sta espandendo. Se si espande, quindi, miliardi di anni fa era molto meno esteso di oggi; ergo, più le stelle, le galassie, si espandono, più "fuggono" dal nostro punto di osservazione.
Poe, quasi cento anni prima della formulazione di queste teorie, si era (forse) avvicinato alla soluzione. 
Motivo in più per apprezzare questo genio assoluto della letteratura mondiale.






venerdì 13 maggio 2016

Flash Fiction

La microstoria è un genere letterario caratterizzato dall'estrema brevità. E' un genere abbastanza controverso, non esistono infatti delle regole ben precise; per alcuni scrittori si possono considerare flash fiction, storie che non superano le 300 parole, per altri invece le 1000 parole.
Naturalmente nel tempo, c'è chi è riuscito a scrivere racconti ancora più estremi, come Hemingway (solo 6 parole, proprio così, avete letto bene!), Gaiman, Baxter e anche Arthur C. Clarke.

Qui sotto vi lascio i miei preferiti, poche righe (già pubblicati in questo blog), vi assicuro che non affaticherete i vostri occhi!

Ernest Hemingway:
-"In vendita. Scarpe da bambino. Mai usate."

David Brin:
-"Collisione nel vuoto. Le orbite divergono. Addio, amore."

Stephen Baxter:
-"Big Bang. Nessun Dio. Dissolvenza. Fine."

Frederic Brown, titolo "Toc Toc", questo testo in particolare è un incipit dello stesso autore al racconto Knock. La frase viene molto spesso attribuita (erroneamente) a Stephen King che l'avrebbe citata in un'intervista giornalistica:
-"L'ultimo uomo sulla Terra sedeva da solo in una stanza. Qualcuno bussò alla porta."

Neil Gaiman:
-"Sono morto. Mi sei mancato. Bacio...?"

Arthur C. Clarke, titolo "siseneG", leggendo il titolo bifronte notiamo a chiare lettere Genesis:
-"E Dio disse: ELIMINA linee da Uno ad Aleph. CARICA. ESEGUI.
E l'Universo cessò di esistere. Poi ci rifletté per alcuni eoni, sospirò, e aggiunse: CANCELLA.
Non è mai esistito."

giovedì 28 gennaio 2016

L'Ultima Risposta (Isaac Asimov)




L'ultima domanda venne posta per la prima volta, quasi per scherzo, il 21 maggio 2061, in un momento in cui l'umanità cominciava a intravedere finalmente un po' di luce. La domanda era il risultato di una scommessa di cinque dollari, nata durante una bevuta, ed ecco come andò la cosa:

Alexander Adell e Bertram Lupov erano due dei fedeli assistenti addetti a Multívac. Sapevano - così come era dato saperlo a due esseri umani - che cosa c'era dietro la fredda, lampeggiante, ticchettante faccia - chilometri e chilometri di faccia - del gigantesco calcolatore. Avevano se non altro una nozione vaga del piano generale di relay e di circuiti che da tempo aveva superato il limite oltre il quale una singola mente umana non poteva assolutamente conservare una chiara visione d'insieme.

Multivac si auto-regolava e si auto-correggeva. Doveva essere così, perché nessun essere umano poteva regolarlo o correggerlo con sufficiente rapidità o in modo adeguato. Così, Adell e Lupov badavano al mostruoso gigante solo in modo leggero e superficiale, e al tempo stesso come meglio non era possibile, trattandosi di uomini. Vi inserivano dati, adattavano le domande alle necessità del calcolatore e traducevano le risposte che questo forniva. Senza dubbio, tanto loro due che gli altri loro colleghi avevano pieno diritto di bearsi della gloria che spettava a Multivac.

Per decenni, Multivac aveva dato una mano, per così dire, a progettare le navi e a calcolare le traiettorie che mettevano in grado gli uomini di arrivare sulla Luna, su Marte e su Venere ma, al di là di quelli, le scarse risorse della Terra non consentivano alle navi di affrontare il viaggio. Troppa energia era richiesta per i lunghi percorsi. La Terra sfruttava le sue riserve di carbone e di uranio con efficienza crescente, ma in sé quelle riserve erano limitate.

mercoledì 6 gennaio 2016

Universo (di Robert A. Heinlein)

Questa è una delle storie più importanti nella storia della fantascienza di ogni tempo. Parla di una enorme astronave i cui abitanti avevano dimenticato chi erano, cosa facevano, e persino la natura della loro esistenza.

UNIVERSO, di Robert A. Heinlein




«Attenzione, c'è un mutante laggiù!»
Al grido d'allarme, Hugh Hoyland si abbassò, raggomi­tolandosi su se stesso. Un proiettile metallico a forma d'uovo colpì la paratia a un centimetro dalla sua testa, ri­schiando di fracassargli il cranio. Hoyland si era piegato con uno scatto tale che i suoi piedi si erano sollevati dalle lastre del pavimento, e prima di toccare di nuovo il suolo spinse energicamente i piedi contro la paratia alle sue spalle, lanciandosi in avanti. Si proiettò in posizione oriz­zontale lungo il passaggio, con il pugnale in mano.
Girandosi in aria, frenò il proprio slancio puntando i piedi contro la paratia metallica, proprio nel punto da cui il mutante lo aveva attaccato, e ricadde lentamente in pie­di. Il restante tratto del passaggio era deserto. I suoi due compagni nel frattempo lo avevano raggiunto, scivolando con strani movimenti lungo il pavimento.
«È fuggito?» chiese Alan Mahoney.
«Sì» rispose Hoyland. «Ho fatto in tempo a veder­lo mentre si infilava in quel boccaporto. Una femmina, direi. Mi è sembrato avesse quattro gambe.»
«Due gambe o quattro, ormai non l'acchiappiamo più» osservò il terzo uomo.
«E chi Huff lo voleva prendere?» protestò Mahoney. «Io no di certo!»
«Ma io sì!» ribatté Hoyland. «Per Jordan, se avesse mirato un centimetro più in basso, adesso sarei già pron­to per il Convertitore.»
«Ma è possibile che nessuno di voi due riesca a dire tre parole senza metterci una bestemmia?» li rimpro­verò il terzo uomo. «E se il Capitano vi sentisse?»
Nel nominare il Capitano si toccò la fronte con un ge­sto di reverenza.
«Oh, per l'amor di Jordan» sbuffò Hoyland «non essere così rigido, Mort Tyler. Non sei ancora uno scien­ziato, in fin dei conti. Credo di essere osservante almeno quanto te... ma non è un peccato mortale dare sfogo ogni tanto ai propri sentimenti. Anche gli scienziati lo fanno. Li ho sentiti con le mie orecchie.»
Tyler aprì la bocca per ribattere, ma ci ripensò e lasciò perdere.
Mahoney prese Hoyland per il braccio.
«Dammi retta, Hugh» lo pregò «andiamocene via di qua. Non ci siamo mai spinti così in alto. Non mi sento tranquillo... Ho bisogno di tornare dove posso sentire un po' di peso sui piedi.»
Hoyland guardò con rimpianto il boccaporto da cui il suo assalitore era scomparso, continuando a stringere l'impugnatura del coltello. Si rivolse quindi a Mahoney.
«D'accordo, ragazzo» disse. «Abbiamo molta stra­da da fare per tornare indietro.»
Si voltò e iniziò a strisciare verso il boccaporto da cui avevano raggiunto il livello dove si trovavano ora; gli altri due lo seguirono. Senza servirsi della scaletta che avevano utilizzato per salire, Hoyland si lasciò cadere nell'apertu­ra, scendendo con un lento ondeggiamento fino al ponte posto cinque metri più sotto, con i due compagni a breve distanza. Un altro boccaporto, poco lontano dal preceden­te, li fece accedere al ponte di un livello ancora inferiore.