lunedì 1 giugno 2015

La Sentinella (Racconto di Arthur C. Clarke)

"La Sentinella" è un racconto pubblicato per la prima volta nel 1948 dallo scrittore inglese Arthur C. Clarke mente della celeberrima saga di "Odissea nello Spazio". Il racconto qui proposto può essere considerato l'embrione del romanzo 2001 Odissea nello Spazio e del film omonimo (sviluppati contemporaneamente e usciti nel 1968).
"La Sentinella" è considerato uno dei testi che ha maggiormente ispirato Stanley Kubrick nelle sue opere.
LA SENTINELLA

            



La prossima volta che vi capiterà di vedere la luna piena, alta, a meridione, osservatene attentamente il contorno sulla  destra  e lasciate  correre  l'occhio in su, lungo la  curva del disco. A sessanta gradi  dalla sommità,  noterete  un  piccolo  ovale  scuro:  chiunque,  dotato  di vista  normale,  è  in  grado di  trovarlo facilmente. È la grande pianura circondata da monti,una delle più belle della Luna, conosciuta con il nome di Mare Crisium, il Mare delle Crisi. 
Con un diametro di cinquecento chilometri e circondato da un anello di montagne imponenti, non era mai stato esplorato finché non lo raggiungemmo alla fine dell'estate del 1996. 
La nostra era una spedizione su vasta scala. Due navi da carico avevano trasportato i rifornimenti e le attrezzature dalla principale base lunare del Mare Serenitatis, lontana ottocento chilometri. C'erano poi tre piccoli razzi che dovevano servire al trasporto su distanze brevi in regioni nelle quali era impossibile servirsi  dei  veicoli  di  superficie.  Ma,  per fortuna,  per  quasi  tutta  la sua estensione,  il Mare  Crisium  è pianeggiante.  Non  ci  sono  quei  grandi  crepacci  così frequenti e  pericolosi altrove,  e  si  incontrano raramente crateri o alture di notevoli dimensioni. Secondo le previsioni, i nostri potenti trattori cingolati non avrebbero avuto difficoltà a portarci ovunque volessimo. 
Io  ero  il  geologo  -  o  il  selenologo,  se  si  vuole  essere  pignoli  -  che  comandava  il gruppo destinato all'esplorazione  della  parte  meridionale  del  Mare.  Ne  avevamo attraversato  più  di centocinquanta chilometri in una settimana, procedendo ai piedi delle montagne, sulla spiaggia di quello che, milioni di anni fa, era stato un mare vero. Quando la vita si affacciava sulla Terra, quel mare era già moribondo. Le acque si ritiravano dai fianchi di quelle scogliere meravigliose e defluivano nel cuore vuoto della Luna. Sul suolo che percorrevamo, l'oceano senza maree era stato un tempo profondo ottocento metri e ora l'unica  traccia  di acqua era data dalla brina  che si trovava a volte nel cuore di caverne in cui non penetrava mai la bruciante luce del sole. 
Eravamo partiti in esplorazione molto presto, nella torpida alba lunare, e disponevamo ancora di quasi tutta  una  settimana  terrestre  prima  che  facesse  notte.  Varie  volte  al  giorno scendevamo  dal  nostro trattore, rivestiti dalle tute spaziali, alla ricerca di minerali interessanti, oppure per piantare nel terreno contrassegni utili ai viaggiatori futuri. Si trattava di compiti noiosi, abitudinari. L'esplorazione lunare è del tutto priva di rischio, e anche di emozioni. Potevamo vivere comodamente per un mese nei nostri trattori pressurizzati,  e  se  ci  fosse  capitato  qualche guaio,  potevamo  sempre  chiedere  soccorso  per  radio  e starcene seduti ad aspettare che una delle astronavi venisse a prelevarci. 
Ho appena finito di dire che non c'era niente di emozionante nell'esplorazione lunare, ma naturalmente non è vero. Non ci si stancava mai della vista di quelle montagne incredibili, tanto più aspre delle dolci alture della Terra. Aggirando i capi e i promontori di quel mare fantasma non si poteva mai sapere quali nuovi splendori sarebbero apparsi ai nostri occhi. 
L'intera curva meridionale del Mare Crisium è un ampio delta dove un tempo avevano scavato il loro letto alcuni fiumi, alimentati probabilmente dalle piogge torrenziali che avevano sferzato le montagne durante la breve era vulcanica, quando la Luna era giovane. 
Ognuna  di  quelle  antiche  valli  fluviali  era  un  invito,  una  sfida  a  inerpicarsi  sulle sconosciute  alture sovrastanti.  Ma  dovevamo  percorrere  ancora  centocinquanta  chilometri circa,  e  dovevamo limitarci  a guardare con desiderio le cime che altri avrebbero scalato. 
A  bordo  del  trattore  seguivamo  l'orario  terrestre.  Ogni  sera,  alle  ventidue  esatte, inviavamo  l'ultimo messaggio della giornata alla base, e per quel giorno il lavoro era finito. Fuori, le rocce continuavano a bruciare sotto il sole a picco, ma per noi era notte, finché non ci svegliavamo otto ore più tardi. Allora uno di noi preparava la colazione, si levava un gran ronzio di rasoi elettrici, e qualcuno sintonizzava la radio  sulle  trasmissioni  a  onde  corte  della  Terra.  In  effetti,  quando  il  profumo  delle salsicce  fritte cominciava a invadere la cabina, era difficile credere di non essere già tornati sul nostro vecchio pianeta, tanto ogni cosa pareva normale e casalinga, a parte la sensazione di pesare meno e la lentezza innaturale con cui cadevano gli oggetti. 
Era il mio turno di preparare la colazione nell'angolo della cabina principale che serviva come cambusa.
Nonostante siano passati tanti anni, ricordo con estrema chiarezza quel momento, perché la radio aveva appena finito  di trasmettere  una  delle  mie  canzoni preferite,  la  vecchia  aria  gallese David delle  Rocce Bianche. Il nostro conducente era già fuori, in tuta, a controllare i cingoli. Il mio assistente, Louis Garnett, seduto al posto di guida, soprelevato rispetto alla cabina, stava scrivendo sul libro di bordo alcune note relative al lavoro del giorno precedente. 
Mentre aspettavo, come qualsiasi brava massaia terrestre, che le salsicce rosolassero in padella, lasciai scorrere pigramente lo sguardo sulle pareti montuose che chiudevano tutto l'orizzonte verso sud e che proseguivano a perdita d'occhio verso est e ovest oltre la curvatura della Luna. Pareva che distassero solo un paio  di  chilometri  dal  trattore,  ma  io  sapevo  che,  invece,  la più  vicina era  a  trenta chilometri  di distanza o qualcosa di più. Sulla Luna, è ovvio, i particolari non perdono in nitidezza per la lontananza, mancando l'atmosfera che, sulla Terra, attenua, offusca e a volte trasfigura tutti gli oggetti lontani. 
Quelle montagne erano alte tremila metri, e si innalzavano a perpendicolo rispetto alla pianura, come se in ere lontane un'eruzione sotterranea le avesse spinte verso il cielo attraverso la crosta fusa. La base, anche di quelle più vicine, restava nascosta dalla forte curvatura della superficie pianeggiante, perché la Luna è un mondo piccolo, e l'orizzonte distava solo tre chilometri dal punto in cui io mi trovavo. 
Alzai gli occhi sui picchi che nessun uomo aveva mai scalato, quei picchi che, prima della comparsa della vita terrestre, avevano visto l'oceano lunare ritirarsi nella sua tomba e portare via con sé la speranza e la promessa di un mondo. La luce del sole batteva su quei grandi bastioni con un bagliore che feriva gli occhi, eppure, sopra le loro vette, le stelle brillavano ferme e vivide in un cielo più nero di quello di una notte invernale sulla Terra. 
Stavo voltandomi, quando il mio sguardo fu attratto  da uno scintillio  metallico  quasi sulla cresta di un grande promontorio che si protendeva nel Mare, cinquanta chilometri a ovest della mia posizione. Era un punto luminoso piccolissimo, come se uno di quei picchi crudeli fosse riuscito a strappare dal cielo una stella,  e  io  pensai  che  fosse  il  riverbero  della  luce  del  sole,  riflesso direttamente  nei miei occhi  dalla superficie particolarmente levigata di una roccia. 
Era una cosa che capitava spesso. Quando la Luna è nel secondo quarto, gli osservatori terrestri riescono a  volte  a  vedere  le  grandi  catene  dell'Oceanus  Procellarum  ardere con un'iridescenza biancazzurra, causata dai raggi di luce solare che, riflessi dai loro pendii, rimbalzano da mondo a mondo. Ma io ero curioso di sapere che specie di roccia potesse mai brillare a quel modo lassù, perciò mi arrampicai nella torretta di osservazione e puntai verso ovest il nostro telescopio da cento millimetri. 
Non riuscii a vedere molto, ma quello che scorsi fu sufficiente a suscitare i miei desideri. Chiara e nitida nel mio campo visivo, la massa del promontorio pareva lontana meno di un chilometro, ma l'oggetto che aveva attirato la mia attenzione era troppo piccolo perché potessi capirne la natura. Eppure, sebbene non riuscissi a riconoscerlo, vedevo che possedeva una certa simmetria e che era posato su una zona della sommità stranamente piatta. Fissai a lungo il misterioso scintillio, aguzzando gli occhi nello spazio, finché una  forte  puzza  di  bruciato  proveniente dalla cambusa  non  mi informò  che  le  salsicce della  colazione avevano fatto invano il loro viaggio di quattrocentomila chilometri.
Mentre quella mattina avanzavamo attraverso il Mare Crisium, con le montagne a  occidente  che  si  elevavano  sempre  più,  continuammo  a  discutere.  Anche  quando  uscimmo per  le consuete ricerche minerarie, le discussioni proseguirono per radio. I miei compagni sostenevano che era assolutamente  certo  che  sulla  Luna  non  fosse  mai  esistita  una  forma di  vita  intelligente.  I  soli  esseri viventi che avessero mai abitato il nostro satellite erano gli esemplari molto primitivi di vita vegetale che conoscevamo, e i loro antenati meno degeneri. Questo lo sapevo anch'io, ma a volte nella vita  si presentano occasioni in cui uno scienziato non deve temere di farsi ridere dietro. 
- Sentite -dissi alla fine - voglio salire lassù, se non altro per mettermi il cuore in pace. Quella montagna è alta meno di tremila cinquecento metri, il che equivale a meno di seicento metri a gravità terrestre, e io posso  andare  e  tornare  in  venti  ore  al  massimo.  Ho  sempre  desiderato  scalare  una  di  quelle  cime,  e adesso ho un eccellente pretesto per farlo. 
- Se non ti romperai l'osso del collo - disse Louis Garnett - diventerai lo zimbello della spedizione, quando torneremo alla base. D'ora in avanti, quella montagna verrà probabilmente chiamata la "Follia di Wilson". 
- Non  mi  romperò  l'osso  del  collo  -  dissi  con  fermezza.  -  Chi  si  è  arrampicato  per  primo  su  Pico  ed Elicona? 
-Ma non eri un po' più giovane, allora? - chiese gentilmente Garnett. 
-Questa è una ragione di più per andare - risposi, con grande dignità. 
Quella  sera  ci coricammo  presto,  dopo  essere  arrivati  con  il  trattore  a  meno  di mezzo chilometro  dal promontorio.  Garnett  sarebbe  uscito  con  me,  la  mattina  dopo:  era  un ottimo  scalatore,  e  aveva partecipato ad altre imprese del genere in mia compagnia. Il nostro conducente, invece, fu lieto di restare a guardia della macchina e di non dover fare altro per tutta la giornata. 
A prima vista, pareva che fosse assolutamente impossibile arrampicarsi su quelle pareti, ma chiunque ha un po' d'esperienza  alpinistica  sa che le scalate non presentano difficoltà,  in  un mondo dove il peso è ridotto a un sesto del normale. Il vero pericolo, nell'alpinismo lunare, sta nella temerarietà. Una caduta di duecento metri, sulla Luna, può uccidere esattamente come una di trenta metri sulla Terra. 
Facemmo la prima sosta su un cornicione abbastanza ampio a circa milleduecento metri di altitudine sulla pianura. Arrampicarsi non era stato difficile, ma lo sforzo a cui non ero più abituato mi aveva irrigidito i muscoli delle gambe, ed ero felice di potermi riposare un po'. Visto di lì, il trattore pareva un minuscolo insetto di metallo  ai piedi della  parete. Prima di riprendere la scalata, comunicammo via  radio  i nostri progressi al conducente. 
Dentro la tuta, la temperatura era gradevolmente fresca, perché il sistema di refrigerazione  annullava  gli  effetti  del  sole  ardente  ed  eliminava  il  calore  prodotto  dai nostri  sforzi muscolari. Ci scambiavamo raramente qualche parola, e solo per darci l'un l'altro un consiglio sul modo di proseguire e per discutere sulla via migliore da prendere. Non so cosa pensasse Garnett, forse che quella era la più assurda caccia alla balena bianca in cui si fosse imbarcato. Io non potevo che dargli ragione, almeno in parte, ma - se non altri per me - il piacere della scalata, la consapevolezza che nessun uomo era  salito  su  quella  parete  prima  di  noi  e il  gran  respiro  del  panorama  che  andava  sempre  più ampliandosi, erano di per se stessi una ricompensa. 
Non  ricordo  di  avere  provato  un'emozione  particolare  quando  ci  trovammo  davanti all'ultimo tratto  di roccia, quello che avevo esaminato al telescopio il giorno prima, da cinquanta chilometri di distanza. A una  ventina  di  metri  sopra  le  nostre  teste  la  parete  terminava bruscamente, e là,  sullo  spiazzo  così formato, c'era l'oggetto che mi aveva spinto ad attraversare la distesa deserta. Quasi certamente era solo uno spuntone di roccia, scheggiato in altre ere dall'urto di una meteorite, con i piani di sfaldatura ancora lisci e rilucenti in quel silenzio incorruttibile ed eterno.
La roccia  non  aveva  appigli  e dovemmo  servirci  di  un rampino.  Le mie  braccia  stanche riacquistarono forza mentre lanciavo l’àncora a tre punte dopo averla fatta roteare sopra la testa. La prima volta mancò la  presa  e  ricadde  lentamente,  mentre  noi  riavvolgevamo  la  corda.  Al terzo  tentativo  le punte s'incastrarono saldamente, e nemmeno il peso dei nostri due corpi insieme le smosse più. 
Garnett mi lanciò un'occhiata piena d'ansia. Capivo che voleva salire per primo, ma gli sorrisi da dietro il visore del casco e scossi la testa. Poi, senza fretta, mi accinsi all'ultimo tratto della scalata. 
Anche con la tuta addosso, pesavo solo una ventina di chili, perciò mi tirai su a forza di braccia, senza rendermi la briga di aiutarmi con i piedi. Mi fermai sull'orlo a salutare con la mano il mio compagno, poi mi issai e, drizzatomi in piedi, guardai davanti a me. 
Dovete  tenere  presente  che  fino  a  quel  momento  ero  quasi  del  tutto  convinto  che  lassù non  avrei scoperto  niente  di  strano  o  d'insolito.  Quasi,  ma  non  completamente;  ed  era stato  quel dubbio ossessionante a spingermi fin lì. Be', il dubbio ormai era svanito, ma l'ossessione era appena al principio. 
Mi trovavo su un piccolo plateau, largo circa una trentina di metri. Una volta era levigato troppo levigato per essere naturale -ma le meteoriti cadute nel corso di innumerevoli millenni ne avevano bucherellato e sconvolto la superficie. Era stato livellato perché potesse reggere una struttura scintillante, di forma quasi piramidale, alta il doppio di un uomo, incastonata nella roccia come una gigantesca gemma dalle mille sfaccettature. 
Probabilmente,  in  quei  primi  attimi  non  provai  nulla.  Poi  sentii  un  enorme  sollievo,  una strana  gioia inesprimibile. Perché io amavo la Luna, e ora sapevo che il muschio abbarbicato sui pendii di Aristarco ed Eratostene non era l'unica forma di vita da lei prodotta quando era giovane. Il vecchio, assurdo sogno dei primi esploratori era vero. Dopotutto, era davvero esistita una civiltà lunare, ed ero stato io il primo a trovarla. Il fatto che fossi arrivato con cento milioni di anni di ritardo non mi preoccupava, mi bastava essere arrivato. 
Il mio cervello riprese a funzionare in modo normale, ad analizzare, a porsi interrogativi. Che cos'era quella struttura? Un'abitazione? Un santuario? O qualcosa che nella mia lingua non aveva nome? Se era un'abitazione, perché l'avevano costruita in quel punto pressoché inaccessibile?
Mi chiesi se non fosse stato un tempio, e immaginai gli adepti di qualche strano culto invocare le lorodivinità perché li salvassero mentre la vita sulla Luna declinava  con la  morte degli  oceani,  e invocarle invano. 
Feci qualche passo per esaminare la piramide più da vicino, ma la cautela m'impedì di accostarmi troppo.
Mi intendevo un poco di archeologia, e cercai di stabilire il livello della civiltà che aveva spianato la cima di quella montagna ed eretto le superfici della piramide, scintillanti come specchi, che mi abbagliavano ancora. 
Gli  antichi  egizi  sarebbero  stati  in  grado  di  farlo,  posto  che  i  loro  operai  disponessero dello  strano materiale che gli architetti lunari, molto più antichi di loro, avevano adoperato. 
Poiché l'oggetto era relativamente piccolo, non pensai che poteva anche essere il prodotto di una specie più progredita della mia. L'idea che sulla Luna fossero esistiti esseri intelligenti era già di per sé talmente difficile da ammettere, che il mio orgoglio si rifiutava di fare l'ultimo e più umiliante passo. E poi notai qualcosa che mi fece rizzare i capelli sulla nuca, una cosa così trascurabile e innocua che forse molti non ci avrebbero neppure fatto caso. Ho già detto che la spianata era crivellata dalla caduta di meteoriti, ma era anche ricoperta da uno spesso strato di polvere cosmica, quella polvere che si stende sulla superficie di tutti i mondi privi di atmosfera. E, tuttavia, sia la polvere sia i segni lasciati dalle meteore, terminavano bruscamente in corrispondenza di un ampio cerchio sgombro, che circondava completamente la piccola piramide, come se un muro invisibile la proteggesse, dalle ingiurie del tempo e dal lento ma incessante bombardamento dallo spazio. 
C’era  qualcuno  che  mi  gridava  negli  auricolari,  e  finalmente  mi  resi  conto  che  Garnett  mi stava chiamando già  da molti minuti.  Mi avvia  con passo incerto verso l’orlo  del plateau,  e gli feci cenno di raggiungermi, perché  non  ero  sicuro  di  riuscire  a  parlare.  Poi  tornai  verso  il cerchio  nella  polvere.  Mi chinai ad afferrare un frammento di roccia e lo scagliai, senza troppa forza, verso l’enigma scintillante. Se il sasso, nell’incontrare la barriera invisibile, 
fosse sparito, non me ne sarei meravigliato; invece, scivolò lentamente a terra, come se avesse urtato contro una superficie emisferica. 
Ora sapevo che l'oggetto davanti a me non si poteva paragonare a nessun reperto archeologico della mia specie. Non era  un edificio,  ma una macchina,  che si proteggeva  da  sola  mediante forze che avevano sfidato l'eternità. Queste forze, di qualunque natura fossero, erano tuttora attive, e forse io mi ero già avvicinato troppo. Pensai a tutte le radiazioni che l'uomo aveva catturato e domato nel corso dell'ultimo secolo.  Per  quel  che  ne  sapevo,  potevo  anche essere  ormai  condannato,  come  se  fossi penetrato nell'atmosfera silenziosa e letale di una pila atomica non schermata. 
Ricordo che mi voltai verso Garnett, il quale, alla fine, mi aveva raggiunto e se ne stava immobile al mio fianco.  Mi  parve  talmente  assorto  che  non  volli  disturbarlo,  ma  mi  diressi  verso l'orlo  del dirupo sforzandomi di riordinare i miei pensieri. In basso davanti a me si stendeva il Mare Crisium -davvero Mare delle Crisi, adesso -strano e minaccioso per quasi tutta l'umanità, ma ormai familiare e rassicurante per me. Alzai gli occhi verso la falce di Terra nella sua culla di stelle, e mi chiesi che cosa ci fosse, sotto le sue  nuvole,  quando  gli  sconosciuti  costruttori  lunari avevano  terminato  la  loro  opera.  Era la  giungla fumante del Carbonifero, la spoglia riva degli oceani su cui strisciavano i primi anfibi alla conquista della terraferma, oppure, ancora prima, il lunghissimo periodo di solitudine, che precedette lo sbocciare della vita? 
Non chiedetemi come mai non abbia intuito subito la verità, che adesso sembra così ovvia. Nel tumulto emotivo della scoperta, mi ero convinto che l'apparizione di cristallo doveva essere stata costruita da una specie  vissuta  nel  remoto  passato  della  Luna,  ma  d'improvviso,  come  una rivelazione,  mi balenò  la certezza che quell'oggetto fosse estraneo alla Luna quanto lo ero io. 
Nel corso di vent'anni d'esplorazioni non avevamo trovato tracce di vita, tolte alcune piante degenerate.
Nessuna civiltà lunare, per quanto moribonda, avrebbe potuto lasciare soltanto una, e una sola, prova della sua esistenza. 
Tornai a guardare la piramide scintillante, e mi parve più estranea che mai alla Luna. E allora, d'un tratto, fui scosso da una risata isterica causata dall'emozione e dallo sforzo eccessivi. Perché mi pareva che la piccola piramide mi avesse rivolto la parola per dirmi: "Spiacente, caro, ma anch'io vengo da fuori". 

Ci sono voluti vent'anni per infrangere quello scudo invisibile  e arrivare  alla  macchina racchiusa fra  le pareti  di  cristallo.  Quello  che  non  riuscimmo  a  capire  lo  spezzammo,  alla  fine,  con  la brutale  potenza dell'energia atomica. Io stesso ho visto i frammenti di quella cosa bella e scintillante che trovai un giorno, lassù fra le montagne. 
Non significano assolutamente niente. I meccanismi - posto poi che fossero meccanismi della piramide sono  il  frutto  di una  tecnologia  molto  al  di  là  del  nostro  orizzonte,  forse  di  una tecnologia  delle  forze fisico-mentali. Il mistero continua a tormentarci ogni giorno di più, ora che,
dopo avere raggiunto gli  altri  pianeti,  sappiamo che  solo  la  Terra,  nel nostro  piccolo  angolo di  universo,  ha  dato origine  a  vita intelligente.  Né  quella  macchina  può  essere  stata costruita  da  qualche antichissima  civiltà sconosciuta sorta  sul  nostro  pianeta,  perché  lo spessore  della  polvere meteorica  sulla  spianata  ci  ha permesso facilmente di calcolarne l'età. Quella polvere cominciò a posarsi sulla montagna lunare ancor prima che la vita emergesse dai mari della Terra. 
Quando il nostro pianeta aveva la metà dei suoi anni attuali, qualcosa che veniva dalle stelle attraversò il sistema solare,  lasciò  quella  prova  del suo passaggio, e proseguì  per la  sua strada.  Finché noi non la distruggemmo,  quella  macchina  svolse  il  compito  assegnatole  dai suoi  costruttori.  E  quale fosse  quel compito credo dì intuirlo. 
Nella spirale della Via Lattea ruotano cento miliardi di stelle; molto tempo fa, altre specie, sui pianeti di altri soli, devono avere raggiunto e superato il livello a cui noi siamo oggi arrivati. 
Pensiamo a simili civiltà tanto lontane nel tempo, nate in un'epoca in cui si potevano ancora scorgere gli ultimi bagliori della creazione: razze padrone di un universo talmente giovane che la vita era sorta solo su un  infinitesimo  numero  di  mondi.  Quelle  razze  dovevano  essere  isolate  fra  loro:  un isolamento  era impossibile da immaginare, l'isolamento di dèi che puntano lo sguardo sull'infinito e non trovano nessuno con cui condividere i propri pensieri. 
Devono aver esplorato gli ammassi stellari come noi esploriamo i pianeti del nostro sistema. Dovunque c'erano mondi, ma erano deserti, o popolati di creature striscianti, incapaci di pensare. Così era la nostra Terra, col fumo dei vulcani che offuscava ancora il cielo, quando la prima nave delle razze dell'alba giunse dagli abissi oltre Plutone. Sorpassò i pianeti esterni chiusi nella morsa del gelo, sapendo che la vita non poteva far parte del loro destino. Giunse, e si fermò, sui pianeti interni, che si scaldavano al fuoco del Sole in attesa che la loro storia avesse inizio. 
Quegli esploratori devono avere studiato la Terra, che orbita nella stretta fascia fra i pianeti del ghiaccio eterno e quelli perpetuamente arroventati, e devono avere concluso che era la figlia prediletta del Sole.
Su  di  essa,  nel  lontano  futuro,  era  destinata  a  sbocciare  l'intelligenza.  Ma  sul  loro cammino  c'erano ancora innumerevoli stelle, e poteva darsi che nessuno di loro ripassasse di lì. 
E così lasciarono una sentinella, una dei milioni di sentinelle che devono avere sparso nell'universo per sorvegliare  tutti  i  mondi  in  cui  respirava  la  promessa  della  vita.  Era  un  faro  che  nel corso  delle  ere avrebbe pazientemente segnalato che nessuno l'aveva ancora scoperto. 
Forse ora capite perché la piramide di cristallo fu collocata sulla Luna e non sulla Terra. Ai suoi creatori non importavano le specie ancora in lotta per uscire dalla barbarie. La nostra civiltà poteva interessarli unicamente  se  avessimo  dato  prova  delle  nostre  capacità  di  sopravvivenza,  valicando  lo spazio  e staccandoci dalla Terra, la nostra culla. Questa è la sfida che, prima o poi, si presenta a tutte le specie intelligenti. È una sfida duplice, perché 
dipende prima dalla conquista dell'energia atomica, e poi dall'esito della scelta finale fra la vita e la morte nell'olocausto nucleare. 
Una volta che noi avessimo superato il punto critico, era solo questione di tempo scoprire la piramide e forzarla,  per vedere  cosa  ci  fosse  dentro.  
Adesso  non  emette  più  segnali,  e  chi  di  dovere  avrà  ormai rivolto la propria attenzione alla Terra. Forse vogliono aiutare la nostra civiltà in fasce. Ma devono essere vecchi, molto vecchi, e spesso i vecchi sono follemente  gelosi dei giovani. 
Ora non posso più guardare la Via Lattea senza chiedermi da quale di quelle fitte nebulose stellari stiano arrivando  gli  emissari.  Se  mi  concedete  un'analogia  molto  semplice, noi  abbiamo  tirato  il segnale d'allarme, e adesso non possiamo fare altro che aspettare. 




Non credo che l'attesa sarà lunga. 

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